2015년 5월 31일 일요일

대한민국 고대사 단군조선

Part 1 - Walden Audiobook by Henry David Thoreau (Ch 01)

플라톤 미의 이데아와 보편적 아름다움 성형흉터치료

플라톤 미의 이데아와 보편적 아름다움 성형흉터치료


플라톤이 말하는 아름다움의 본질인 미의 이데아가 바로 서로 다른 대상들에 공통적으로 관철되는 미의 공통성미의 보편성의 근거가 된다. 여기에서 공통성과 보편성은 동일한 의미는 아니다. 그러나 감각적 시각 능력을 통해 파악되는 대상은 모두 개별적이며 하나로 환원되지 않는 차이점을 지니기 때문에, 감각 대상으로부터 동일성을 도출해내려면 먼저 감각적 차원에서 유사성과 공통성이 경험되어야 한다. 그 대상이 다른 대상과 다르다고 할 만한 차이점과 개별성이 관철되고 있음에도 불고하고, 그 대상을 다른 대상과 동일하게 파악하려면 공통성의 본질적 특징이 개입하고 있어야 한다. 그 특징을 개념화한 것이 원형’ ‘본질’ ‘이데아이다.
아름다움의 본질, 즉 미의 이데아가 존재하기 때문에, 인간은 하나의 감각 대상에서 미를 경험하면서 동시에 모든 육체의 미가 동일하다고 판단하게 만드는 개념적 장치인 미의 이데아에 이르게 된다. 이러한 개념은 이성적 사유를 통해서, 정신적 능력을 통해서 파악된다.
정신적 능력을 지닌 인간이라면, 즉 감각적 능력 이상의 이성적이고 지성적인 능력을 지닌 인간이라면, 성적 욕구에서 해방되어, 시들지 않는 미의 보편성인 정신적 미를 발견하게 된다. 정신성은 인간 육체로부터 감각적으로 자극을 받지만, 감각적 차원을 넘어서는, 즉 육체적 차원을 넘어서는 아름다운 활동아름다운 학문으로 나아간다. 활동과 학문은 감각적 아름다움과는 다른 차원의 것이며, ‘감성이 아니라 이성에 의해 파악되는 것이다. 인간들이 아름답다고 인식하는 활동과 학문에는 아름다움의 본질인 미의 이데아가 분유되어 있고, 미의 이데아를 닮아 있는 아름다운 활동아름다움 학문미의 이데아를 상기시킨다.
 
사랑의 철학, 이정은, 살림지식총서 073, 살림, 36-37페이지
 
필자는 미는 상대적이며 공통적이고 보편적인 아름다움은 존재하지 않는다고 생각했다. 하지만 여러 논문을 찾아보면 인류 공통적으로 남녀노소, 지역, 시대를 따지지 않고 미인상이 분명히 존재한다. 즉 서구적 미인을 보면 대부분은 미인으로 거의 인정한다. 물론 남태평양이나 아프리카 섬에는 아직도 비만인이 더 아름답다고 대접받는 곳도 분명히 존재한다. 이런 지역은 더 문명화되고 개방화되면 서구사회의 표준을 따르게 될 것이다. 이런 표준적이고 획일화된 아름다움으로 결국 성형산업이 발달하게 되는데 또 성형흉터도 비례하여 늘어나고 있다. 이런 코가 가슴, 지방흡입등 성형흉터는 이미지한의원의 수술후 흉터침과 한약 재생약침으로 치료할 수 있다.

Passeggiate per l'Italia 20

Passeggiate per l'Italia 20


Essa origlia sempre al giuoco della natura, da cui prende in prestito
la forma, e graziosamente adatta l'effige animale alla pianta e alla
stessa forma umana, spiegando sensibilmente il fenomeno intrigato ed
enigmatico della vita. È anche bello tutto ciò che di finito la vitale
necessità ci offre, quando l'uomo animato l'afferra e lo modella in
plastiche forme, imprimendo alla materia greggia lo stampo della divina
libertà, in modo da divenire per lui stesso un celestiale godimento il
bisogno quotidiano. Sì, chi chiamerebbe a ragione ignobile e misera
quest'arte che nelle pareti domestiche così propizia governa come
un'economa? Tutto ciò di cui la vita ha bisogno per godimento e per
conforto del cuore, essa tocca con le mani che sanno trasformare in
leggiadre figure. Anche ciò che è ordinario sa rendere raro, e prezioso
ciò che è comune, piacevole la necessità, e per lei l'abitudine diventa
un attraente poema. Ecco, essa offre i frutti di Pomona in preziosa
tazza, versa il vino dalla brocca orlata di figure nel corno da bere e
presenta allo sguardo la rosa purpurea in tenero cristallo. Inoltre,
sospende il lume al candelabro modellato con arte molteplice, perchè
a doppio piacere rianimi e ridesti gli spiriti. Guardate così questo
svelto lavoro! Quando l'olio esalante ne ha impregnato ogni lampada ed
esse splendono all'intorno come una pensile ghirlanda, non brillerà
forse ai lieti visi e alle sagge conversazioni, ovvero alla danza
scrosciante e al suono giubilante dei flauti? Per lungo e lungo tempo
risplenda di gioia questo candelabro! E sia una sentinella al banchetto
ospitale e lungamente per te, o Ione, un messaggio di felicità e
d'innumerevoli feste!»[7]
 
Ciò disse e tacque. Amore gli aveva fortemente attizzato la fiamma
della parola nel petto con gli sguardi entusiastici della fanciulla.
E finì così il silenzio di ammirazione; intanto si udiva fremere il
rimbombo del Vesuvio, quand'ecco si levò un grido di giubilo: dalle
chiome si sciolsero le donne le ghirlande inanellate, le gettarono
su di lui, e come avviene a chi contempla la sbocciante primavera,
quando dai rami di pesco lo zefiro spazza via la fioritura, così
s'intrecciarono attorno al giovane e caddero le agitate corone, mentre
sulle spalle, intorno al capo scrosciava la pioggia di fiori. Ed egli
confuso apparve ancora più bello coronato di fiori, simile a un celeste
nei tratti: ognuno lo guardava con gioia. Ma Menandro nascose tra le
labbra il suo tacito malumore, levò in alto la mano e fissò Arrio con
occhio interrogatore.
 
A ciò Pansa: «O socratico garzone, ti benedica Apollo! Tu hai ben
parlato; vieni domattina alla mia villa, perchè ti versi dell'oro nelle
mani; ed Arrio saprà bene offrire all'eccellente giovane un regalo che
gli farà maggior piacere».
 
Allora gridò lieto Arrio: «Oh! accendete subito le lampade, le
artistiche lampade, in onore di colei che è ritornata! Come un genio,
come un genio amico c'è venuta oggi la luce, perchè l'aria già si
annebbia e la notte scende più presto del solito!»
 
Ma subito Ione: «A me sola conviene, o padre, a me sola s'addice
consacrare le lampade con le mani ospitali, e non deve alcun dito
umiliante toccarmi l'opera divina!» E s'alzò; il solerte fratello le
porse l'orciuolo dell'olio, ed essa lo versò nelle lampade, mentre
leggermente le tremava la mano. E con un lume acceso, simile ad Amore,
se ne stava a lei dappresso l'incantato giovane, aspettando con gli
occhi sorridenti. Non appena ogni lampada si fu imbevuta di olio,
egli porse subito alla sorella la candela fra le mani, ed essa con
lo spirito presago non fallì, chè prima accese l'elegante lampada di
Oneiro, poi l'attraente lampada di Psiche e di Amore, indi quella di
Pallade e finalmente la lampada ultima della Morte.
 
Come è sospeso al cielo nella notte di ambrosia il sublime Orione
con la splendida fascia, quando sul mar di Sicilia dolcemente lo
guidano le Ore, e quando già s'appressa la rosea Alba e un crepuscolo
tremula intorno all'immensa e nevosa cima dell'Etna, così fiammava
ora il candelabro nel tremulo crepuscolo della sala da festa, e sul
volto di Ione volava come uno sprazzo d'oro lo splendore del lume,
trasfigurandola.
 
E risuonò un grido di giubilo, sonoramente applaudiron subito le donne
e corse di bocca in bocca un'esclamazione di maraviglia. Ma un coro di
cantori, che era nascosto dietro le colonne, dolce intuonò un'armonia
che gonfiò di gioia il cuore di tutti.
 
A ciò disse Giulia, la sposa dell'eccellente Balbo: «Come armonizza
bene il candelabro col suono dei flauti e coi canti! Come se gli
si muovessero in giro all'intorno le figure di bronzo, esso agita
delle tremule danze; eppure non ne intendo appieno il senso. Chi sa
interpretare queste lampade? Sono ben scaltri gli artisti, che sempre
avvolgono negli enigmi le figure delle loro magiche mani!»
 
«Giusta la tua osservazione, o bella, gridò Arrio, ed anche a me non
riesce chiaro il senso. Ma tu ce lo dirai, o cantore Ismeno, poichè
invero solo il poeta maneggia la chiave dell'arte, il poeta che è un re
dominatore degli spiriti: mai la pietra silenziosa gli nega la sua voce
ed egli desta al canto persino il bronzo irrigidito».
 
Assai volentieri s'accostò quindi il vecchio Ismeno, che il padre di
Arrio aveva adottato in casa; argentea era la sua barba e bianca la
chioma, e il dignitoso capo già ricurvo per la stanchezza della vita.
Affabilmente ei cominciò subito: «Difficile cosa tu m'ingiungi, o
nobile Arrio. Spesso anche l'uomo più colto sbaglia dinanzi all'idea
del poeta, chè la segreta e misteriosa anima degli artisti profonda
s'immerse nel getto fluttuante del bronzo. Perciò, se la mia parola
sbagliando non desta alcuna eco nel bronzo, perdona, o maestro!
poichè è estraneo a noi il pensiero degli altri uomini». E con le mani
salutò l'amico; i due spiriti eccellenti se ne stavano presso la bella
immagine come la primavera e l'inverno insieme.
 
«Con arte e con sapienza veggo qui modellata nel bronzo, disse Ismeno,
l'immagine della nostra vita e la danza delle Ore. Graziosamente
la prima Ora incomincia la sua: noi la chiamiamo fanciullezza. Essa
s'accosta con incanto e soavemente con la fiaccola scintillante del
Dio del sogno intreccia le sue melodiche danze intorno alla culla
del bimbo. Ecco, il dormiente si desta, allora vengono le favole
e le fiabe, gli allegri giuochi, e lo sciame dei sogni scherzosi
introducono nella vita il bambino a divertirsi con beati trastulli.
Nella tranquillità questi sogni assumono delle forme presso il suo
cuore origliante e gl'intessono segretamente all'intorno un mondo
che comincia a svilupparsi nelle immagini. Pien di presentimento si
sviluppa il piacere e più tardi anche il tetro dolore, e germoglia il
desiderio e la sorte riposa nel germoglio. Ma ben presto se ne torna in
fretta verso il cielo l'Ora della fanciullezza, che ha compiuto il suo
tempo.
 
«Vedete, s'accosta l'altra, Agitando la fiaccola dell'amore, danza
nella vita la bella Menade, l'Ora della gioventù. Essa porge al giovane
la coppa spumante del piacere e del desiderio, e dalla terra gli si
dischiude un lembo di cielo. Non s'indugia nella polvere terrena,
l'umanità gli sembra schiava e pigra; egli vola col sibilante cavallo
aereo di Perseo a combattere i tiranni, ed erra come Icaro beatamente
verso la luce, e come Fetonte infiamma il mondo di ardore. Solitaria
cammina la fanciulla nella presaga tranquillità del cuore, finchè
il nudo nume non le ferisca ad un tratto i sensi, e come Psiche essa
cerca il fuggitivo, addolorata fino alla follia. O celestiale ed alata
Ora della gioventù, troppo rapida ten vai, illudendoci! Sì, colui pel
quale ancora risplende la fiaccola di Amore, è egli stesso un dio!
Goda pure l'ora fuggitiva, quell'ora che non arrivano mai a compensare
gli scettrati anni della vita, fossero pur mille, che l'uomo trascorre
affaticandosi. Una volta sola gli Dei invitano a banchetto il mortale,
ma Icaro e Fetonte precipitano in un attimo dal cielo, tramontano le
speranze ed i vani desiderî come astri, la vita procede con pie' di
bronzo e ammassa tombe su tombe. Anche l'ingannevole Amore getta via
la sua veste sfolgorante e ci lascia nella colpa e nel pentimento l'Ora
della gioventù.
 
«Vedete la terza! Come forte e luminosa spande la sua luce attraverso
le tenebre! Bella nella corona di ulivo, la celeste messaggera di
Pallade! Qui nell'uccello notturno si lasciò artisticamente indovinare
il modellatore. In alto l'Ora solleva l'uomo dal falso sentiero della
scompigliata gioventù e lo introduce tranquillamente nell'apparecchiata
officina della vita, che la donna, propizia adornandola, gli assetta
con amore operoso. Pallade gli apprende la saviezza e le opere
espiatrici del lavoro, e piamente gli limita la sensibilità con la
forza e con la sacra prudenza. E a lungo s'intrattiene la Dea, ben
volentieri essa benedice all'uomo beato il cuore di Dedalo e le
mani che incessanti lavorano. Ecco, già si ammucchiano le buone e
le belle opere e così si accumula una grande eredità da nutrire i
figliuoli; a un tale uomo non piace che quanto è duraturo, la simmetria
armonicamente ordinata delle forze che agiscono sul mondo. Ma nel petto
gli riposa il destino che gli Dei decretarono.
 
«Salve anche a te, o fiaccola della morte che scioglie la vita! Esausta
si piega giù la mano e calmo riposa il cuore dopo la tempesta degli
anni, senza che più s'agiti un desiderio od una speranza. Verso terra
s'inclina il capo, quand'ecco si accosta ieraticamente Eirene, e con
lei viene la ricordanza, la velata madre dei sacri dolori; ritornano
le Ore da lungo tempo scomparse, con dolce saluto di lontano esse
appaiono allo sguardo come le vele del mare, trasfigurate dal sole
che tramonta. Ma con mestizia le contempla il vecchio e con profonda
meditazione rivolge lo sguardo indietro alla vita e ai suoi gustati
beni, e volentieri accoglie ora dagli Dei la morte, come il supremo
dono. Così un giorno possa accostarsi anche a te con volto amico la
morte, o Arrio, tardi nella notte porporina, quando sia già terminato
il filo della tua vita. Ma il mio cuore anela la sua patria, sempre
più calmo esso m'è divenuto ed a me pare come se qui d'intorno mi frusciasse l'ala della morte».   

Passeggiate per l'Italia 19

Passeggiate per l'Italia 19


CANTO III.
 
PALLADE ATENA.
 
 
Canzone, prima che tu t'allontani con la mutevole lampada della vita,
va', mostrati lieta in mio nome ai lontani amanti e dispensa corone
di dolce ulivo e così parla: «Salute a voi, o nobili e pochi! Voi
alimentate sempre nel petto le fiamme ideali e fuggite la vanità e le
tristi consuetudini del giorno. Non vi manchi mai la luce nella vita,
mai la gioia del cuore. Alla vostra casa fiorente batta sempre propizia
l'Aurora e v'introduca nella casa le Ore celesti. Ed alle feste siano
invitati come ospiti gli Dei, per distribuire i doni dell'amore ed
esaudire i prudenti desiderî».
 
Deserta era quel giorno Pompei ed oscura nella festa di Ione, l'aria
cupa ed il mare come spento nell'afa plumbea. Senza vampe il Vesuvio,
e il suo capo era velato da una nube fulva, che il vento del sud
spingeva in alto verso il cielo. E come se errasse il Sonno per le vie
e le case di Pompei, sembravano irrigiditi la città e il lavoro dei
solerti cittadini. Non un rumore risuonava dal porto, nè nel mercato,
nè nell'officina come altre volte, quando il pieno giorno incitava gli
uomini al moto: così incombeva l'aria e l'accidia del vento che snerva.
 
Pure chi a passo premuroso fosse andato nel sobborgo Augusto Felice,
accanto a quei palagi e lungo i frondosi giardini, si sarebbe
soffermato subito alla casa di Arrio ed avrebbe origliato lungi nei
portici, tutti ornati di nastri e fiori. Alto vi giubilava il canto,
cui si mischiava il suono allegro dei flauti lidî e il tintinnio del
metallo e delle arpe sonore. Garzoni in vesti variopinte e graziose
fanciulle si vedevano agili portare le vivande attraverso il fitto
delle colonne. Ed echeggiava sensibilmente un ronzio dalle aperte
sale, dove, appoggiati su cuscini e su coltri di Tiro, uomini e donne
accomunati si divertivano a banchetto, festeggiando il ritorno di Ione
insieme col lauto trattamento di Arrio.
 
Euforione se ne stava adesso nell'atrio, cupo origliando ai suoni delle
festa, solo, in preda ai pensieri del suo cuore. Intorno s'aggiravano
i compagni, i maestri di utili arti, l'orgoglio di Arrio e il fior
fiore delle magnifiche officine, ch'egli aveva di per sè stesso anche
accresciuto, dopo averlo ereditato dal padre; perchè tutto quel che di
meglio ciascuno potè modellare con premurosa cura, gli parve ora giusto
di consacrare alla festa ed agli ospiti degni. Tutti, cautamente,
tenevano nelle mani dinanzi a sè un lavoro artistico, chi un'immagine
a mosaico, chi un vaso con le anse, un altro gioielli scintillanti e
collane di rossi coralli; l'uno un tessuto filato in oro, questi le
gemme che abilmente scavò nel sanguigno diaspro di Cipro ovvero nel
crisolito e negli strati dell'onice leggiadra.
 
Ma Euforione se ne stava, pieno di grazia, nella turba dei molti
compagni, con le mani appoggiate all'alto candelabro, al suo
incantevole lavoro; perchè questo, messo da lui in disparte, spiccava
come un enigma, ravvolto in una nivea tela di lino. In tutto ei
sembrava mutato e la sua nera e ricciuta chioma si levava liberamente
su gli altri, con una tranquilla serietà. E non parlava, per quanto
tutti, avidi di desiderio, mormorassero fra loro, sperando ognuno la
ricompensa, sia della libertà, sia d'un dono qualsivoglia. Nel petto
però gli batteva spesso il cuore come in estasi, quando risuonava
il melodioso nome di Ione; allora gli pulsava più rapido, ma subito
frenava la piena del sentimento, parendogli già di essere a bordo
della nave di Serapione e di vedere le onde giù correre frettolosamente
all'estraneo lido.
 
Passavano le ore per quelli che ivi aspettavano ansiosi enumerando le
fasi della festa: mimi e cori di danzatori in giro si vedevano andare
e venire; quand'ecco si accostò ammiccando l'ordinatore Peisandro, e
subito introdusse nella sala i volenterosi uomini coi doni. Com'essi
entrarono, mettendosi in fila lungo le rilucenti colonne, gli sguardi
del giovane corsero ben presto sulla sala, ed ei vide presso il padre
Arrio la figlia maestosa: severa e seria ella lo guardò coi neri occhi.
 
Ad un tratto con queste parole si rivolse agli ospiti il magnifico
padron di casa: «Vedete, o amici, i figliuoli di Dedalo si son
presentati per offrire doni alla festa, le pregevoli opere della
Grazia. Orsù avvicinatevi, o uomini, e mostrate come anche nella mia
casa Pallade Atena abbia compiuto con arte cose belle ed eccellenti.
E ciascuno a cui sarà fatto dono mi esalti, lodandomi di avermi saputo
asservire lo stesso Fidia e Zeusi».
 
Disse, e i giovani presentarono le graziose opere della bellezza,
che il padrone distribuì in dono agli ospiti. E intorno passavano
i regali: con compiacenza lodavano gli uomini e le donne ora urne
magnificamente ornate e vasi d'alabastro, ora nappi da belletto e
specchi di bronzo ben cesellato; volentieri essi lodavano fermagli e
corni con allegoriche e gioviali figure, ovvero vasi d'oro e di ambra
artisticamente levigata.
 
A un tratto Ipato, fanciullo ancora negli anni, eppure assai pratico
a dipingere sulle tavolette i miti del poeta ellenico, portò un quadro
a colori, un grosso quadro lumeggiato. Se non che questa volta non gli
era riuscito così appariva ed Arrio allora increspò torvamente la
fronte e disse con accento di rimprovero: «Troppo giovane ancora tu
sei, o Ipato; veggo dal quadro che tu preferisti dipingere l'orrido,
la città di Troia divorata dalle fiamme. L'artista smorzi moderatamente
le tinte spaventevoli, pio sappia scansare le Furie e non mai ci sveli
nell'opera il capo di Medusa: no! le figure non dimostrino se non un
dio liberatore degli affanni».
 
E appena ebbe detto queste parole, che gli ospiti origliando guardarono
fuori pieni di meraviglia libera si stendeva agli sguardi la superba
contrada, libero il Vesuvio e s'udiva rimbombare il cratere del
monte e scrosciare cupamente, quand'ecco una fiamma rapida come
vortice guizzò nel cielo. A riprese mugghiavano dei forti scoppi e
si riversavano nuvole di fumo e tenebre. E l'aria diveniva fulva,
scendeva come un rosso crepuscolo, ricoprendo di densa luce la campagna
e le onde ribollenti del mare. D'un subito tutto s'acchetò e tacque
l'ansante cratere che fumava.
 
«Non abbiate paura del monte, gridò Arrio; anzi esso offre uno
spettacolo alla festa, e già nelle sue viscere lo rode la rabbia. Batta
pure imperversando il terremoto con pie' di bronzo, rimbombi pure cupo;
afoso ahi! e soffocante spiri il vento sud; no! non abbiate paura del
monte; noi già conosciamo il modo d'agire del vecchio: per la collera
gli si gonfia a un tratto la rossa vena della fronte, ma poi tosto
sorride di bel nuovo pacato. Intorno al mento gli aleggiano tenere
aurette, e le Ore e Bacco e Pomona e Cerere, la seducente madre, gli
cingono con rose il ginocchio. Versate libagioni di vino, o amici, al
padre Vesuvio».
 
Disse e spruzzò del vino al Vesuvio e insieme con lui ne spruzzarono
anche gli ospiti, e continuarono a parlare con gli occhi rivolti
al fosco cratere, temendo le rinnovate scosse di terremoto, la
lava e la rovina delle pianure. Ma ben presto il vino cacciò via la
preoccupazione, svelto circolò il boccale del mulso e come coppieri
andavano intorno lo stesso Bacco ed Amore.
 
«Guardate Euforione! gridò Arrio di nuovo. Guardate lì il migliore che
se ne sta dietro ai buoni. O come mai tu indugi tanto, o garzone! Orsù,
avanti! che cosa di giocondo tu porti quest'oggi alla festa?»
 
E tutti lo contemplavano, vedendo come il grazioso giovanetto, nel
fascino fiorente della giovinezza s'avanzasse d'un'andatura virile. Le
donne bisbigliarono molto fra loro, le ragazze lo guardarono ed anche
Ione guardò commossa, mentre le palpitava il cuore nel petto.
 
«Fosco s'è fatto il giorno, disse ben presto il garzone, la notte già
s'avvicina; io porto la luce!» Ed ammiccando fe' cenno agli schiavi
di portare dal lato suo l'opera velata, sollevandola sulla tavola.
Allora intorno sedettero ad aspettare gli ospiti silenziosi, dallo
sguardo interrogatore. Con tremule mani ei tolse il niveo panno di
lino, e ne uscì fuori la forma slanciata e scintillante dell'opera
dell'arte, bella come il fiore dell'aloe che spicca nella corona delle
foglie, sporgendo il pomposo gambo dall'aureo frondame. La bellezza
fiammeggiava all'intorno e lungi risplendeva il bronzo simile al sole.
E risuonò un grido di gioia, sonoramente applaudirono le donne e di
bocca in bocca corse un'esclamazione di meraviglia.
 
Ma Euforione se ne stava lì presso il suo lavoro, con grazia s'inchinò
davanti a Ione e disse: «Salute alla figlia di Arrio! La quale,
ritornata fra noi, come attiva padrona comanda nella sala e da vera
massaia provvede a distribuire dalla pienezza della casa. Non le
manchi mai la luce nella vita, mai la gioia del cuore! Risplenda
lungamente per lei e anche fino alla più tarda sera questo bronzo. Ma
il suo ritorno alle pareti domestiche sia come un araldo banditore
di benedizione!» Disse, le s'inchinò profondamente e se ne stette
rispettoso con gli occhi bassi al suolo. Pure una rapida fiamma
divampando salì alle guance della fanciulla; nella sala d'intorno
esultava il grido di plauso, e tutti gli ospiti si precipitarono,
elogiando, verso il candelabro.
 
E Silvia, la figlia dell'edile Vetranio, esclamò: «Con quanto
significato e con quanta bellezza l'ha ideato l'artista! Ben sarebbe
orgogliosa del dono la stessa Giulia, la figlia dell'imperatore Tito!»
E con voce sonora alto gridò Pansa: «Che bel colpo d'occhio! Il bronzo
sembra davvero lavorato dallo stesso Efesto! O divin garzone, tu mi sei
fra gli artisti un re!»
 
Allora dal sedile si levò Menandro, l'eccellente maestro dell'arte
plastica, al quale la Musa non aveva mai concesso i suoi doni con
iscarso favore; molte statue infatti di Dei egli lavorò nel marmo e
molte opere scultorie pose nei templi delle città campane. Se non che,
invido del lavoro altrui e piccolo, della figura di Esopo,[6] covava
l'invidia nell'animo e la brutta serpe della gelosia. Ora sarcastico
incominciò con stridula voce: «Come mi son facili alla lode gli uomini,
quando qualche cosa di luccicante abbaglia i loro ingenui occhi!
No! non più mi state a lusingare, o amici, il magnifico padron di
casa, altrimenti ei ci rinchiude tutti, artisti e lavoratori insieme,
nell'officina degli schiavi!.. Oggi ognuno si chiama artista, dopo aver
fatto un vaso nitidamente orlato, tripodi, lampade e tazze e stoviglie
di bronzo. Chiamate voi già divino e celeste meraviglia a vedere tutto
quel che serve soltanto all'uso quotidiano, e mi nominate già arte quel
che mestamente eseguì uno schiavo con l'animo stretto dal bisogno? E
che cosa allora resterà per noi degno di un onore conveniente, se hanno
lo stesso valore per la gente avvezza a lodare una pentola, una lampada
ed una immagine di 

Passeggiate per l'Italia 18

Passeggiate per l'Italia 18


Ma Euforione rimase come sbalordito dal suono della parola; sul suo
volto si diffuse il pallore della morte e con impeto tese in alto
le mani, esclamando: «Come mai, Ione, hai escogitato di darmi questo
dolore, facendomi errare in terra deserta, quale un girovago fuggiasco?
Assai egregiamente ricinge l'uomo la magnifica corona della libertà,
e per lui essa è il colmo della forza, il suggello e la consacrazione
delle opere. Ahimè! io la desiderai ardentemente per l'amore alla santa
arte figurativa, che la Musa infondeva nel cuore a me, disgraziato
schiavo, acciò gli altri non avessero a dileggiare l'opera del mio
lavoro manuale, schernendo anche le mie produzioni per questa oscura
veste. Perciò io muto lavorando mi esercitai nell'arte nelle ore di
mestizia, senza sosta meditai e lavorai per chetare il demone nel
petto. Sperai un giorno la redenzione, sappilo bene, o padrona; la
sperai dalla tua festa se mai allora il magnanimo genitore rimunerasse
con la libertà quell'opera che segretamente meditai, dì e notti intento
ad eseguire la degna produzione. Vedi, eran confusi pensieri, era un
puerile dolore soltanto, alimentato nel petto da un vago ed instabile
desiderio. E prima che mi si allontanasse dal tuo viso animatore,
cacciandomi nel mondo, io sommergerei nelle profondità del mare il
mio lavoro più diletto, perchè non beasse della sua magnificenza alcun
occhio umano. Tu pur mi fosti la Musa dell'arte e la Musa della vita,
o padrona, che per tempo mi dischiuse il cielo del bello con fervore
e m'apprese le opere della grazia celestiale. Giacchè mi ridestasti
nell'animo giovanile lo spirito informatore per l'arte creatrice, e
mi guidasti le timide mani, allorchè, fanciullo, vegliai accanto al
padre nella sua officina dedalica, quand'ei faceva del nero metallo una
immagine maravigliosa.
 
«Serio e muto egli lavorava senza posa con le artistiche mani. Fu
allora ch'io modellai nella duttile cera una seducente opera plastica
e te la offrii, felice e orgoglioso come un artista. E l'entusiasmo
m'invase il petto, l'opera sinceramente ti piacque; e un'altra
ne meditai e lieto te l'offrii, e così divenni un modellatore di
giocattoli e gingilli. Poichè la tua immagine pendeva sempre nel mio
pensiero, la tua vita s'intrecciava sempre alla mia opera. Allora mi
si fece leggera la mano, e germogli da germogli eruppero potentemente
dal mio spirito entusiasta, tanto che mio padre se ne meravigliò ed
anche Arrio, il tuo austero genitore, mi accolse nel cuore come un suo
figliuolo. Ma venne il tempo desolante, tu ne andasti via e si dileguò
ben presto anche il mio Genio nella notte buia del dubbio. L'anima,
contristata da strane visioni, mi si vuotò d'immagini, e allora
indossai dapprima questa veste di schiavo che umilia, sentii come tante
catene a me d'intorno e piegai il cuore sotto il giogo della servitù.
 
«Lasciami tacer di quel tempo, chè oramai è di già passato; libero ora
io son divenuto, come chi a lungo languì in una torre umidiccia, ma
la porta gli si apre e gli aleggia subito dentro un raggio dell'eterea
luce e un soffio della vitale primavera.
 
«Ciò non accada, Ione! non mai io svesta questa tunica di schiavo; la
libertà mi sembrerebbe pur simile alla morte e il mondo mi apparirebbe
d'intorno come la notte deserta e un carcere tetro e privo di stelle.
Io lo so bene, tuo padre ti eleggerà ben presto uno sposo fra i giovani
e il primo dei ricchi aspiranti; allora, quando tu andrai sposa al
focolare di lui, oh lasciami ancora adornare con arte e con molte
immagini la tua casa, affinchè di me ti rammenti, del compagno della
passata fanciullezza!»
 
Così ei proruppe e dagli occhi lampeggiarono dolorosi sguardi.
 
E con tremula voce replicò la vezzosa fanciulla, mente nel petto
ansante e commosso il cuore le fremeva: «Qualche cosa di strano mi par
di avvertire, come se la terra leggermente mi tremasse sotto ai piedi
e il capo mi si assopisse nei sogni. Afosa è l'aria quaggiù, e la notte
accesa risplende febbrilmente nel cielo: di nuovo mi scende nell'animo
la strana visione, l'immagine che ieri notte s'aggirava attorno al
mio letto. Ma io lo so bene: era il mio proprio pensiero, poichè tanto
mi disse mio fratello della figura di Icaro. Ecco: piena di ambascia
io sedevo nella notte là, sul monte, dove gli si arrossa in alto la
voragine, il terribile cratere. Fosca era d'ogni intorno la pianura
coperta di cenere solfurea; nero si stendeva al di sotto il mare e solo
un astro scintillava nel cielo, mentre un fuoco di fumante lava mi
circondava accerchiandomi. Ad un tratto tu mi apparisti dinanzi, con
due raggianti ali arcuate sulla spalla, e tenevi ancora pronta nelle
mani un'altra ala a dicevi: “Fino a quando dovrò io portare le catene,
o Ione? Tu venisti, eppur tutto hai dimenticato; ma io feci per me le
ali ed anche per te, o padrona. Vieni, noi voleremo lontano sui flutti
ondeggianti del mare, prima che il fuoco del Vesuvio ci consumi le
ali.” E tu m'afferrasti, con te andai via... e mi svegliai».
 
Così la fanciulla e subito sbigottita riprese in tono grave: «Che cosa
mai io ti dico! non so dirti quest'oggi una parola assennata, così mi
vaneggiano i sensi come in sogno per l'afa dell'aria e il caldo del
vento libico. Bell'e passati son ora per sempre i cari giorni della
fanciullezza, e noi stiamo come amici sulle rive separatrici del fiume,
che si fanno i segni dell'addio. Sì, ben lo so io, il bene a noi sembra
più spesso un male, chè sovente gli Dei avviluppano la felicità in
una nera nuvola, e il nobile animo si piega devoto ad ogni destino.
Egregiamente risoluto esso adempie a tutto ciò che sempre esigono
i celesti, finchè limpida gli si apre la via a una meta più bella.
Ecco, io son venuta, tu devi pur andare, o amico, tosto che domani,
in ricorrenza della festa, mio padre soddisfarà al mio vivissimo
desiderio. Oh sappi pure che ben volentieri ti ricorderanno gli amici
ed anch'io serberò di te una eterna memoria. E adesso permetti, o
Euforione, ch'io taccia e me ne vada».
 
Ma nella stessa guisa che, subito sciolto dalla stretta del sogno, si
leva il dormiente, al quale battendo sul capo l'ambrosio raggio di luce
desta gli spiriti assopiti, e chiara albeggia la coscienza, così ben
presto si svegliò il cuore nel petto del giovane. Pien di dolore, ma
nel medesimo tempo pieno di beatitudine, egli alzò in alto lo sguardo,
quindi abbassò il capo e tacque, stringendo più forte le mani al
petto. Ed ambedue tacquero e stettero, i due bellissimi giovani, l'un
contro l'altro silenziosi; pure tra questi due cari giovani invisibile
se ne stava sorridente il celeste mago Amore e qua e là li toccava,
annodando l'ambascia dei loro cuori. E sospirarono le onde del mare
profondamente; tranquille stavan le aure ed un'afa era nel cielo
fiammante. E la luce del Vesuvio cadde d'improvviso, d'un insolito
chiarore, nella stanza semioscura e aleggiò luminosa abbagliando le
due giovani figure; un rumore sordo rimbombò in alto, come se tremasse
profondamente convulsa la terra febbricitante.
 
E Ione guardò in viso all'amico, vide i nobili lineamenti impalliditi,
gli occhi le s'intorbidarono ad un tratto, tese in alto le mani ed
esclamò: «Addio, Euforione!» Ed egli le prese e le tenne serrate le
mani pulsanti e sempre più caldo si sentì scorrere il sangue nelle sue,
e sotto ai piedi gli parve traballare la terra convulsa.
 
Già tuonava cupo cupo nell'aria, da per ogni dove, negli abissi; come
un murmure rimbombava nel cielo e tuonava nella voragine del monte.
Allora si sentì come un tremito più volte ripetuto, cigolò la casa,
tremarono rintronando le mura, vacillarono le colonne con sonoro
rimbombo e il suolo ondeggiò come i flutti.
 
Come sull'orlo solfo-spirante dell'Averno sen vanno a volo barcollando
per l'esalazione le rondini pigolanti e stordite sulla rossa arena,
cui solcano con le prensili ali, così vacillò la fanciulla alla scossa
delle aure elettriche, così barcollò e cadde sulla spalla dell'amico.
Caddero sul petto di lui i morbidi riccioli di Ione, sul cuore gli
fiammava il capo divino, mentr'essa, sostenendosi, gli avvinghiava le
nitide braccia, e l'altro, tremante, la stringeva forte e stava come
stordito nei sensi: per la scossa di terremoto il mondo vacillava
intorno. Egli era come rapito e solo gli sembrava che il cuore
ondeggiante sprofondasse nel flutto della dolorosa sventura. Sulla loro
bocca Amore spicciolava come fiori parole interrotte, spargendo intorno
esclamazioni e grida e il bisbiglio dei sacri nomi dell'amore: i nomi
di Euforione e di Ione.
 
Voci risuonarono nella casa, voci di fanciulle altosquillanti, e
subito nella porta balzò fuori gridando il trepido Ion: «Guai a noi!
guai! così proruppe; la casa traballa rovinando a precipizio, lassù
vomita fiamma il monte e tutto ricopre di torrenti di fuoco; ma il
padre ha fatto or ora a noi ritorno per il giardino». E appena aveva
pronunziato queste parole, appena avevano sciolto le mani quei due,
quando ecco presentarsi in fretta sulla porta il padre, Arrio, ritto
nel capo e nella persona, ravvolto in una toga increspata, serio e
imperioso all'aspetto. Ei però non s'accorse del confuso sembiante dei
due giovani, troppo soggiogato egli era dall'orrore dei sensi; solo
s'avvide che la figlia se ne scappò rapida nella stanza attigua e che
con gli occhi fissi giù a terra se ne stava davanti a lui nella stanza
l'acceso Euforione. Con imperioso e interrogante sguardo fisò il tacito
schiavo, e non iracondo ma austero pronunziò queste vibrate parole:
«A che tu mai qui ti trattieni nel gineceo, o garzone, audacemente
inoltrandoviti? Così tu attendesti al mio cenno? Altro luogo ti si
confaceva, nel cortile o nel portico fra il rimanente stuolo degli
schiavi, perchè nessun atto sconveniente deve turbarmi la disciplina e
la regola della nobile casa. E fa' in modo di non eccitarmi all'ira,
assottigliandoti il benefizio degli amichevoli doni; nessun altro
infatti si vanta dei favori che Arrio e i figli della casa a te
concedono. Orsù, via, o garzone, e lesto confondimi tutti pel giorno
di domani, o greco, con le tue eccellenti e famose opere». Così disse
e seguì in fretta la figliuola nella stanza attigua.
 
Ma il giovane era ancora come inebriato, ancora come nel sogno. A mezzo
soltanto comprese la voce di Arrio e a mezzo solo l'afflisse la parola
di lui: così ei se ne stava immerso in una profonda contemplazione. Ma
subito con grido eccitante lo prese per mano il fanciullo e lo condusse
fuori nel giardino attraverso l'atrio aperto. Com'egli uscì fuori nel
buio fiamme-spirante del giardino, stranamente avvolto da una luce
crepuscolare, e vide la mobile vampa sospesa estendersi in alto sul
cielo, sulla terra e sul mare, quasi che il suo spirito fosse sciolto
dall'essere, gli parve di fuggire lungo il cielo, simile ad Icaro, in estasi beata sulle ali di Aurora.