Passeggiate per l'Italia 18
Ma Euforione rimase come sbalordito dal suono della parola; sul suo
volto si diffuse il pallore della morte e con impeto tese in alto
le mani, esclamando: «Come mai, Ione, hai escogitato di darmi questo
dolore, facendomi errare in terra deserta, quale un girovago fuggiasco?
Assai egregiamente ricinge l'uomo la magnifica corona della libertà,
e per lui essa è il colmo della forza, il suggello e la consacrazione
delle opere. Ahimè! io la desiderai ardentemente per l'amore alla santa
arte figurativa, che la Musa infondeva nel cuore a me, disgraziato
schiavo, acciò gli altri non avessero a dileggiare l'opera del mio
lavoro manuale, schernendo anche le mie produzioni per questa oscura
veste. Perciò io muto lavorando mi esercitai nell'arte nelle ore di
mestizia, senza sosta meditai e lavorai per chetare il demone nel
petto. Sperai un giorno la redenzione, sappilo bene, o padrona; la
sperai dalla tua festa se mai allora il magnanimo genitore rimunerasse
con la libertà quell'opera che segretamente meditai, dì e notti intento
ad eseguire la degna produzione. Vedi, eran confusi pensieri, era un
puerile dolore soltanto, alimentato nel petto da un vago ed instabile
desiderio. E prima che mi si allontanasse dal tuo viso animatore,
cacciandomi nel mondo, io sommergerei nelle profondità del mare il
mio lavoro più diletto, perchè non beasse della sua magnificenza alcun
occhio umano. Tu pur mi fosti la Musa dell'arte e la Musa della vita,
o padrona, che per tempo mi dischiuse il cielo del bello con fervore
e m'apprese le opere della grazia celestiale. Giacchè mi ridestasti
nell'animo giovanile lo spirito informatore per l'arte creatrice, e
mi guidasti le timide mani, allorchè, fanciullo, vegliai accanto al
padre nella sua officina dedalica, quand'ei faceva del nero metallo una
immagine maravigliosa.
«Serio e muto egli lavorava senza posa con le artistiche mani. Fu
allora ch'io modellai nella duttile cera una seducente opera plastica
e te la offrii, felice e orgoglioso come un artista. E l'entusiasmo
m'invase il petto, l'opera sinceramente ti piacque; e un'altra
ne meditai e lieto te l'offrii, e così divenni un modellatore di
giocattoli e gingilli. Poichè la tua immagine pendeva sempre nel mio
pensiero, la tua vita s'intrecciava sempre alla mia opera. Allora mi
si fece leggera la mano, e germogli da germogli eruppero potentemente
dal mio spirito entusiasta, tanto che mio padre se ne meravigliò ed
anche Arrio, il tuo austero genitore, mi accolse nel cuore come un suo
figliuolo. Ma venne il tempo desolante, tu ne andasti via e si dileguò
ben presto anche il mio Genio nella notte buia del dubbio. L'anima,
contristata da strane visioni, mi si vuotò d'immagini, e allora
indossai dapprima questa veste di schiavo che umilia, sentii come tante
catene a me d'intorno e piegai il cuore sotto il giogo della servitù.
«Lasciami tacer di quel tempo, chè oramai è di già passato; libero ora
io son divenuto, come chi a lungo languì in una torre umidiccia, ma
la porta gli si apre e gli aleggia subito dentro un raggio dell'eterea
luce e un soffio della vitale primavera.
«Ciò non accada, Ione! non mai io svesta questa tunica di schiavo; la
libertà mi sembrerebbe pur simile alla morte e il mondo mi apparirebbe
d'intorno come la notte deserta e un carcere tetro e privo di stelle.
Io lo so bene, tuo padre ti eleggerà ben presto uno sposo fra i giovani
e il primo dei ricchi aspiranti; allora, quando tu andrai sposa al
focolare di lui, oh lasciami ancora adornare con arte e con molte
immagini la tua casa, affinchè di me ti rammenti, del compagno della
passata fanciullezza!»
Così ei proruppe e dagli occhi lampeggiarono dolorosi sguardi.
E con tremula voce replicò la vezzosa fanciulla, mente nel petto
ansante e commosso il cuore le fremeva: «Qualche cosa di strano mi par
di avvertire, come se la terra leggermente mi tremasse sotto ai piedi
e il capo mi si assopisse nei sogni. Afosa è l'aria quaggiù, e la notte
accesa risplende febbrilmente nel cielo: di nuovo mi scende nell'animo
la strana visione, l'immagine che ieri notte s'aggirava attorno al
mio letto. Ma io lo so bene: era il mio proprio pensiero, poichè tanto
mi disse mio fratello della figura di Icaro. Ecco: piena di ambascia
io sedevo nella notte là, sul monte, dove gli si arrossa in alto la
voragine, il terribile cratere. Fosca era d'ogni intorno la pianura
coperta di cenere solfurea; nero si stendeva al di sotto il mare e solo
un astro scintillava nel cielo, mentre un fuoco di fumante lava mi
circondava accerchiandomi. Ad un tratto tu mi apparisti dinanzi, con
due raggianti ali arcuate sulla spalla, e tenevi ancora pronta nelle
mani un'altra ala a dicevi: “Fino a quando dovrò io portare le catene,
o Ione? Tu venisti, eppur tutto hai dimenticato; ma io feci per me le
ali ed anche per te, o padrona. Vieni, noi voleremo lontano sui flutti
ondeggianti del mare, prima che il fuoco del Vesuvio ci consumi le
ali.” E tu m'afferrasti, con te andai via... e mi svegliai».
Così la fanciulla e subito sbigottita riprese in tono grave: «Che cosa
mai io ti dico! non so dirti quest'oggi una parola assennata, così mi
vaneggiano i sensi come in sogno per l'afa dell'aria e il caldo del
vento libico. Bell'e passati son ora per sempre i cari giorni della
fanciullezza, e noi stiamo come amici sulle rive separatrici del fiume,
che si fanno i segni dell'addio. Sì, ben lo so io, il bene a noi sembra
più spesso un male, chè sovente gli Dei avviluppano la felicità in
una nera nuvola, e il nobile animo si piega devoto ad ogni destino.
Egregiamente risoluto esso adempie a tutto ciò che sempre esigono
i celesti, finchè limpida gli si apre la via a una meta più bella.
Ecco, io son venuta, tu devi pur andare, o amico, tosto che domani,
in ricorrenza della festa, mio padre soddisfarà al mio vivissimo
desiderio. Oh sappi pure che ben volentieri ti ricorderanno gli amici
ed anch'io serberò di te una eterna memoria. E adesso permetti, o
Euforione, ch'io taccia e me ne vada».
Ma nella stessa guisa che, subito sciolto dalla stretta del sogno, si
leva il dormiente, al quale battendo sul capo l'ambrosio raggio di luce
desta gli spiriti assopiti, e chiara albeggia la coscienza, così ben
presto si svegliò il cuore nel petto del giovane. Pien di dolore, ma
nel medesimo tempo pieno di beatitudine, egli alzò in alto lo sguardo,
quindi abbassò il capo e tacque, stringendo più forte le mani al
petto. Ed ambedue tacquero e stettero, i due bellissimi giovani, l'un
contro l'altro silenziosi; pure tra questi due cari giovani invisibile
se ne stava sorridente il celeste mago Amore e qua e là li toccava,
annodando l'ambascia dei loro cuori. E sospirarono le onde del mare
profondamente; tranquille stavan le aure ed un'afa era nel cielo
fiammante. E la luce del Vesuvio cadde d'improvviso, d'un insolito
chiarore, nella stanza semioscura e aleggiò luminosa abbagliando le
due giovani figure; un rumore sordo rimbombò in alto, come se tremasse
profondamente convulsa la terra febbricitante.
E Ione guardò in viso all'amico, vide i nobili lineamenti impalliditi,
gli occhi le s'intorbidarono ad un tratto, tese in alto le mani ed
esclamò: «Addio, Euforione!» Ed egli le prese e le tenne serrate le
mani pulsanti e sempre più caldo si sentì scorrere il sangue nelle sue,
e sotto ai piedi gli parve traballare la terra convulsa.
Già tuonava cupo cupo nell'aria, da per ogni dove, negli abissi; come
un murmure rimbombava nel cielo e tuonava nella voragine del monte.
Allora si sentì come un tremito più volte ripetuto, cigolò la casa,
tremarono rintronando le mura, vacillarono le colonne con sonoro
rimbombo e il suolo ondeggiò come i flutti.
Come sull'orlo solfo-spirante dell'Averno sen vanno a volo barcollando
per l'esalazione le rondini pigolanti e stordite sulla rossa arena,
cui solcano con le prensili ali, così vacillò la fanciulla alla scossa
delle aure elettriche, così barcollò e cadde sulla spalla dell'amico.
Caddero sul petto di lui i morbidi riccioli di Ione, sul cuore gli
fiammava il capo divino, mentr'essa, sostenendosi, gli avvinghiava le
nitide braccia, e l'altro, tremante, la stringeva forte e stava come
stordito nei sensi: per la scossa di terremoto il mondo vacillava
intorno. Egli era come rapito e solo gli sembrava che il cuore
ondeggiante sprofondasse nel flutto della dolorosa sventura. Sulla loro
bocca Amore spicciolava come fiori parole interrotte, spargendo intorno
esclamazioni e grida e il bisbiglio dei sacri nomi dell'amore: i nomi
di Euforione e di Ione.
Voci risuonarono nella casa, voci di fanciulle altosquillanti, e
subito nella porta balzò fuori gridando il trepido Ion: «Guai a noi!
guai! così proruppe; la casa traballa rovinando a precipizio, lassù
vomita fiamma il monte e tutto ricopre di torrenti di fuoco; ma il
padre ha fatto or ora a noi ritorno per il giardino». E appena aveva
pronunziato queste parole, appena avevano sciolto le mani quei due,
quando ecco presentarsi in fretta sulla porta il padre, Arrio, ritto
nel capo e nella persona, ravvolto in una toga increspata, serio e
imperioso all'aspetto. Ei però non s'accorse del confuso sembiante dei
due giovani, troppo soggiogato egli era dall'orrore dei sensi; solo
s'avvide che la figlia se ne scappò rapida nella stanza attigua e che
con gli occhi fissi giù a terra se ne stava davanti a lui nella stanza
l'acceso Euforione. Con imperioso e interrogante sguardo fisò il tacito
schiavo, e non iracondo ma austero pronunziò queste vibrate parole:
«A che tu mai qui ti trattieni nel gineceo, o garzone, audacemente
inoltrandoviti? Così tu attendesti al mio cenno? Altro luogo ti si
confaceva, nel cortile o nel portico fra il rimanente stuolo degli
schiavi, perchè nessun atto sconveniente deve turbarmi la disciplina e
la regola della nobile casa. E fa' in modo di non eccitarmi all'ira,
assottigliandoti il benefizio degli amichevoli doni; nessun altro
infatti si vanta dei favori che Arrio e i figli della casa a te
concedono. Orsù, via, o garzone, e lesto confondimi tutti pel giorno
di domani, o greco, con le tue eccellenti e famose opere». Così disse
e seguì in fretta la figliuola nella stanza attigua.
Ma il giovane era ancora come inebriato, ancora come nel sogno. A mezzo
soltanto comprese la voce di Arrio e a mezzo solo l'afflisse la parola
di lui: così ei se ne stava immerso in una profonda contemplazione. Ma
subito con grido eccitante lo prese per mano il fanciullo e lo condusse
fuori nel giardino attraverso l'atrio aperto. Com'egli uscì fuori nel
buio fiamme-spirante del giardino, stranamente avvolto da una luce
crepuscolare, e vide la mobile vampa sospesa estendersi in alto sul
cielo, sulla terra e sul mare, quasi che il suo spirito fosse sciolto
dall'essere, gli parve di fuggire lungo il cielo, simile ad Icaro, in estasi beata sulle ali di Aurora.
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