2015년 5월 31일 일요일

Passeggiate per l'Italia 14

Passeggiate per l'Italia 14


Dove, forse, non si riesce a spiegare, o meglio a giustificare
l'assunto del nostro poeta, è nelle lunghe e spesso astruse parlate
ch'ei mette in bocca ai suoi personaggi. Che anzi se non è troppo
arrischiato il paragone a me pare che qui l'autore arieggi la nota
consuetudine dei poeti alessandrini, i quali nel corso delle loro
opere si dilettavano d'introdurre delle questioni di ogni specie,
per ricamarvi poi intorno una ricca e varia trama di considerazioni
più o meno originali e bislacche e sfoggiarvi il lusso della propria
erudizione.
 
In verità, sorprende non poco che un commerciante stia lì a discutere
di arte e a manifestare con acume e profondità di argomentazioni i
suoi pensieri al riguardo; così non sembra verosimile che uno schiavo,
decoratore di muliebri gingilli e costruttore di candelabri, si
allontani tanto dalla realtà cruda che lo investe per fissare da vicino
un radioso miraggio di luce, e tanta commozione e tanto entusiasmo
provi per l'arte sua manuale, da parlare di fiamma purificatrice, di
forza che crea, di lavoro che redime...
 
Anche qui, come del resto in tutta la intonazione del poemetto, si
potrebbe riprendere la medesima fosforescenza dello stile, il medesimo
colorito lussureggiante della verseggiatura; ma quel che giova notare
più particolarmente si è che il Gregorovius tratteggia qui tutta una
teoria estetica dell'arte, considerando questa nei suoi principî,
nei suoi mezzi e nelle sue finalità. Insomma, egli si vale dei suoi
personaggi per introdurre e discutere una questione di per sè stessa
già tanto trattata, e riconnette all'ambiente pompeiano quello che
costituisce il risultato delle sue ricerche e della sua esperienza.
Così, quando l'egiziano Serapione e l'elleno Euforione filosofeggiano
su gl'intenti e le aspirazioni dell'arte, sono entrambi mossi dalla
mano segreta del Gregorovius, entrambi animati dal soffio potente della
parola di lui. Ma questo studio appunto, d'insinuare cioè le proprie
convinzioni nello svolgimento tranquillo e sereno dell'idillio, doveva
evitarsi per un poemetto, ovvero ridursi entro più stretti confini.
 
A parte però questo neo, che spicca evidente agli occhi del lettore, è
bene avvertire che in tutto il resto i caratteri dei singoli personaggi
sono ritratti con molta abilità psicologica: Euforione incarna il tipo
dello schiavo raggentilito ed urbano, dall'anima libera e grande, che
è tutto fede nell'arte sua, nel lavoro delle sue dotte mani. Ione è la
giovane passionata e sensibile, niente orgogliosa della pompa che la
circonda, e in cui si direbbe che già incominci a spuntare il germe del
sentimento cristiano. Arrio è il commerciante arricchito, l'epicureo
che guazza nell'oro e crede di annegare nelle coppe spumanti il bieco
fantasma della morte, sempre fiero e superbo di una comprata nobiltà;
Ion, l'ingenuo fanciullo che pure nello spavento e nella desolazione
non sa dimenticare i suoi ninnoli; Menandro, l'immagine dell'invidia
che occhieggia torva e sprezzatrice l'altrui lavoro, pronta al biasimo
ed al sarcasmo, dove altri ha una parola di lode e d'incoraggiamento;
Serapione, infine, per tacere di qualche altra figura secondaria
l'immagine della vecchiezza intelligente e sagace, che legge nel lampo
degli occhi del giovane e con fatidica antiveggenza ne vaticina i
trionfi futuri...
 
Ora, se si tien conto della difficoltà enorme che si affaccia
agl'ingegni nel far rivivere una civiltà passata, cotanto diversa dalla
loro alla qual cosa accennavo poc'anzi ond'è che molti tentativi
miseramente abortirono, come pure dei mezzi che l'arte sa suggerire
al Gregorovius per fargli superare egregiamente la prova, si dovrà
considerare l'_Euphorion_ come uno dei più perfetti e indovinati quadri
pompeiani, una delle più vive e geniali pitture del tempo, in cui ogni
tinta fu suggerita da un'impressione di meraviglia e di compiacimento,
ogni linea tracciata col cuore.
 
Ed io vo' augurarmi che tale appunto lo giudichi il benevolo lettore,
se pure sia riuscito a ritrarre e trasfondere nella veste italiana
la bellezza sentimentale che vi sfolgora e tutto il brio che sì
efficacemente lo anima.
 
Cava dei Tirreni, ottobre 1905.
 
MARCO GALDI.
 
 
 
 
CANTO I.
 
ONEIRO.
 
 
Allegri suoni echeggiavano nella magnifica casa di Arrio, canti di
schiavi operosi e risa di solerti fanciulle, che insieme con gli
efebi intrecciavano nel cortile molti e graziosi fiori variopinti,
quale addobbo festivo per il domani. Tutto ciò che ognora offrivano
i campi ed i giardini di Pompei, era lì dintorno accumulato; già si
contornavano le colonne di ghirlande di edera e scintillavano rosei
nastri. Agili poi correvano su e giù gli affaccendati schiavi, a
frotta portando vasi e brocche e aurei utensili per la festa, perchè
dappertutto raggiasse e splendesse la casa di serena bellezza.
 
Ritornava la desiderata figliuola di Arrio, che il padre aveva condotta
a Roma dalla piccola Pompei, acciò vi osservasse il mondo, i costumi,
e una nobile educazione ne compisse il fiore della gioventù. E subito
il padre aveva convitato a banchetto gli amici, perchè degni ospiti
onorassero la nuova arrivata; e chi ora vedesse la casa quale si ergeva
magnificamente la più bella di Pompei,[4] sentirebbe scoppiarsi il
cuore di gioia e arriderebbe alla festa.
 
Se ne stava nel cortile il capo degli schiavi Peisandro, appoggiato ad
una colonna dell'ingresso; a voce alta gridava: «Intrecciatemi presto,
o efebi e fanciulle, i serpeggianti fiori; Elio declina al mare; già
cresce più forte colà intorno alla bruna e fumante cima del Vesuvio
una irradiazione del colore dell'iride. Quest'oggi l'aria è afosa e
non aleggia dal golfo nessun soffio respirabile. Affrettate le mani, ne
tocca festeggiare la divina Ione».
 
Affrettate le mani, ne tocca festeggiare la divina, Ione! Così
come un'eco risuonò questa voce di là, alla finestra, dove sul
cortile sorgeva il luminoso e aereato piano. Frattanto, s'indugiava
nell'officina tutto ingegnoso ed occupato un garzone, curvo sulla
tavola presso la finestra; e con le sue abili mani intrecciava una
ghirlanda di fiori, come gli efebi nel cortile, ma una molto più bella,
e la foggiava con ogni cura intorno alla nitida base del magnifico
candelabro che gli si ergeva dinanzi, opera eccellente di bronzo
bruniccio.
 
Agile come l'alta figura delle mani creatrici dell'arte spiccava
l'immagine del maestro nel fascino della leggiadra gioventù, pure
ravvolto in una tunica di lana, come si conviene agli schiavi. Spesso
ei tendeva lo sguardo giù nel cortile e contemplava gli azzurri monti
di Sorrento sopra il golfo, come il roseo vespro alitava già mollemente
su in alto alle cime gl'infocati colori. Ed egli raddoppiava ancora la
fretta della mano e dei sottili martelli, quasi la paura lo spingesse.
Eppure non mancavan solo che pochi intrecci di foglie, giacchè la
maggior parte erano state battute. Ma il candelabro s'ergeva bell'e
compiuto, un'opera d'arte divina.
 
Sulle zampe del leone risplendeva la luccicante base robusta e
levigata; vi si poteva bene specchiare dentro una fanciulla. Sul suo
orlo dentellato con molta finezza si avviticchiava un ramo di vite
battuto in argento e d'accanto si elevava l'altare fiammante, nitido e
bello, e di contro la magnifica opera plastica. Ivi danzava agile con
le vivaci membra una pantera, ardita e superba, poichè sul suo dorso
sedeva il divino cavalcatore, incoronato di pampini, Dionisio, avente
per tazza un lucido corno.[5]
 
Così queste figure ne ornavano graziosamente la base. Or dalla base
si ergeva la poderosa opera di bronzo, leggiadra per il capitello
e le braccia e le lampade pendenti, arrivando fino a sommo il petto
di un uomo all'impiedi. Consisteva in un pilastro di stile corinzio,
una maschera lo abbelliva dinanzi al capitello, e di dietro sporgeva
una grossa testa di toro. Ed era una maraviglia a vedere come belle
di sotto al capitello s'incurvassero le braccia che, protendendosi,
sostenevano quattro lampade. Così era anche grazioso vedere il loro
giuoco e la loro forma intrecciata di foglie, splendida, scintillante e
crespa come le foglie del fiore d'acanto. Ma da ogni braccio scendeva
giù sospesa a catene rilucenti una lampadina, e queste lampade
risplendevano magnifiche d'un bronzo raggiante a color d'oro, come
all'ombroso ramo le rosse arance. Artisticamente spiccava ognuna,
distinta per una imagine allegorica. Così sulla prima si elevava
delicata una figura di bronzo, con una torcia lucente: era Oneiro, il
dio del sogno, quale una farfalla nell'azzurro crepuscolo della sera.
 
Ben altrimenti effigiata era la seconda: ivi sedevano dall'aspetto
celestiale, cianciando e baciandosi ad un tempo, due giovani figurine
innamorate, Amore e Psiche uniti insieme. Come colombi teneramente
baciucchiantisi col becco nella selva, essi si accarezzavano vagamente,
e l'avvenente Psiche innalzava nella destra la torcia, mentre con le
braccia la cingeva il Nume e la baciava con affetto.
 
La terza lampada era anch'essa variamente configurata. Sulla curva
calotta serio con le ali basse e dagli occhi intelligenti poggiava un
uccello; il notturno gufo di Pallade Athena; tra gli artigli reggeva
la torcia più grande, fiso e grave spingendo innanzi lo sguardo, e
ridestava anche il senso della serietà. Ma l'ultima delle lampade
svegliava commozione e malinconia: Tanato v'era scolpita, spegnendo
la torcia nella notte; e le si librava a volo di fianco l'amica Ora
Eirene, ravvolta in un velo, col pacifico ramo di palma ricurvo nella
mano.
 
Così era fregiato il candelabro artisticamente scintillante in bronzo,
ma il maestro dava ancora colpi di martello sugl'intrecciati viticci.
Talora sollevava il capo, tal altra lo abbassava di nuovo e buttava
giù per la nuca la nerissima chioma, quindi guardava con aria di
compiacenza l'opera sua e subito prorompeva sospiroso in cotesti vaghi
accenti: «Oh arrecami domani la salvezza, Orione, tu lampa del cielo!»
Ma la fronte era mesta, e si rigonfiava scintillante il suo occhio
fondo come per un trepido dolore e per un impaziente desiderio lontano.
 
Così ei se ne stava tutto intento al lavoro, senza sapere che di
nascosto, appoggiato alla colonna accanto alla porta, lo adocchiava
di lontano uno straniero; era un vecchio di vigoroso aspetto; lo
ravvolgeva una nera veste pieghettata, succinta da cinghie di porpora

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