Passeggiate per l'Italia 6
Si può supporre che Agrigento, prima delle ultime conquiste si sia
limitata al Kamikus, dove sta anche oggi, da 2000 anni durevole nella
miseria come nello splendore. Nell'anno 825 la presero i Saraceni, i
successori dei Punici provenienti dalle stesse terre. Il loro ultimo
emiro, Kamul, vi fu sconfitto nel 1106 dal conte Ruggiero. D'allora
Agrigento diventò feudo di nobili famiglie cadendo sempre più in basso,
arrivando ad una popolazione di soli 16,000 abitanti.
Passando sul colle di Minerva si raggiunge quella fila di templi
che stanno sul confine meridionale delle mura della città. La loro
vista sullo sfondo del mare Libico, quando il sole ardente illumina
le loro pietre gialle e fa sfavillare le colonne potenti, è ancor
oggi incantevole; e fa pensare quanto stupenda dovesse essere
nell'antichità.
Il bel tempio di Giunone Lucina è il primo della serie. S'innalza su di
un piccolo colle, ed è a metà distrutto; soltanto da una parte esistono
ancora le sue 13 colonne doriche che sostengono l'architrave.
Sul prospetto solo due colonne stanno ancora in piedi, con un pezzo
dell'architrave; alle rimanenti mancano i capitelli, o sono abbattute
e spezzate. Il tempio giace sopra un alto ripiano di quattro gradini.
Era circondato da 34 colonne doriche con 20 scannellature; di esse
13 stanno ai lati e sei nel prospetto. Le colonne hanno cinque palmi
di diametro e un'altezza di circa cinque metri. I loro capitelli sono
scolpiti con eleganza ed armonia.
Disgraziatamente nulla è rimasto del frontone e del fregio. Nelle
rovine si notano tracce d'incendio. Lo storico Fazello fu il primo
che diede a questo, come agli altri templi, il nome, perchè prima si
chiamava la «Torre delle pulselle».
Secondo Plinio, Zeusi dipinse per esso il celebre ritratto di Giunone e
per modello gli Agrigentini misero a sua disposizione cinque delle più
belle fanciulle della città. Cicerone però riporta lo stesso episodio
pel quadro di Elena, nel tempio di Giunone a Crotone.
Dai gradini del tempio si abbraccia benissimo il circuito dell'antica
città.
Vicino a chi guarda si ergono le mura meridionali, formate dalla rupe
naturale, come si vede anche in qualche punto dell'antica Siracusa,
dove l'a picco di una rupe servì di muro. Molte tombe, colombari,
nicchie e sepolture rotonde si scorgono nel muro.
Anche il tempio della Concordia sorge su di una collina, in mezzo ad
un pittoresco insieme di rovine e di fichi d'India. È completo fino al
tetto, che manca con le due fronti e tutte le colonne. Anch'esso posa
su quattro gradini ed ha 34 colonne.
Non distrutto dai Cartaginesi, ha sfidato vittoriosamente il tempo e
nel medioevo, essendo stato trasformato in chiesa, se ne impedì così il
suo deperimento. Quando nel secolo XV si fece della cella una cappella,
si introdussero nelle pareti laterali i due archi che rimangono
ancor oggi. In seguito, la chiesa fu abbandonata, e nell'anno 1748 il
principe di Torremuzza restaurò il tempio. Fazello gli ha dato il nome
di Concordia, con la quale non ha che fare nessuna divinità dorica. Fra
tutti i templi italiani e siciliani, nessuno ha conservato la cella
così intatta come questo; le scale che conducono dalla sua entrata
orientale sul tetto sono rimaste intatte in ogni loro parte.
Senza dubbio è il più completo dei templi siciliani, poichè quello
di Segesta rimase incompleto, non scorgendosi in esso il minimo
indizio di cella. Le colonne maestose, i capitelli colossali, le belle
proporzioni dell'architrave che ha preservato gli ornamenti del suo
triglifo, la grandezza semplice dell'architettura, offrono il più puro
godimento estetico. La costruzione dorica è certamente la più bella
dell'antichità, certo non apparisce inferiore alla plastica e alla
poesia, la cui forza e la cui purezza viveva nell'anima del popolo
greco, che fu capace di trovare quelle semplici leggi architettoniche.
Guardando un tempio dorico non si può fare a meno di ricordare in
quali grandi e semplici ritmi si è sviluppata la vita dei Greci,
se l'intero modo di sentire nazionale, che quel popolo espresse nel
modo più originale ed evidente nell'architettura religiosa, si potè
rappresentare in simil guisa.
Noi comprendiamo benissimo quest'armonia, che è così semplice come una
relazione fondamentale geometrica; però ancora non possiamo afferrare
l'intero senso della sua intima connessione coi costumi del popolo. Io
son persuaso che il duomo cristiano di Monreale (Palermo) sia il più
bel contrapposto a questo tempio della Concordia.
Se la Sicilia non avesse altro che questi due edifici, monumenti
di due grandi culture, rimarrebbe sempre una terra meravigliosa. Il
tempio dorico è l'effigie vivente del tenace ordinamento del mondo
greco e delle sue tragiche necessità; il caso, e tutto il fantastico è
escluso da questa prima forma; nessun principio pittorico predominante
vi signoreggia, non v'è ancora il lusso del disegno, nè il giuoco di
diverse figure.
Il terzo tempio è quello di Ercole, un tempo il primo d'Agrigento, oggi
una massa gigantesca di rovine che giacciono fieramente accavallate.
Una sola colonna scannellata si erge da quel caos. Si contemplano con
stupore quei blocchi di pietra, quei bellissimi capitelli, le rovine
dell'architrave, che hanno conservato tutti le tracce della loro
coloritura purpurea, e quei pezzi di colonna scannellata che giacciono
miseramente all'intorno simili a gigantesche pietre molari, sepolti per
metà nel terreno e coperti da piante incolte. Questo tempio, vicino
all'Olimpion, era il più grande della città e aveva fama mondiale:
il suo porticato aveva 38 colonne doriche, di cui 6 sulla larghezza e
15 per la lunghezza, numerando pure le colonne degli angoli. Il loro
diametro era di 8, 5, 10 palmi, la loro altezza col capitello poco più
di quattro metri.
Vivaci colori, il rosso, l'azzurro, il nero e il bianco, ornavano
l'architrave; il fregio era munito di teste di leoni nella scanalatura,
e di decorazioni floreali. Serradifalco calcolò la lunghezza del tempio
in 259,2,8 palmi e la larghezza in 97,10,6. La cella era ipatrica.
In essa sorgeva l'_Ercole_ di Mirone, in bronzo; Cicerone narra che
la base di questa statua del dio era levigata per i molti baci di
coloro che venivano a pregare nel tempio. Oggi possiamo fare la stessa
osservazione in S. Pietro a Roma, dove i baci dei cattolici hanno
consumato il piede del _S. Pietro_ di bronzo.
Si può rimproverare al tempo e agli elementi la distruzione delle
opere d'arte, se gli stessi lavori in bronzo sono così vergognosamente
baciati?
Questa singolare analogia di costumi non è del resto l'unica comune al
paganesimo ed alla Chiesa cattolica.
Il magnifico _Ercole_ svegliò le brame di Verre, che decise di
rubarlo, dal momento che gli Agrigentini non glielo volevano cedere.
In una notte tempestosa fece forzare il tempio da schiavi armati;
essi vi erano già penetrati e stavano per togliere il bronzeo dio dal
suo posto, dov'era saldamente piantato, quando il popolo corse alla
loro volta. «Non vi fu nessuno in Agrigento, così dice Cicerone, che
per quanto debole per vecchiaia, o indebolito, che in quella notte,
spaventato da quella notizia, non si sollevasse e prendesse un'arma.
L'intera città affluì in poco tempo al tempio». I ladri furono
inseguiti e non portarono con sè che due soli quadri. I Siciliani
crearono un motto sul mal riuscito tentativo di furto, dicendo: «Fra
le fatiche di Ercole si dovrebbe cantare da oggi la sconfitta di quel
mostro di Verre».
Nello stesso tempio dovette sorgere l'_Alkmene_ di Zeusi, che riuscì
così meravigliosamente bene, che il pittore non si accontentò di nessun
prezzo e volle dedicare il quadro alla deità. Nell'anno 1836, sotto le
macerie si trovò la statua di Esculapio, senza testa, ora esposta nel
museo di Palermo.
Continuando, arriviamo alle rovine del più famoso dei templi siciliani,
una delle opere più grandi dell'antichità, l'Olimpion. Fu fabbricato
dopo la vittoria presso Imera e nello stesso tempo che sorgevano
il tempio di Giove a Selinunte, il Partenone ad Atene, il tempio
di Zeus in Olimpia, il tempio di Giunone in Argo, mentre cioè in
tutti i paesi ellenici si generalizzava la perfezione dello stile
dorico. Gli Agrigentini avevano condotto appena a termine l'immenso
edificio, e mancavagli solamente il tetto, quando scoppiò la guerra coi
Cartaginesi, e la conseguente distruzione della città rese impossibile
il suo completamento.
Imilcone saccheggiò l'Olimpion, ma benchè i barbari devastassero
l'interno, non potevano che difficilmente pensare ad abbatterlo, data
la grandezza e la saldezza della costruzione. Colpisce il carattere
della sua architettura, giacchè non aveva peristilio con colonne
isolate, ma era attorniato da pareti con mezze colonne. Polibio vide
ancora intatto il meraviglioso edificio, e tale si conservò fino al
medioevo, andando però sempre più in rovina per le ingiurie del tempo
e per i terremoti; e fu anche danneggiato dalla barbarie di coloro che
usavano le sue pietre quadre come materiali da costruzione, fino a che
gli ultimi resti che si reggevano in piedi, precipitarono a terra.
Così racconta Fazello, che ritrovò il tempio e che aveva saputo del
tempio e del suo nome dai ricordi del popolo: «Sebbene ciò che rimane
del fabbricato sia caduto nel corso dei tempi, un pezzo però rimase
molto tempo in piede appoggiandosi a tre giganti e ad alcune colonne.
Ciò è ricordato ancor oggi nella città di Girgenti ed anzi lo han posto
nel loro stemma. Però, anche questo pezzo cadde per la incuria degli
Agrigentini nel 9 dicembre 1401». Un poeta contemporaneo cantò questa
caduta di ruderi nei seguenti rozzi versi leonini, dei quali riportiamo
la traduzione libera subito appresso, come quella che spiega la ragione
dello stemma di Girgenti:
Ardua bellorum fuit gens Agrigentinorum
Tu sola digna Siculorum tollere signa
Gigantum trina cunctorum forma sublima.
Paries alta ruit, civibus incognita fuit.
Magna gigantea cunctis videbatur ut dea.
Quadricenteno primo sub anno milleno
Nona decembris deficit undique membris.
Talis ruina fuit indictione quinquina.
Possente sempre fu in guerra la valorosa gente degli Agrigentini.
Tu sola degna veramente fra tutti i popoli siculi di elevare
Nello stemma il trino segno de' Giganti, portentosi per forma fra
tutti.
Ruinò a terra l'altissimo muro, ed i cittadini più non l'ebbero in
cura.
Parve a tutti la mole gigantesca della statua essere una divinità.
Nell'anno quattrocento uno dopo l'anno millesimo.
Nel nono giorno di dicembre cadde il monumento da ogni parte.
Tale ruina ebbe luogo correndo la quinta indizione.
Girgenti continua a portare sul suo stemma i tre giganti e le rovine
dell'Olimpion, dal popolo chiamate col nome di «Palazzo dei Giganti».
Oggi del gran tempio non resta altro da vedere che la sua pianta, che
si è potuta formare per l'assetto dato alle rovine, e la sua grandezza
mette stupore.
Ai lati si è formato un argine di macerie coperto di piante selvagge;
alcuni olivi hanno messo radici fra le rovine. La massa maggiore è
dalla parte di ponente, dove i pezzi giganteschi sono ammucchiati gli
uni sugli altri, e sotto vi sono dei frammenti di colonne nelle cui
scannellature un uomo trova comodamente posto. Però, per quanto questo
ammasso sia grande, appare piccolo in rapporto al tutto, e fa anzi
ritenere che la maggior parte del materiale sia stato portato via.
Con le pietre quadre di uno di questi templi fu costruito, al tempo di
Carlo III, il molo attuale di Girgenti. Nel mezzo del pavimento libero,
vi è disteso uno di quei giganti che servivano da cariatidi. È formato
di varî mazzi di tufo calcareo conchiglifero, uniti l'uno all'altro.
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