2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 2

Passeggiate per l'Italia 2


Partimmo, a cavallo, il mio compagno ed io, da Palermo alla volta di
Girgenti, l'antica Agrigento. Giuseppe Campo nativo della vetusta
città saracena di Misilmeri, la miglior guida di tutta la Sicilia,
ci aveva forniti di due ottimi muli; lui stesso, poi, ne cavalcava un
terzo su cui erano caricati anche i bagagli. La giornata era magnifica:
passato Monreale, percorremmo una strada montuosa e deserta per la
quale non trovammo anima vivente, se escludi le aquile di Giove, che
ci guardavano dall'alto tranquille e silenziose, oppure disegnavano
nell'aria ampie spire coi loro voli. Così camminammo parecchie ore
sino a che alla nostra vista non si distese la meravigliosa pianura
di Partinico e di Sala, vicino al golfo di S. Vito. A dritta si trova
Borghetto, l'antica _Hykara_, patria di Laide, la più bella donna
dell'Ellade, che i Greci condotti da Nicia portarono bambina ad Atene.
 
Le linee del golfo di S. Vito sono belle e insieme grandiose, come
quelle di Cefalù; la pianura, poi, è tra le più feraci della Sicilia,
così lussuriosa nella vegetazione da far pensare ai tropici. Ci
soffermammo a Sala, minuscolo villaggio, e quindi, risaliti in groppa
ai nostri muli, traversate regioni fertili, vigneti e oliveti,
giungemmo ad Alcamo, città montanara. Il paesaggio acquistava in
grandiosità a misura che avanzavamo, assumendo quasi carattere greco
con l'armonia delle sue montagne colorate da tinte calde, or rosse, or
verdamente cupe. Il carattere di quella contrada grazie i giganteschi
pini, i malinconici cipressi, le palme annose, gli aloe dagli snelli
fusti fioriti è reso più grave dall'autunno. Qui tutto è monocromo,
scuro sovrapposto allo scuro e, con meraviglia, si vede quanto possa la
natura con una sola tinta fondamentale.
 
Stanchi di una camminata di nove miglia tedesche, con la non lieta
prospettiva di doverne percorrere dieci all'indomani, undici il terzo
giorno e nuovamente dieci il quarto, prima di giungere a Girgenti,
arrivammo in Alcamo che era sera inoltrata.
 
Questa è città linda e piacevole, di circa 15.000 abitanti, con un
vetusto castello saraceno. Altro non posso dire, se non che in una
miserrima locanda fui martirizzato tutta la notte dalle zanzare, in
modo tale, che portai per venti giorni le cicatrici prodottemi dalla
voracità di quegli alati spiriti notturni. Alla sera, il capitano della
guardia ci offrì la scorta militare che doveva esserci compagna sino a
Segesta; ma noi la rifiutammo.
 
Per vedere il rinomato tempio di Segesta, ripartimmo mentre ancora
lucevano le stelle e, per nove miglia, camminammo in un paese deserto,
tra monti calcarei. Orione, vera stella sicula, della quale Messina
ha fatto un mito, sfolgorava su tutte le altre. Già, in Sardegna,
ove il popolo l'ha nominata stella dei Re Magi, avevo ammirato questo
astro; ma fu solo in Sicilia che lo potei contemplare in tutta la sua
magnificenza; i suoi raggi sprizzavano come fuoco d'artifizio. Intanto
s'alzava la brezza mattutina, il cielo si imbiancava ad oriente, si
diradavano le tenebre e si dissipavano le nebbie; le sagome dei monti
accennavano a dileguarsi e compariva il mare, di purpureo si tingea
la campagna e Orione spariva dopo avere brillato per lo spazio di una
notte meravigliosa.
 
Improvvisamente, si parò dinanzi ai nostri occhi il tempio di Segesta;
sebbene fossimo ancora lontani tre miglia, lo vedevamo ergersi
solitario sulla scura pendice del monte, da cui maggioreggiava sul
severo paesaggio, bello di aspetto e tale da non poterlo dire rovina,
poichè stava con tutte le sue colonne e i due suoi frontoni. La
strada che porta colà è un sentierucolo battuto solo dai pastori ed è
fiancheggiata per oltre un miglio da piante di aloe, in numero di cento
circa per parte, di venti piedi d'altezza, formanti come un viale sino
al tempio che sorge sui fastigi di una brulla collina.
 
Quella terra nera punteggiata da cardi selvatici, meschino pascolo
per le capre; quella profonda solitudine; i ricordi delle antiche
favole troiane; i versi sonori di Virgilio; la guerra di Segesta con
Selinunte, che die' origine alla spedizione degli Ateniesi contro
Siracusa e a tanti eventi storici; ogni cosa eccitava la nostra
fantasia.
 
Qui la solitudine è maggiormente pittorica che non quella di Pesto, e
l'aria v'è quasi saturata di favole, di miti, di tradizioni, di memorie
storiche. Sedendo nell'antico teatro dissepolto da Hittorf, l'occhio
raccoglie in sè tutta quella regione di magica solitudine, di tragica
serietà; si scorgono il golfo di Castellammare, i monti di Alcamo; ai
piedi si svolge una valle selvaggia nel cui fondo corre il favoloso
Krimolfo; all'opposta parte si rizza il monte grigio di Calatafimi e
ne' suoi fastigi si discerne la città di colore scuro e cupa. Volgendo
lo sguardo ad occidente, si vede una catena di colline giallastre e,
più in alto, fantastici monti azzurri, i monti Erici, su cui s'ergeva,
ora non più, il tempio a Venere. Oltre sconfina il mare Egeo, che
attira lo sguardo sulle spiagge ove fu Cartagine e ricorda le guerre
puniche.
 
Non indugerò a parlare del tempio di Segesta, già sufficientemente noto.
 
Proseguimmo la nostra strada verso il monte Pispisa oltre il tempio,
in arida solitudine, senza incontrare che rari pastori vestiti di pelli
di montone, pascolanti i loro greggi; non trovavamo che pochi cespugli,
cardi selvatici coperti di lumache bianche che circondavano quasi ogni
pianta, e traversammo terreni, riarsi e fenduti dal sole, su cui non
eravi la più lieve orma di sentiero.
 
D'un tratto, ci apparvero, verso oriente, il mare Egeo, il monte Erice
a piramide e ai suoi piedi Trapani l'antica Drepano , le isole del
mare Egeo, che scintillavano tra lo scintillìo delle onde, e le spiagge
di Marsala e Mazzara, che si stendono fino al Lilibeo.
 
Ivi giungono direttamente i venti cartaginesi, e il battello che
salpava allora alla volta dell'Africa, in dodici giorni m'avrebbe
portato a Tunisi, in terra punica.
 
Verso il mezzodì, sotto un sole insopportabile, arrivammo a Vita,
meschino villaggio smarrito nella solitudine, abitato da più meschina
gente, di carnagione bronzea, dai capelli crespi come quelli dei
negri, parlante un dialetto di cui nulla capivo. Scendemmo presso
un calzolaio, mangiammo quel po' che il campo ci potè procurare
e rimontammo sui muli per guadagnare Castelvetrano, ove dovevamo
pernottare. Malgrado bella fosse la strada che percorrevamo, la
stanchezza ci impediva di percepire ciò che ci circondava. Dopo dieci
miglia tedesche, toccammo finalmente Castelvetrano, ma io non ebbi la
forza di scendere dal mulo e fu necessario mi aiutassero.
 
Con la prospettiva di dovere all'indomani fare nuovamente undici
miglia, rotto come mi trovavo in tutte le membra, non mi stimavo in
condizioni di potere sopportare quella marcia faticosa; ma ebbi agio di
sperimentare come l'uomo è capace di qualunque sforzo allorchè voglia
seriamente. La costanza vince anche la cocciutaggine di un mulo.
 
Così all'indomani, feci, senza eccessiva difficoltà, quelle undici
miglia e le ultime dieci sino a Girgenti, quasi piacevolmente.
 
Il mio compagno di viaggio còlto fino dal secondo giorno da un colpo
di sole fu meno fortunato di me; stette assai male nella zolfara
di Alcara e fu salvato da certa morte grazie solo la prontezza di un
salasso; ma gli fu necessario allettarsi a Palermo per varie settimane.
 
Partimmo il 6 settembre da Castelvetrano per recarci a Selinunte, sul
mare africano. Il mattino era di quella bellezza come sola può trovarsi
in Grecia od in Sicilia.
 
Non è possibile descrivere con la parola la magnificenza versicolore
del cielo ad oriente. Io precedevo gli altri per assaporarmi
indisturbato la bellezza di quel fenomeno; giunto all'estremo limite
della città, mi soffermai presso una chiesa antica, sotto alcuni alberi
e sospinsi gli occhi infra il mare verso Selinunte, lontano circa
sei miglia. Orione mandava ancora la sua luce purpurea, e il cielo si
stendeva con quella peculiare limpidezza di cui solo la lingua greca,
con la parola _etere_, può darci la precisa sensazione.
 
Scendendo da Castelvetrano, verso il mare per circa sei miglia,
traversando pingui campagne, si scorgono già da quella distanza
i diruti templi di Selinunte, di cui, per dare pallida idea della
grandiosità, è sufficiente quanto sto per dire.
 
Il giorno non era ancor bene uscito dalle tenebre ed io scorgevo
qualche torre in rovina; una, snella ed alta, primeggiava sull'altre
nei silenzi dell'alto. Dissi a Giuseppe che sarebbe stato conveniente
andare in quella città, che mi pareva ragguardevole sotto ogni punto di
vista e nella quale mi sorrideva la speranza di trovare un gelato. Ma
Giuseppe, sorridendo, mi rispose:
 
Quello che a voi sembra città, altro non è che un ammasso di rovine
dei templi di Selinunte.
 
La vista di quelle rovine sulla sponda del mare, in una regione
deserta, non ha l'eguale al mondo e là solo ho potuto sentire quel che
significhino le parole _rovine classiche_. Si contemplino da presso
o da lontano, quei ruderi dell'antica fastosità greca, vi avvolgono
sempre di maraviglia e di rispetto quasi superstiziosi. Contornati
da florida vegetazione, aventi in sè ancora una forma esteriore non
priva di significato, sono estremamente pittorici: triglifi, metope,
frantumi di fusti di colonne scannellate, capitelli dorici colossali,
giacciono nelle loro forme graziose confusamente, sì come zolle di
un campo arato; la prepotenza del tempo passò su d'essi, si accumulò
da una parte e dall'altra confusamente, bizzarramente. Un certo ordine
impera in qualche punto sotto il lavorio pervicace di quella diuturna
distruzione; così le enormi colonne del tempio di Giove olimpico sono
distese a terra sul posto ove sorgevano, al pari di membra infrante di
gigante caduto nell'aspra battaglia; poche colonne sorgono ancora sulla
propria base come quelle note sotto il nome di _Pileri dei giganti_
e su esse ergesi dominando, regina di rovine, la deserta solennità
della campagna.
 
La località dell'antica Selinunte, a ridosso di alturette nei pressi
del mare, è indicata da due gruppi di quelle rovine. Quello di levante
è costituito in maggior parte da un tempio diroccato; l'altro di
ponente, dai ruderi della città, e nella sua compagine, pittorescamente
disordinata, si vedono i resti di quattro templi. Camminando su quei
massi, quegli architravi, quelle cornici, avvinghiati e quasi sepolti
da sterpi, da piante florispine selvatiche, si turba la quiete delle
_serpi brune_, uniche abitatrici di quel mondo morto.
 
Il Selinos, oggi Madinini, scende al mare fra questi due gruppi di
rovine; la spiaggia è bassa, il fiume l'ha resa paludosa, e su entrambe
le sponde non si vedono che stagni arsicci, cosparsi di erbe, di fiori
azzurri e di molti gigli fragranti.
 
Sin dall'antichità più remota, le paludi formatisi attorno a Selinunte
ammorbarono l'aria e diedero origine a pestilenze; così che Empedocle
venne chiamato da Girgenti acciocchè si provasse a combattere tanta
iattura, e si pretende che mediante molteplici canali scavati a traverso le paludi, fosse riuscito a redimere la città.

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