2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 11

Passeggiate per l'Italia 11


Questa è la pittura che il Vigo ci offre dell'accademia dei ciechi di
Palermo, un interessantissimo quadro della vita del popolo, pel quale
dobbiamo essere assai riconoscenti all'autore. Ogni lettore correrà
con la mente a quelle noiose e pretenziose accademie, che ancora
fioriscono in tutte le città d'Italia e dove signori e dame recitano i
loro sonetti faticosi, proprio come al tempo del Marini. E pure sarebbe
difficile trovare un solo poeta che senta così santamente la poesia
come quelli di Palermo. Io non conosco nessun verso di questi poveri
cantori, perchè il Vigo non ne ha riportato nessuno, ma comunque essi
sieno, e per quanto aspro sia il loro archetto, pure io credo che le
Muse ascoltino questi ciechi maestri con un tranquillo sorriso, e che
talvolta si degnino anche di mandar loro una buona rima ed un buon
concetto.
 
Durante la mia permanenza in Sicilia ho avuto spesso l'occasione
di ascoltare qualche improvvisatore o qualche rapsode che nella
strada, circondato da un cerchio di persone attente, narra qualche
storia cavalleresca o qualche novella. Sono anche questi uomini assai
strani, ciechi o gobbi, e mi ricordo specialmente di uno in Catania,
il quale gesticolava con una mazza nelle mani, ed appena narrava
di un combattimento tra cavalieri, la mazza cominciava a fare dei
terribili mulinelli per l'aria; ed in quei momenti rassomigliava assai
al cosidetto Esopo della villa Albani a Roma. Quando si è notata
la serietà e l'avidità con cui il popolo sta ad ascoltare questi
improvvisatori, non fa più meraviglia che l'isola formicoli di canzoni
e di ballate. In tutta la Sicilia è celebre la _pietra della poesia_.
Si trova a Mineo e il Vigo dice: «È una credenza popolare che per
diventare poeta, bisogna andare a Mineo e baciare la pietra della
poesia». Se qualche mio compatriota, trovandosi in Sicilia, vuole
anch'egli farne la prova, vada a Mineo, contrada Camuti, e nella villa
di Paolo Maura troverà la pietra della poesia. Tuttavia chi dà questo
bacio, non col cuore puro, torna indietro da Mineo con così poco estro
poetico come se tornasse da Abdera[3]. È strano che anche gli Irlandesi
abbiano una tradizione simile; difatti essi dicono lo stesso della
pietra di Blarney; chi la bacia diventa eloquente.
 
Nessun popolo, compreso il napoletano, possiede una così spiccata
attitudine per l'improvvisazione, come il siciliano. Quando siede
dinanzi ad un bicchiere di vino, la sua gioia si manifesta in rima
senza nessuno sforzo.
 
Di questo talento ha dato una prova Giovanni Meli nel suo _Ditirambo_
che io ho tradotto. A nessuna delle loro feste, di qualunque genere
siano, mancano i poeti popolari. «Ognuno canta per sè» dice il Vigo,
«come gli antichi trovatori, ed è seguito da una folla di popolo
che lo applaude e lo paga fino a che la gara dei cantori e degli
ascoltatori infiamma la tenzone. I poeti si raccolgono sotto l'ombra
di un albero, o in una taverna e prima di dar principio alla lotta,
tentano di investigarsi a vicenda per conoscere le forze avversarie.
La prosa è bandita, si salutano e si provocano in versi, poi si
attribuiscono i temi per l'improvvisazione. Il vinto viene fischiato
e cacciato via, mentre il vincitore continua a cantare allegramente
ed a strimpellare la sua ghitarra. Ma la fine abituale di queste
tenzoni è che il vinto si slancia come un dannato sul vincitore, e
solo l'intervento di qualche prete che accorre al frastuono, riesce a
separare i contendenti». Il Vigo racconta di aver assistito a Palermo
ad una tenzone pacifica il giorno di S. Giovanni: «Erano radunati da
cinque a seimila spettatori per aspettare il mezzogiorno, ora in cui
l'immagine del santo viene portata fuori della Chiesa e collocata nel
mezzo della piazza. Ecco che nella macchina preparata per accogliere
il santo salgono cinque poeti, Antonio Russo, un ragazzo condotto da
suo padre, un fabbro, Giovanni Pagano, il ciabattino Andrea Pappalardo
e il contadino Salvatore da Misterbianco. Uno dopo l'altro cantano le
virtù ed i miracoli di S. Giovanni e poi comincia la tenzone. Tutti
si servivano dell'ottava siciliana; meno Pappalardo che componeva
sestine con due rime piane in fondo. Tutti e cinque erano assai bravi
ed ardenti, ma il fabbro superava tutti gli altri. Nessuno sa, continua
il Vigo, da quanto tempo vige l'uso di queste tenzoni, quello che è
certo è che sono antichissime, e che meritano tutto l'incoraggiamento
possibile, perchè non solo sono di grande utilità, ma anche perchè
fanno ripensare alle nobili tradizioni dell'epoca greca».
 
La straordinaria facilità degli Italiani e dei Siciliani
d'improvvisare, viene mantenuta desta per mezzo di forme tradizionali
con le quali poetano. Presso i popoli che non hanno ritmi
universalmente noti ed adoperati, l'improvvisare è molto più difficile,
perchè c'è maggiore sforzo individuale. Il popolo italiano possiede
fin dall'antichità le sue ben determinate forme ritmiche. Quasi da
per tutto, in Toscana, nel Lazio, a Napoli e in Sicilia specialmente
viene adoperata l'ottava; difatti tutta la voluminosa raccolta del Vigo
non contiene, salvo poche eccezioni, che ottave, nelle quali vengono
espressi gli stati d'animo più differenti. L'ottava, così come è stata
adottata dai Siciliani, ha le rime che si incrociano quattro volte,
mentre nell'ottava toscana, tanto in quella popolare, quanto in quella
letteraria adoperata dall'Ariosto e dal Tasso, le rime s'incrociano
solo tre volte di modo che gli ultimi due versi rimano tra loro.
L'ottava siciliana ama l'assonanza, così che spesso anche le quattro
rime contrastanti, modificate solo con qualche leggero cambiamento,
si avvicinano alle altre quattro, per esempio _usi-asa_, _etu-atu_,
_uppa-appa_. Ciò dà una grande dolcezza musicale e il Vigo cita come
modello la seguente ottava:
 
Susiti, amanti mia, susiti susi.
'Ntra ssu lettu d'amuri 'un arriposi;
Vinni a spizzari ssi sonnura duci,
Di ssi biddizzi 'nciammari mi vosi,
Grapitimi ssi porti si su chiusi,
Quantu sentu l'oduri di li rosi.
Idda ccu li so' modi graziusi
Grapiu, mi contintau, mi detti cosi.
 
Si comprende come non sia difficile poetare con un idioma così
incomparabile. L'ottava, e solamente una, è del resto più che
sufficiente al cantore. Essa può contenere tutta la canzone o tutto
il poema, essa è una canzone d'amore, una sentenza, un lamento, una
serenata e tutto quello che si vuole. Il suo nome è _canzuna_ come
in Toscana, e talvolta anche _strambotto_ o _stornello_, come si
dice nell'Etna. La parola _strambotto_, che secondo il Tigri viene
da _strano motto_, è assai antica; rimonta per lo meno al secolo
XV. Lo strambotto è a buon diritto considerato come un'invenzione
dei Siciliani, ed i Toscani solo più tardi ne hanno modificato
la disposizione delle rime. La patria di questa ottava si rileva
facilmente leggendo la raccolta del Vigo. Si confrontino difatti le
ottave del Vigo con quelle della raccolta toscana dei Tigri e si vedrà
che i Toscani si sono staccati dalle forme degli antichi trovatori
siciliani. Mentre in Sicilia l'ottava è rimasta costantemente immutata,
in Toscana non solo vi hanno apportata la modificazione cui ho già
accennato, ma non hanno conservato neppure la disposizione delle rime
dei primi sei versi. Spesso in Toscana anche gli ultimi due versi della
sestina propriamente detta rimano tra loro, così che l'ottava finisce
con due coppie di versi rimati.
 
Come in Toscana, così anche in Sicilia vi sono gli stornelli _dei
fiori_ e che i Toscani chiamano appunto stornelli. La raccolta del
Tigri ne contiene una grande quantità ed alcuni così belli, così arguti
e così poetici che non è possibile trovarne di simili in nessun altra
lingua. Questa deliziosa forma di poesia popolare è diffusa, così
come lo sono i fiori, per tutta l'Italia, ma la sua vera patria è in
Toscana, nel giardino d'Italia. In Sicilia invece essa è meno prospera.
Difatti nella raccolta del Vigo gli stornelli sono pochissimi e nessuno
raggiunge il profumo e la grazia di quelli toscani.
 
Quando il Vigo si accinse a questa patriottica raccolta distribuì per
tutta la Sicilia una circolare, nella quale erano così suddivisi gli
argomenti che egli intendeva raccogliere.
 
1. Canti d'amore, d'odio, di disprezzo, di gelosia, d'abbandono, di
lontananza, di nozze, ecc. 2. Ninne-nanne. 3. Indovinelli. 4. Fiori. 5.
Canti funebri. 6. Canti sacri. 7. Canzoni di banditi, di vendette, di
streghe e di guerra. 8. Canti popolari longobardi ed albanesi.
 
Il libro è riuscito discretamente completo, specialmente per il numero
uno. Ma, come mi comunica lo stesso sig. Vigo, ne è in preparazione
una nuova edizione con l'aggiunta di molti altri _fiori_, e molte
altre canzoni di briganti e di vendette, di cui la Sicilia è molto
ricca e che potranno servirci per un interessante confronto con le
belle canzoni còrse sullo stesso soggetto. Mi aveva già colpito il
fatto che in tutta la raccolta del Tigri non vi sia una sola canzone
di soggetto storico; ora lo stesso fatto ho riscontrato nel Vigo. Il
canto popolare italiano tratta quasi esclusivamente d'amore. L'eterno
splendore del cielo e la svegliatezza di mente degli Italiani sono
poco favorevoli allo sviluppo della leggenda e della ballata, e poi
la quantità, la grandiosità e l'esattezza dei fatti storici in questa
patria della storia non consentono il fiorire della leggenda storica.
Ed il popolo canta un avvenimento storico solo quando la leggenda se ne
è impadronita e lo ha trasformato.
 
Nelle montagne d'Italia ho trovato innumerevoli rovine di antichi
castelli, ma neppure una di queste rovine è popolata di leggende
popolari propriamente dette, come accade in Germania ed in Inghilterra.
Ma all'incontro non c'è luogo in Italia che non abbia negli annali
storici una derivazione antichissima, e pochi che non abbiano la
loro storia speciale stampata e assai diffusa, con dilucidazioni
archeologiche che sono le peggiori nemiche delle Muse, come il fumo lo
è per le api.
 
Il Vigo ha molto saggiamente aggiunto ad ogni poesia il paese donde
essa proviene, e solo alcune città sono rimaste, e non per sua colpa,
prive di qualche saggio in questa raccolta. Solo una poesia ho trovato
di Siracusa, nessuna di Agrigento, Taormina, Cefalù e Monreale. Le
più numerose di tutte sono quelle della patria dello stesso Vigo,
Aci Reale, una delle più incantevoli cittadine del mondo, posta in
un piccolo paradiso ai piedi dell'Etna, non lontano dal mistico Aci,
dalle sorgenti sacre e dirimpetto all'isola dove Polifemo languiva
per Galatea. Se si è veduto quel paese dove le rose fioriscono
perennemente, pieno di aranci e di viti, non fa più meraviglia che in
mezzo a quel popolo le Muse abbiano un così dolce e melodioso canto.
Dopo Aci i migliori saggi ci vengono da Messina, da Catania, dallo
stesso Etna e poi da Palermo, Mineo, Raffadali, Lentini, Termini,
Modica, Bronte, Itala, Piazza, Siculiana, Aderno e da molte altre
città che un tempo ascoltarono la Musa dell'Ellade. Se i grandi poeti
siciliani, Stesicoro e Teocrito, se gli stessi Pindaro e Simonide
ascoltassero le canzoni che ancora oggi, dopo più che duemila anni,
fioriscono sulle rovine delle città greche illustri, cantate da
un'altra razza, non potrebbero rifiutare il loro applauso. Le antiche
fogge dell'ode sono scomparse e solo la canzone bucolica si è rinnovata
per virtù del Meli. La strofa artistica si è trasformata nell'ottava
rimata; la Musa ha cambiato lineamenti, ma anche la nuova è bella,
piena d'espressione, di spirito e di sentimento. Perchè la Musa è
immortale, come la Natura, ed il cuore degli uomini che canta sotto la
guida di lei, i suoi dolori e le sue gioie.
 
Se si paragonano le canzoni amorose raccolte dal Vigo con i _rispetti_
pubblicati dal Tigri, si rimane sorpresi dalla loro somiglianza. La
concordanza di queste forme popolari è una prova evidentissima della
unità della nazione italiana. L'unica confederazione che abbia salde
radici è quella della poesia. Una storia sanguinosa ha dilaniate
le sue provincie, la politica delle altre nazioni, ed anche quella
interna dei vari Stati, ha resa sempre più profonda la separazione;
il regionalismo divide ancora una città dall'altra, la mancanza di
industrie, di commerci e di strade allontana territori vicini, ed
anche intellettualmente mancano all'Italia le grandi ed universali
correnti intellettuali che mantengono stretti i rapporti. E ciò
non ostante nella poesia popolare degli Italiani, c'è un'impronta
nazionale indistruttibile, che afferma con energia davanti a tutto
il mondo l'unità della Nazione. La canzone popolare è il tesoro
dove la nazionalità conserva le sue inalienabili pietre preziose.
Infatti leggi, diritto, libertà, istituzioni politiche e cittadine si
cancellano e si distruggono lungo il corso degli avvenimenti storici,
ma la lingua, con la quale il popolo parla e canta, è un elemento che
dura fin che quel popolo dura. In questo senso della nazionalità le
due raccolte di poesie toscane e siciliane sono un significantissimo
documento storico dell'intima unità del popolo italiano e di tutto ciò
che i Latini ed i loro discendenti indicano con la parola _indoles_.

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