Passeggiate per l'Italia 15
Ma in segno di amichevole saluto il giovane gli porse la destra e
subito rispose: «Sia il benvenuto, o Serapione, degno ospite ed amico!
Solletica forse questo enigma il tuo spirito egiziano? Caro mio,
tel dico subito: no! tu non mel compri neanche per tutti i tesori di
Ramesse! Molti giorni e molte notti taciturno e paziente ho io vegliato
accanto al lavoro e lungamente mi sono io stesso quasi fuso modellando
questo bronzo, e con esso ho diviso la mia vita. Ahimè! tutto quello
che arreca diletto sembra scaturito unicamente dal piacere; ma il
maestro che creò, sedette qui muto sull'opra, incombendo al lavoro,
e ne intesserono la varia tela la speranza, il dolore, il desiderio
della felicità, la desolante tristezza. Ora ne rendo grazie alle Ore:
dall'ondeggiante getto di bronzo mi uscì l'opera perfetta e corrisponde
ora pienamente al disegno, piacevole nella sua serietà».
A ciò muto rimase l'Egiziano, contemplando estatico l'immagine
meravigliosa, mentre il giovane Elleno dallo sguardo lampeggiante
ripigliava: «O vecchio, tu guardi estatico, eppure pressochè estranea
mi sembra la forma; essa se ne sta ora lì freddo e irrigidito bronzo
senza moto e senza vita, come un prigioniero ed uno schiavo dagli
sguardi più strani. Ma essa mi viveva calda e luminosa nel petto
infuocato, come l'immagine delle stelle che si disegnano librandosi
nel cielo. Son già quattro anni da che meditai questo candelabro, una
volta in sul vespro, quando la mia morta madre Serena veleggiò verso
Roma insieme con la figlia di Arrio. Ma io sedetti col più profondo
dolore sulla riva del mare, seguii con l'occhio la vela, finchè
l'allontanantesi nave disparve in un crepuscolo di porpora. Allora
vidi lassù nel cielo la sacra costellazione di Orione fiammeggiare
sugli ansanti flutti; come agitato da un nume stavo allora a guardare
la zona delle stelle celesti, quando mi si presentò al cuore la figura
di questo candelabro e l'immagine delle lampade. Tutto ciò come in uno
specchio mi rifletterono nell'anima le carezzevoli stelle, ma dormì la
mia opera e soltanto ora l'ho finita».
«Davvero, replicò il vecchio, fu allora la tua buona sorte a
fornirtela: oh te beato, nel cui cuore albergano le Grazie!»
«Ben dici il vero, o vecchio, rispose l'altro con rapido gesto, eppur
sempre con piacere sento agitarmisi nel cuore un impulso di gioia, un
impulso a modellare la superba figura: come una musica mi risuona di
continuo nel petto, tal che i pensieri mi si muovono incessantemente
in una nuova allegra danza di figure e di forme, intrecciando e
sciogliendo le arie come una lira melodiosa. Anche nel sogno, quando
stanco dal lavoro diurno desidero appisolarmi, mi s'agitano nello
spirito delicate immagini; come contemplo allora felice la forma della
pura bellezza, che mai arrivo a comprendere quando son desto. Ma ahimè!
ciò che di meglio l'uomo anela, gli penzola sul cuore, solo come un
sogno celestiale, ahimè! solo come una fuggevole brama! Io sento il mio
spirito così elevarsi in alto, allora vorrei, o Serapione, volando più
in alto e sempre più in alto, accostarmi agli antenati divini. Ma grave
e plumbeo mi si attacca ai piedi il mondo, e un affanno paralizzante
erra nel labirinto del mio cuore. Oh come mi addolora profondamente
quella frase dei motteggiatori, quand'essi, sparlando della graziosa
arte della mano che foggia il bronzo, disprezzano il lavoro manuale
come qualcosa d'ignobile e una bassa necessità umana. Ma per l'eterna
luce! Guarda l'artistico intreccio di queste agili forme! Anch'esse
sono l'immagine scolpita della Grazia, o amico, e dànno l'idea del
bello e del sublime. Perchè anche a me veglia sul cuore e sulle mani la
Musa».
«Che tu sia consolato! proruppe con gioia il vecchio, tu non eserciti
veramente alcun vile mestiere: io chiamo sempre magnifico il lavoro
delle mani. Ben t'invidiano molti; l'insieme di queste forme avvenenti
te lo dette la divinità; non più ricche si presentarono esse alla
mente dell'artista che infonde nel bronzo le forze vivificatrici della
Grazia. Duolmi però teco, che tu debba creare come uno schiavo servile
ciò che solo ai liberi si addice: la servitù arreca onta alla sacra
arte! Nè mai a questa dovrebbe accostarsi un uomo di oscura condizione,
ammantato di veste da schiavo: no, libero di corpo ei dovrebbe
essere e libero di anima, come i figli dell'etere, gli Dei placidi e
sorridenti».
Allora una vampa di vergogna salì in volto allo schiavo, sollevò con
rabbia la destra e gridò pieno di angoscia queste grame parole: «Hai
tu veduto le notti che io affannosamente — ohimè! — ho pianto sul
misero giaciglio, contorcendo il cuore e le mani? E quando di notte, sì
spesso sedendo come una vigile figurazione del dolore che strugge, io
accuso la mia vile sorte, oh! allora s'avanzano nella triste disabitata
officina le figure di Dei scintillanti in bronzo, in pietra e gridano:
qui stiamo noi! ci scolpì Fidia, ci scolpì Policleto, mi lavorò Mirone,
mi lavorò Prassitele, uomini dell'Olimpo. Or chi sei tu mai, infelice,
che osi stendere anche la mano alla fiamma di Prometeo? Allora ohimè!
esse sghignazzano sonoramente e con piedi di bronzo calpestano il mio
cuore che ansa. Al banchetto dei tetri dolori siede la mia anima, o
vecchio, cibandosi di un duplice affanno. Ma nel petto non mi vien mai
meno l'anima rovente, anzi nei dolori più forte si spinge sospirosa
solo alla luce. Allora mi sento battere dentro, allora mi vengono mille
pensieri; allora come per ischerno mi s'agita nello spirito la forma
snudata simile alla convulsa Menade, io contemplo l'immagine più bella.
Ma presto l'estasi svanisce, e di nuovo mi sembra tutto così meschino,
così insulso, e spregevole financo la forza e la propria attività, e
più non appaio a me stesso nobile, come chi con pesante martello batta
sull'incudine il suo ferro che sprizza scintille. Allora nello sdegno
manderei in frantumi le mie opere e strozzerei fin nel germoglio tutti
gl'impulsi divini».
A ciò serio e sarcastico soggiunse quegli: «Come sono vani e meschini
i dolori dei mortali! E intanto l'uomo sempre scontento ingrandisce
il suo misero pulviscolo fino alle proporzioni del mondo; sulla nuca
ei solleva la sfera del cordoglio e si crede ben presto un Atlante. E
ciò che di soave gli si desta nel petto, non più germoglia in un vago
fiore, non più in un placido frutto; ma solo l'istinto ne prorompe
pieno di bacchico furore, provocando gli Dei alla lotta, e così l'anima
diventa sempre un campo di battaglia».
Ma il giovane dal viso sconvolto, tutto iracondo, gridò: «Vuoi tu
vedere come il mio cuore è schiavo e come arido scorre in me il fonte
della forza immortale, da cui credevo di attingere? Mira: qui sta la
mia vergogna, umidi ancora sono i panni che avvolgono la mia opera. O
vecchio, io lavorai intorno alla figura, a lungo stetti ginocchioni e
pregai gli Dei perchè spandessero su queste immagini un raggio del loro
lume vivificatore che penetra fiammeggiando le opere. Ma nessuna vita
vi scese, nessun vezzo seducente, perchè dal cuore alla mano un demone,
schernendo, arresta ed impedisce all'artista da strapazzo la corrente
magnetica del suo animo. Sì, io riconosco d'esser non altro che uno
schiavo, e sebbene io circondi il mio animo del più caldo sentimento e
dello scintillio di entusiastici pensieri, pure, quando mi accingo ad
un'opera, mi si disvela con ischerno la mia impotenza».
E con un tratto violento strappò dall'immagine il panno, da
quell'immagine che alta e coperta si ergeva nell'officina. E si
offrirono allo sguardo, dall'argilla azzurrognola, due alte figure,
congiunte in un poderoso gruppo. Eran Dedalo ed Icaro, il suo celeste
figliuolo, che, imprigionati nel labirinto della roccia di Creta, si
fecero con la loro arte le ali per sottrarsi arditamente alla mortifera
voragine. Ma il padre, già vecchio divino, sedeva presso i crepacci
della rupe, tranquillo e intento a fabbricare con pratica mano le ali
dalle penne maestre del cigno selvatico. Sparpagliata ed a mucchi stava
a lui dintorno sul suolo una quantità di fioccose piume; ed Icaro, il
giovane entusiasta, era presso il padre, avido di desiderio, pronto
a volare, intollerante di freno. A lui già s'inarcavano, circondando
come di argini le rilucenti spalle, due agili ali di sirene, di color
cupo qual notte porporina, arditamente e saldamente connesse, forti per
dare impeto al volo. Ed esse si agitavano, già ventilavano come cigno
sollevantesi, quando la sua ala stride sui neri flutti. Così stava
l'ardente giovane, con gli occhi rivolti al cielo; ma lavorava ancora,
tranquillamente affaticandosi, il vecchio con una pensosa serietà...
Meravigliato contemplava l'Egiziano e stupiva come il sembiante dello
schiavo si rassomigliasse tanto ad Icaro per la giovinezza e per
la figura. «Robusta mi sembra, gridò egli, e grande, ma solamente
disarmonica quest'opera; manca qui lo spirito tranquillo ed anche
la sobria forma. Tu creasti un Dedalo senza vita, perchè l'impeto
dell'entusiasmo ti attirò ben presto la mano alla figura del focoso
figliuolo: tu elevasti a un Titano l'entusiasta Icaro che fu abbagliato
dal sole».
A ciò pieno di cattivo umore rispose l'offeso giovane: «No! tu non
comprendi giammai la mia alta e bollente natura, non mai tu intendi il
mio desiderio così potentemente alato. S'avvii pure la vecchiaia alla
polvere del sepolcro, limiti per bene la zolla del securo intelletto
e con ansia d'avaro calcoli la mercede della sua fredda arte che, con
la polvere della conoscenza, foggia i dolori terreni e i momentanei
piaceri. Ma lo spirito, che le superne Muse infiammarono, deve
liberarsi dalla notte greve e dal labirinto della polvere opprimente.
L'anima del poeta, attratta dalla luce, alza grida di gioia al cielo
ed ei non fa distinzione tra umano e divino. Sulle ali dell'amore
s'innalza al sole per accendere pel popolo mortale la sacra fiaccola di
Prometeo al raggio della bellezza immortale. Ardito siede tra gli Dei,
ardito squarcia il velo di Iside, osservando la ineffabile parvenza
divina. Non hai tu mai agognato le alte sfere della bellezza, quando
fuor del mondo hai guardato nell'etere scintillante? Non mai quindi nel
tremito ti sollevò in alto il petto bramoso? Ah! chi non volerebbe come
Icaro, chi non vorrebbe come lui respirare la luce celeste, quand'anche
dovesse pagare con la morte l'ebbrezza di tale entusiasmo e la voluttà
dei polsi librantisi a volo?»
Allora tranquillo sorrise il vecchio e dolcemente disse: «Assai bella
è negli occhi del giovane la fiamma dell'entusiasmo, bella la lagrima
del desiderio, nutrita nel profondo del seno per le occulte sorgenti
della luce e l'immagine primigenia e velata della vita. Ascolti pure
il barcollante mortale il canto delle sfere cullarsi sulla polvere
nella comprensione ampia del cosmo, ma sia pur certo che alla fine ei
non stringe che un sogno. Perchè noi uomini non siamo posti sull'aereo
delle nubi sì da contemplare oziosi le alate danze delle stelle. No!
noi stiamo tra l'incombente necessità del sepolcro e la terra nutrice!
Aimè! un atomo di luce e un pulviscolo luccicante dell'eterea fiamma
dell'anima scintilla nel petto caduco: ma per l'uomo esso è tutto ed
un profondo enigma. Come innanzi alla sfinge tebana, così sempre muto
innanzi al proprio spirito sosta almanaccando il mortale e vacilla
nell'oscuro labirinto del proprio cuore continuamente per un falso,
malsicuro e tortuoso sentiero. Guarda un po' Dedalo! quanto poco arrivi
a comprendere il saggio! Egli è il padre del lavoro manuale, un secondo
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