Passeggiate per l'Italia 5
Però il carattere della città aveva molte somiglianze con quello di
Sibari e di Taranto.
Avversi alle imprese guerresche, gli Agrigentini si mantennero neutrali
anche nelle guerre fra Siracusa ed Atene. La loro lussuria era senza
limiti. Fabbricavano, dice di loro Empedocle, come se dovessero vivere
in eterno, e banchettavano come se dovessero morire il giorno dopo.
In tutto il mondo fu famosa «la opulenza della mensa agrigentina».
Diodoro ci informa della vita d'Agrigento poco tempo prima della
distruzione di questa città, e possiamo quindi farci un concetto vivo
della ricchezza e della mollezza de' suoi cittadini. Possedevano
eccellentissimi cavalli, che erano rinomati in tutta l'Ellade. Non
solo s'innalzavano loro dei monumenti funerari, ma perfino ai piccoli
uccelli tenuti in casa da ragazze e da paggi.
Quando un _Exanctos_ aveva vinto nella corsa dei carri, lo si conduceva
in città con 300 coppie di bianchi cavalli, tutti di Agrigento.
La ricchezza dei cittadini era straordinariamente grande.
Antistene festeggiò le nozze di sua figlia dando un banchetto a tutto
il popolo nelle strade; la sposa fu accompagnata da 800 carri e molti
cavalieri; alla sera suo padre organizzò un'illuminazione con i mezzi
possibili in quel tempo. Fece ricoprire le are di tutti i templi con
della legna e in un attimo, quando sulla rocca fu acceso un fuoco,
tutti quelli si accesero. Si divertivano facilmente e già fin d'allora
amavano le illuminazioni, come oggi nel sud d'Italia, dove la passione
per i fuochi d'artificio produce tanto stupore nella gente del Nord.
Così ricco come Antistene era Gellia. Considerava tutti gli amici come
suoi ospiti. Lo stesso facevano molti altri in Agrigento; secondo
un vecchio uso invitavano chiunque. Perciò dice Empedocle della sua
patria: che fu «una porta sacra per gli ospiti, lungi restando la
falsità».
Una volta, imperversando un temporale, vennero ad Agrigento, da Gela,
500 cavalieri. Gellia li prese tutti con sè e diede ad ognuno del suo
guardaroba un doppio vestito. Nella sua cantina aveva 300 anfore di
pietra, delle quali ognuna conteneva 100 barili; accanto ad esse vi era
un tino della capacità di 1000 barili, dal quale il vino colava nelle
anfore.
Si può arguire da ciò la magnificenza delle case e lo splendore dei
banchetti. Gli uomini — dice Diodoro — si abituavano fin dall'infanzia
al lusso; portavano abiti e ornamenti preziosi, amavano specialmente i
pettini per la chioma e le fiale d'oro o d'argento per profumi. Molto
meglio rivela la mollezza degli Agrigentini l'ordinanza emessa al tempo
dell'assedio della città fatto dai Cartaginesi, la quale ordinanza
prescriveva ad ogni sentinella di non portare più di un materasso, una
coltre, una coperta e due origlieri.
Chi può biasimare questi uomini se, sotto un cielo bellissimo, fra
le voluttuose dovizie della natura, ricchi di sapienza e di cultura,
Elleni e cittadini liberi, trascorrevano in gioie la vita così fugace?
Ma chi può compiangerli e meravigliarsi se questa città, la cui
popolazione era di circa 800,000 uomini soggiacque in poco tempo ai
Cartaginesi?
Vi sono pochi avvenimenti nella storia che dimostrano la incostanza
delle cose umane in modo così schiacciante come la improvvisa caduta di
Agrigento.
Dopo la sconfitta degli Ateniesi davanti Siracusa, la città di Segesta
aveva chiamato in aiuto i Cartaginesi. Erano comparsi essi in grandi
forze nel 409 condotti da Annibale figlio di Giskone e avevano già
distrutto Selinunte e Imera.
Siracusa, che non vedeva con dispiacere la caduta di queste città, non
si affrettò a salvare Agrigento e Gela, e perciò quel tempo è il più
ignominioso degli Elleni di Sicilia; esso offuscò la fama dei Greci nei
turpi vizi, dei quali, come in tutti gli altri popoli del Sud, maggiore
fu l'ira di parte.
Nel 406 soltanto tornarono i Punici con forze novelle.
Gli Agrigentini, che avevano a temere i loro primi assalti, assoldarono
lo spartano Dexippo con 1500 uomini e chiamarono pure dei mercenari
campani.
Annibale e Imilcone accamparono davanti la città, ad ovest del colle
di Minerva, da ogni parte e al di là dell'Akaragas; fecero costruire
un baluardo, facendo distruggere all'uopo i monumenti funebri. Cadde
però il fulmine sulla tomba di Tirone, la peste scoppiò nel campo e
colpì lo stesso Annibale: questi cattivi presagi gettarono un panico
superstizioso nell'esercito.
Imilcone proibì allora la distruzione delle tombe, offrì al Moloch, in
espiazione, un ragazzo e per Poseidone fece affondare nel mare molti
animali.
Mentre i Cartaginesi investivano Agrigento, i Siracusani mandavano in
suo soccorso il loro generale Daphnaus con truppe.
Egli battè gli Africani che gli si fecero contro e Agrigento sarebbe
stata salva se i suoi corrotti generali avessero fatto una sortita
dalla città. Ma essi invece fecero il possibile perchè il nemico
si mettesse in salvo nel suo campo. Il popolo sollevatosi lapidò i
traditori.
Avendo Daphnaus bloccato i Cartaginesi, questi videro sorgere il
pericolo di morir di fame. Però il caso li aiutò, giacchè le navi
cartaginesi catturarono il carico di grano che doveva approvigionare
Agrigento. I cittadini avevano usato con prodigalità dei viveri,
anzitutto perchè non abituati alle privazioni e perchè poi si cullavano
nell'idea della prossima fine dell'assedio.
Fu consumata presto la provvisione dei viveri. Però non questo bisogno,
ma la mancanza di forza difensiva propria abbattè la città; i mercenari
la tradirono.
Prima disertarono al nemico i Campani, sotto pretesto che era scaduto
il loro tempo di servizio; si allontanarono poscia anche Dexippo e
Daphnaus. Agli Agrigentini allora mancò l'animo. I loro capi, dopo
essersi assicurati che i viveri erano finiti, comandarono al popolo
di abbandonare, tutti insieme, nella notte seguente la città. Avvenne
l'inaudito; così presto si scoraggiò questo popolo numeroso che esso,
invece di tentare tutto il possibile, come più tardi fecero Siracusa
e Cartagine, si coprì dell'onta di abbandonare al nemico la fortissima
città con tutti i suoi tesori. Venuta la notte, uscì il popolo: uomini,
donne, fanciulli, empiendo l'aria di grida di dolore. Tanta era la
paura e così vile l'animo loro, che non si curarono dei congiunti
ammalati e dei vecchi deboli.
Molti cittadini però rimasero e si diedero la morte per perire almeno
nella dimora dei loro padri.
La folla del popolo si avviò verso Gela con una scorta di armati, e si
videro le ragazze educate tanto mollemente, camminare a piedi.
Nella deserta città entrò Imilcone dopo 8 mesi di assedio. Quelli
che vi erano rimasti, furono trucidati. Si dice che il ricco Gellia,
rimasto in vita, si nascondesse nel tempio di Atena e quando vide che
gli Africani non risparmiavano nemmeno gli Dei, incendiò il tempio e
perì con le sacre offerte.
Il bottino d'Agrigento, che non era stata mai conquistata da nessun
nemico e che, secondo l'affermazione di Diodoro, era allora la più
ricca città ellenica, dovette essere stato immenso. Imilcone mandò
le opere d'arte più preziose a Cartagine, che poi caddero nelle mani
dei Romani. Fece quindi devastare Agrigento e bruciare i templi.
Tracce d'incendio si vedono ancor oggi in parecchi architravi. E dopo
che i Punici vi ebbero svernato, Imilcone distrusse completamente la
città. Come racconta Diodoro, fece infrangere tutte le opere d'arte
dei templi, ritenendo che il fuoco non le avesse sufficientemente
annientate. La cultura subì allora una perdita inestimabile, proprio
nel fiorire del tempo di Pericle; avendo inoltre molte altre guerre
devastatrici funestata la Sicilia, il suolo dell'isola è rimasto assai
impoverito. I popoli che distrussero la Sicilia greca, il Cartaginese
e il Romano, erano egualmente barbari.
Questo terribile destino aveva colpito Agrigento nell'autunno dell'anno
406 prima della nascita di Cristo e d'allora in poi la città non si
sollevò, sebbene una nuova popolazione vi si stabilisse. Corinzio la
popolò con una colonia nell'anno 341, sicchè a poco a poco si rialzò.
Essa persino si sollevò durante la tirannide di Agatocle di Siracusa,
mentre questi era occupato nel suo strano viaggio in Africa allo scopo
di assoggettarsi tutta la Sicilia. Però il piano fallì e Agrigento
cadde di nuovo in potere degli Africani.
Sorse in seguito, come tiranno, Finzia, un nuovo Falaride. Gli
Agrigentini lo cacciarono via e si diedero a Pirro di Epiro, la cui
signoria fu però assai breve. La città divenne di nuovo cartaginese ed
anzi una delle loro piazze principali, nella guerra contro i Romani;
essi mantennero questa città ancora dopo la caduta di Siracusa. Nella
prima guerra punica fu di nuovo in Agrigento un figlio di Annibale,
Giscone con 50,000 uomini.
I consoli L. Postumio e Q. Emilio circuirono Agrigento con 100,000
uomini, dove Annibale si difendeva accanitamente. Avendo però
Annibale fatto una sortita per liberarsi, ed essendo stato battuto, i
Cartaginesi furono sloggiati dalla città. I Romani l'avevano assediata
per 7 mesi, e quando vi entrarono, massacrarono il popolo con accanito
furore e lo trattarono più iniquamente di come i Punici avevano
fatto una volta. I cittadini rimasti in vita furono tutti tratti in
schiavitù (262 a. C.). Non molto tempo dopo però ricadde Agrigento
in potere del generale cartaginese Cartalus che fece distruggere e
incendiare l'infelice città. Quando cadde Siracusa si trovavano ancora
in Agrigento Epecide, Annone e Mutines contro Marcello. Mutines fu
un Punico d'Ippona, che aveva spinto il grande Annibale in Italia;
egli ottenne dei brillanti successi comandando la cavalleria, sì che
tutta la Sicilia era piena del suo nome. Annone invidioso, gli tolse
il comando e Mutines, per vendetta, cedette Agrigento ai Romani. Notte
tempo aprì le porte della città al console Lavinio. Annone ed Epecide
ebbero appena il tempo di salvarsi su di una barca. Coll'usata ferocia
i Romani punirono Agrigento, i maggiorenti della città furono uccisi,
i rimanenti furon venduti come schiavi.
D'allora la bella città di Empedocle e di Tirone si perdette nella
storia.
Al tempo degli Elleni si distinse per nobili intelletti. Le diedero
lustro Empedocle, Pausania, Acrone il filosofo, oratori e medici,
Proto scolaro di Gorgia, Dinoloco lo scrittore di commedie, Phaas
l'architetto, Metello il maestro di Platone, nella musica, Fileno
lo storico e ancora nel tempo della miseria, quando Verre rubò alla
decaduta Agrigento gli ultimi tesori che la grazia dello spogliatore di
Cartagena gli aveva lasciati, onorò la sua patria Sofocle, difendendola davanti ai Romani contro quel ladro.
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