2015년 5월 31일 일요일

Passeggiate per l'Italia 17

Passeggiate per l'Italia 17


Euforione intanto guardava pien di mestizia il bel fenomeno, nè, pieno
di malinconia, l'opera sua prediletta lo rallegrava, quell'opera che
a lui più d'ogni altra avrebbe dovuto piacere. Ma tuttavia si calmò
e si addolcì l'impeto dell'animo. D'un attimo gettò sulla spalla la
sua sopravveste e uscì fuori dall'officina verso l'aperto, recando
nell'animo virile la dolce figura del dolore.
 
Età felice, quando ancora attorno agli occhi distende il velo il
seducente Dio del sogno; scorrono gli anni, la Parca che ronza lo
toglie e allora si presenta grave agli occhi il muto Destino. Ma
l'amore si diletta dell'impari sorte degli uomini, scocca allegramente
la sua freccia e nella notte che incombe soffia le segrete vampe con il
battere delle ali dei sogni.
 
 
 
 
CANTO II.
 
AMORE E PSICHE.
 
 
Già la notte avvolgea il mare e gli ombrosi monti della Campania che
mollemente s'innalzano intorno al golfo di Napoli, ricingendolo come
ghirlanda, placidi riflettendo le cime nelle acque eternamente azzurre.
Sempre tremola l'onda al bacio di Elio durante il giorno, sempre nella
tiepida notte al bacio ardente degli astri. Risplendeva ora un'intensa
luce rossastra sul Vesuvio; nuvole di fuoco aleggiavano attorno alla
cresta del monte rumoroso; lontano se ne accendeva al riflesso l'aria e
lo specchio del mare; lontano nella campagna guizzava anche un chiarore
sulle terre di Nola, dove sempre Flora ricopre i prati e i colli di
olezzanti germogli come di vampe, e l'albero di granato di Persefone,
dai rossi bocciuoli, arde dei riflessi del vermiglio fiore vulcanico.
E come se di nuovo fosse emersa dal mare la sera, dappertutto il cielo
e la terra divennero purpurei per il bagliore del Vesuvio.
 
Ma Euforione passeggiava lungo la sponda del mare, solitario ed
anelante, con trepido piede, e spesso tratteneva il passo ad ammirare
estatico l'incantevole quadro notturno di Pompei. Scintillanti
risplendevano i templi e nitido il grandioso foro; rossicci i pinnacoli
della città, i teatri e i portici marmorei. Le case allineate nei
vicoli che si dilungano per diritto, eleganti e piccole, come ville
e palazzine d'estate, sembravano davvero costrutte dalle divinità
marine del golfo, perchè vi abitasse una felice genía di uomini che
passa oziosa i giorni nel piacere e nel sollazzo, e simili a lampade
raccolte intorno al mare esse raggiavano di luce. Anche scintillanti
nel porto erano le navi nerastre, che se ne stavano ivi strette contro
un argine di tufo innanzi all'áncora. E con lo sguardo stanco, quasi
avesse trovato di là la nave di Serapione, riconoscendola al volto
raggiante di Iside, se ne stette ivi lungamente Euforione e gli sembrò
di vedere la nera figura del commerciante appoggiato al timone, in
atto di contemplare le stelle del polo e il chiarore del monte. E
subito si sottrasse dalla curva insenatura del mare, come un profugo
dai criminosi suoi pensieri. Ma per la notte errava un rumore insolito
e strano, come se una gru da lungi corresse sul mare con le sue ali
susurranti e l'aria risuonasse dal canto della migratrice.
 
Lungo la sponda s'ergeva la villa principesca di Arrio, in mezzo a
un boschetto di platani e di alti pini, d'ogni intorno circondata
di mura, donde sporgevano grossi vasi di fiori e statue seducenti
di delicato aspetto. Volentieri colà s'intratteneva il ricco uomo
durante l'autunno, per godere dei suoi possedimenti e dell'incantevole
campagna: dal Sarno al mare si stendeva a mo' di anello su anello il
suo podere. Ciò che i suoi superbi antenati avevano per lo innanzi
acquistato in terra straniera, case e campagne in Roma, nell'Apulia,
nel Sannio, ovvero lungo la spiaggia veneta, tutto vendè il nipote,
col proposito di accumulare quivi, in terra natia, il suo cospicuo
patrimonio in innumerevoli e fiorenti beni. E già mezza Pompei era sua,
già mezzo Ercolano gli apparteneva ed anche sino a Stabia intorno alle
falde del Vesuvio si prolungava le bella tenuta di Arrio.
 
Euforione si accostò ora pian piano alla porta spalancata; oh come
se ne stava accanto alla porta e guardava in alto nel cielo radioso,
tutto agitato, perchè mille pensieri gli turbinavano nella mente! E
allora lo prese subito per mano l'ilare Ion, il suo Ion che già lo
aspettava e gridò: «Come giungi tardi anche tu! Pansa ha ora mandato
a chiamare mio padre, perchè essi vanno alle falde del Vesuvio ad
osservare se mai muti la cresta del cratere, di ciò avendoci avvertito
i timidi vignaiuoli. Ma vieni a casa, stiamo lì insieme a chiacchierare
un'oretta; dentro, nella sala, le fanciulle danzano ancora delle
allegre danze, che provano per l'indomani secondo la moda di Roma, con
canto giulivo, e tutte le istruisce la intelligente sorella».
 
Così disse Ion e si avviò attraverso le arcate di bosso del giardino,
salendo la magnifica scala della casa che, fatta di pietra gialla, si
estendeva fino al portico. Essi ora attraversarono l'ombroso atrio,
dove ogni ospite si divertiva ad osservare le dipinte pareti e i
leggiadri fregi del suolo risplendente di mosaico. Dalla sala echeggiò
intanto un suono assai allegro, un cinguettio di flauti e uno strepito
di nacchere; nel medesimo tempo risa soffocate di fanciulle e i passi
cadenzati di piedi sparenti nella danza. Subito Ion condusse nella
camera interna il ritroso Euforione ed agile e furbo scappò fuori di
balzo e si allontanò.
 
Affascinante era la stanza e ombreggiata da una gradevole quiete, cui
rischiarava il fioco splendore di una lampada sospesa. D'ogni intorno,
sulla rossiccia parete come alla soffitta scintillavano figure belle
e scherzose, simili ad immagini della notte che il sogno soavemente
dipinge; poichè ivi un intelligente pittore aveva profuso sulle pareti
con senso artistico i colori della poesia. Qui sporgevano di mezzo ai
fiori maschere e svolazzanti farfalle, colà il grillo di Anacreonte
che guidava il leggiadro carrettino forzatamente tirato al passo da
un uccello variopinto; poi Amorini, che sedevano trasognati accanto
alla peschiera, adescando i pesci i quali si dimenavano nell'onda
di cristallo. Ma a preferenza delle altre seducevano lo sguardo
quelle Menadi sul fondo nerastro, che dolcemente si libravano nel
velo ondulato e spargevano scherzose la serica chioma alle aure, con
gli occhi fisi in alto, come se beate volassero al cielo. Tutto era
ricco all'intorno e disposto in un cumulo di bellezze. Dappertutto
scintillava oro, dappertutto avorio, perle e lapislazzuli; dappertutto
era un leggiadro ornamento di stoviglie, di tavole e di armadi. E là
scorreva gorgogliando da un'arcuata nicchia la polla di acqua fresca
giù nella conchiglia, che una ninfa di marmo ginocchioni le offriva,
una figura del celebre artista Menandro. Nel mezzo era una tavola
collocata proprio sotto la lampada, incastonata in alabastro; lucida
risplendeva la lastra come la luna. Ma essa non portava alcun fregio,
come sempre la desiderano le fanciulle, volentieri mettendo in mostra
delle cosette per farle vedere, le cassettine o le figurine di oro e
le variopinte conchiglie del mare. Sopra vi splendeva soltanto un vaso
d'unguenti, conformato a mo' di tulipano, da un bel calice ricurvo,
come quando esso, l'Ebe dei fiori, dopo che s'è imbevuto di rugiada, ne
porge alla cicala. Non però si sorreggeva sul gambo, chè una Pandora
lo teneva nelle mani sollevate, e sul coperchio si vedeva raffigurata
Venere come quando usciva dal bagno. Pien di gioia il maestro riconobbe
la sua opera e subito la prese dalla tavola fra le mani, quell'opera
che una volta, in un'ora di tristezza, aveva egli stesso modellata e
data a Ione come ricordo del commiato.
 
A un tratto stridè la porta, una veste ondeggiante dette un fruscio e
la padrona, Ione, la figlia di Arrio, si fermò subito davanti a colui
che estatico la contemplava. Come una diva, stava lì commossa l'alta
e piena figura della compagna d'infanzia. Stupefatta l'avvenente
fanciulla guardò Euforione, egli alzò gli occhi e si confuse, poi
con gli occhi fisi a terra rimase perplesso, con la bella immagine di
Pandora fra le mani, come s'ei fosse venuto, timido oblatore del cuore,
per offrirle la figura e lei per prenderla nella mano.
 
«Come tu pure, diss'ella sorridendo, mi richiami ora quell'età in cui
congedandoti e separandoti da me m'offristi l'opera scultoria! Innanzi
a me tu stavi allora come adesso nella medesima camera, di sera, ed
io con piacere ricevetti dalle tue mani l'opera che mi si offriva.
Vedi, son già passati e trascorsi gli anni, eccomi di bel nuovo, tu
mi t'aggiri dinanzi di bel nuovo nella medesima parvenza, come se sul
nostro capo si fossero fermate le ore. Sì, sempre come un oblatore,
o Euforione, tu mi passasti davanti, ed ora così ritorni, come un
donatore a chi è povera di doni».
 
Ma il giovane confuso aprì i neri e vividi occhi e li abbassò di nuovo,
quindi grave così parlò: «Ben fermo è il tempo che incessantemente
trasforma tutte le cose, per colui che resta solo, sempre stretto
dal cerchio uniforme del giorno: come potrebbe il tempo ed il mondo
cambiarlo? Taciturno ei custodisce i sacri tesori della ricordanza e,
fedele a sè medesimo, prova gli stessi piaceri ed anche gli stessi
dolori. Pure a chi spensierato passa i lunghi e instabili giorni,
lieto godendo la piena visione del mondo e della vita, ben dilegua il
passato come una nera e sperdentesi immagine di sogno. Anch'ei però
s'allontana, torna di nuovo a casa, poco la riconosce e non più gli
è sufficiente una piccola cerchia. Così sei anche tu mutata per me, o
nobile padrona».
 
A ciò subito rispose la giovane con assennata parola: «Sì! ben vissi in
Roma i volubili anni, lontana dalla patria e dagli ottimi amici; così
volle mio padre, allorchè rimasi orfana sì per tempo con la perdita
della madre affettuosa. Magnifica è la città e grande e oltre ogni dire
abbagliante la vita che vi serpeggia, però mi spaventa la confusione
della folla. Roma rassomiglia al caos, dove tutto s'agita e si dimena
confusamente. Spesso mi tremava il cuore colà, ed io mi sentiva sola,
pazzo il mondo sembravami, falsa ogni umana attività. Ma la zia mi
canzonava spesso schernendomi con pungenti parole, mentre io sospiravo
la patria più bella. Copiose lagrime versavo, così spesso mi richiamava
al pensiero la bella Pompei e il golfo e la placida spiaggia e questa
casa con i variopinti cubicoli. Sì, i miei mesti pensieri ritornavano
spesso sospirosi da Roma all'età della felice fanciullezza trascorsa
nella patria, così come le rondini ritornano in primavera in cerca
del nido ove crebbero senza pena, godendo degli scherzi del sole. Ma
morì, ohimè! la tua carissima madre Serena, la mia fedelissima dama, a
cui tutto io confidavo. Ora ella riposa lontano in Roma, lungo la via
Appia e non più guarda il figlio, consolandogli l'afflitto cuore coi
suoi sguardi amorosi. Ma un'amichevole parola di saluto anch'io voleva
dirti, perchè domani non mi stessi dinanzi pieno di uggioso rimprovero
quando converranno a festa nella sala i nobili amici».
 
Come quando un suono sprigionandosi da flauto eolico nella sera,
penetra giù nel cuore e vi desta il soave desiderio d'un sogno beato,
così volava a lui la parola, quella voce melodiosa. «Ma perchè io
dovrei sembrare afflitto? E non mi son io, così gridò egli, rischiarato

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