2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 3

Passeggiate per l'Italia 3


Non dirò dei templi di Selinunte, ma ricorderò che qui si rinvennero
le famose metopi, ora nel museo di Palermo, che aiutarono tanto nello
studio dell'arte antica. Non voglio dimenticare, anche, che lo storico
Tommaso Fazello, il frate che diede alla luce nel XVI secolo la più
recente storia di Sicilia, nacque nei pressi di Sicilia.
 
Nel rimanente d'Italia, si vede la vita moderna vicino alle rovine,
come nella campagna romana; oppure si vedono, le une a fianco delle
altre, rovine di epoche diverse. Quelle di Selinunte sono tutte del
medesimo tempo, e attorno non hanno alta di vita; davanti si stende la
deserta solitudine dell'orizzonte e del mare.
 
Camminando verso levante, giungemmo al fiume Belice, l'_Hypso Potamos_
degli antichi, e, dopo alcune foreste di sugheri e spiagge di sabbia,
toccammo Menfrici e da qui, per deserta pianura, ci fermammo a passare
la notte a Sciacca (_Thermae Selinuntiae_), piccola città di 16.000
anime, con castello pittoresco, posta su di una collina in faccia al
mare.
 
Dopo Sciacca si cammina per circa quattro miglia tedesche lungo la
spiaggia, ora fra sassi e conchiglie, ora su terreni paludosi, ora
seguendo il greto dei torrenti, alla ventura, senza strada battuta.
Attraversammo un torrente, il Platani, l'antico _Alico_; sulle sue
sponde pascolavano mandrie di buoi dalle lunghe corna, i quali, come
ebbi agio di constatare, sono di pelame rosso i veri buoi di Elio
mentre nel continente sono di candido pelame. I mandriani di
miserabile e rozzo aspetto stavano a cavallo, come quelli della
campagna romana e delle paludi Pontine.
 
Dopo aver lasciato la spiaggia del mare, ci inoltrammo in una regione
di colline disabitate, coltivate a grano: non un villaggio! L'abbandono
più completo! Non rammento di aver mai visto paese più deserto...
 
Nell'uscire da alcuni cespugli fui colpito dalla vista di uno stagno
disseccato, piano e candido come neve.
 
Finalmente arrivammo a Montallegro, dopo avere cavalcato per
ventiquattro miglia italiane. Montallegro non corrispondeva con il
nome, alla sua povertà e allo squallore suo: circondato da campagna
arida, su cui allignavano poche viti intisichite e radi olivi, avrebbe
meglio meritato il nome di _Montristo_.
 
Poichè si soffriva penuria d'acqua, da un secolo il villaggio era
sceso dall'alto del monte; però si scorgono ancora due aggruppamenti di
case vicini l'uno all'altro: l'antico in alto, con le sue vie, le sue
case in piedi ma disabitate, quasi mummia di villaggio; il moderno, ai
piedi del monte stesso, pressochè deserto e, come il primo, squallido
squallido.
 
Le case sono costituite di roccia calcarea, grigia, triste. In questi
pressi sorgeva un dì _Kolikos_, l'antica città di Heraclea Minoa che
ricordava il nome di Minosse; quando questo re venne in Sicilia per
perseguitarvi Dedalo e fu ucciso dalla figlia del re Corato, i Cretesi,
venuti con lui, identificarono Minoa. Poche grotte e qualche sepolcro
scavati nella roccia, sono gli ultimi resti della antichissima città.
 
Da Montallegro, per squallide contrade, sotto la molestia del sole
cocente, giungemmo a Siculiana, cupo paesello, su un monte arido, in
cui non crescono, tra l'asprezza delle rocce, che cactus pungenti. Qui
è grande la miseria degli abitanti...
 
In tutti questi paraggi, le donne portano una specie di scialle nero
o bianco, a guisa di mantiglia, che rialzano sul capo, e gli uomini,
berretti alti a punta, pure neri e bianchi. Da per tutto è odore
di zolfo e, qua e là, si vedono solfatare fumiganti. Di fronte a
Siculiana, anticamente, sorgeva Anedra e si trova dopo una catena di
piccole colline, di natura vulcanica e che contengono tutte, più o
meno, del zolfo.
 
La notte era intanto sopraggiunta e noi cavalcavamo in quella
sterminata solitudine al chiarore stupendo di luna, non udendo
altro rumore fuorchè lo strido degli uccelli notturni e il mugghiare
lamentoso del mare a cui ci avvicinavamo a poco a poco.
 
Giungemmo, così, a Molo di Girgenti, piccolo porto lungi tre miglia
circa da Agrigento, e la notte era profonda allorchè entrammo
nell'antica Akraga, la patria di Empedocle, ora la meschina città di
Girgenti.
 
All'incerta luce delle stelle tutta quella solitudine assumeva un
aspetto classico e malinconico e, allorchè, al mattino, fui alle porte
della città, vidi un paesaggio di poco inferiore ai campi di Siracusa
per grandezza e solennità di stile.
 
Eravamo nell'antica Agrigento, e m'è forza, per soddisfare ad una
promessa, dire brevemente di questa formosa vetusta città e dei suoi
monumenti.
 
Essa giace in una pianura incassata scendente al mare, distante oltre
tre miglia, e circondata da colline sassose e di aspetto imponente. Due
fiumi corrono ad oriente ed occidente di questa pianura: l'_Akraga_
e l'_Hypoa_, denominati oggi rispettivamente S. Biagio e Drago.
Questi circoscrivevano da due parti il perimetro della città e si
congiungevano a' piedi delle mura di questa a mezzogiorno; qui il
secondo perdeva il nome e scendeva al mare riunendo le sue acque con
quelle del primo.
 
La pianta dell'antica Agrigento si presentava come un triangolo
irregolare, fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord,
appoggiata contro due colline: il _Kamiko_, per cui trovasi con
Girgenti e la Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui
si accostavano i sobborghi, Neopoli (città nuova), come la denomina
Plutarco, la quale si allargava sotto il _Kamiko_ occupando quasi tutta
l'altura.
 
Le alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano
le difese della città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a
levante ed a mezzogiorno.
 
Ponendosi dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di
templi divisi, dei quali sono giunte sino a noi alcune reliquie, si ha
davanti una costa di grandiosa e malinconica bellezza, della quale è
meglio tacere piuttosto che tentare la descrizione con parole.
 
La pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto,
un paesaggio di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia
con la grandezza monumentale dei templi dorici.
 
Tutto vi è grandioso: l'orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono
le tinte e la terra arida ci indica la prossimità dell'Africa; l'unica
vegetazione che qui si scorga è quella malinconica degli olivi.
 
All'ingiro ove s'ergevano templi, ove ancora posano centinaia di
tombe, di loculi, di grotte sorgono qua e là tronchi di colonne e
il suolo è coperto di avanzi di architravi colossali e di triglifi;
tutto vi chiama alla contemplazione, all'ammirazione, e chi non si
sente commosso a quella vista, vuol dire che non nutre nessun amore per
l'antica Grecia, e non sa apprezzare la splendida civiltà di questa.
 
Non è possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi
monumenti senza prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto
dare un cenno della storia dell'antica Agrigento nella speranza che
il lettore di queste pagine sia indotto a fermarsi in questa città di
fama mondiale e di completare quanto io accenno semplicemente. Vi sono
inoltre nella vita di Agrigento una folla di grandi figure, il cui nome
è sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu una delle principali
fra le città elleniche, e se non così potente come Siracusa, fu però
ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.
 
Anche prima dei Greci era già un centro importante dei Sicani. Il
suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro, ospitato Dedalo
fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamiko una rocca alla quale si
poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale.
 
In questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro.
 
L'Agrigento ellenica sorse nei due anni della 49ª olimpiade (582)
come città coloniale della vicina Gela, e presto superò in importanza
la città madre: avendole dato un rapido sviluppo il commercio con
Cartagine.
 
Gli Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo
gli statuti di Charondas di Katana, che durò fino a che Falaride
la mise in mano ai tiranni. Quest'uomo straordinario era Cretese di
nascita. Incaricato della costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si
giovò di questa impresa che gli metteva a disposizione denaro e uomini,
nonchè il punto più forte della città.
 
Egli assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si
celebrava la festa di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento.
Ai Greci era così odiosa la monarchia, che concepirono Falaride come un
mostro favoloso, e la sua crudeltà diventò proverbiale.
 
A tutti è nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo
dovette costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli
stranieri e le persone a lui nemiche.
 
Il toro d'Agrigento e l'immagine del toro di Dedalo furon rimandati
a Creta e di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli
uomini nei fianchi del toro.
 
Che il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli
racconta: Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di
Agrigento, ma Scipione, 260 anni dopo, in seguito alla distruzione di
Cartagine, lo ha ritornato agli Agrigentini.
 
Il toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici,
dove egli fa comparire degli inviati del tiranno in Delfi i quali
portano come offerta al Dio quella macchina infernale, e il crudele
tiranno vi è presentato come un uomo giusto; egli, inoltre, per bocca
dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce come un'assai religiosa
offerta.
 
Non è facilmente possibile potere spingere più oltre la malignità
contro la Chiesa come Luciano ha fatto in questi suoi scritti.
 
Falaride fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso
la metà del VI secolo a. C., si distinse a guisa degli altri tiranni
greci come uomo d'intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e
artisti.
 
Si raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia
di Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e
quella che viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva
assoggettate tante città, si alleò una volta con quelli d'Imera, a
patto che essi dovessero eleggerlo a loro capo e potersi così vendicare
dei loro nemici. A ciò si oppose Stesicoro: egli venne al popolo e
raccontò una favola. Un cavallo pascolava una volta, solo, in un campo;
venne il cervo, più forte, e lo cacciò via. Il cavallo andò per aiuto
dall'uomo e lo pregò di castigare il cervo. Bene, disse l'uomo, però tu
mi devi portare sul dorso. Il cavallo acconsentì, si vendicò così del
cervo con l'aiuto dell'uomo, ma portò per sempre il morso che questi gl'impose e subì il suo dispotico dominio.

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