2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 10

Passeggiate per l'Italia 10


Un'ottava di San Fratello suona così:
 
Ajudam tucc a sgugghier st'strecc,
Cunfess ù mie debu e 'un m'ámmucc.
A miei figgh cuminzà a dumer ù mecc,
Ognun si van abbuscher ù sa stucc.
Volu camper li fommi, brutt'impecc',
E roi divaintu cum i babalucc,
E quand puoi fan i scaramecc
'N spartuoma la fam 'n tucc 'n tucc.
 
Eccone la traduzione italiana:.
 
Aiutatemi a sciogliere questa matassa
Confesso il mio debole e non mi occulto,
A miei figli cominciò ad ardere il mecco,
Ognuno si vuol buscare il suo astuccio:
Voglion campar le femmine, brutto impiccio.
Ed esse addiventano come le lumache,
E quando poi faranno i picciolini.
Ci spartiremo la fame in tutti in tutti.
 
Oltre queste colonie longobarde, vi sono poi quelle albanesi anch'esse
molto notevoli, che da oltre quattrocento anni conservano il loro
idioma ed il loro culto greco. Dopo la caduta dell'Epiro nelle mani
dei Turchi, molti compagni del celebre Giorgio Castriota Scanderberg si
rifugiarono in Italia, alcuni stabilendosi in Calabria, altri accolti
in Sicilia da Ferdinando il Cattolico. Quei di Sicilia vi giunsero
nel 1482 sotto la guida del loro capitano Giorgio Mirsgi, e presero
dimora a Palazzo Adriano. Poco dopo ne giunsero altri e si fermarono
nelle vicinanze di Palermo, dove occuparono i feudi dell'arcivescovo
di Monreale, Merco e Aidingli che da allora prese il nome di Piano de'
Greci. Oggi gli Albanesi di Sicilia sono circa diecimila ed abitano
Mezzojuso, Contessa, Piana e Palazzo Adriano. Qui, oltre la loro lingua
nazionale albanese, parlano anche greco, e così la lingua di Eschilo,
di Pindaro e di Platone un tempo nazionale dell'isola, poi per lungo
tempo abbandonata per rifiorire brevemente sotto i Bizantini, torna
per la terza volta a risuonare in Sicilia, e questa volta per opera
di gente che aveva perduta la sua patria. Queste piccole colonie,
vicine alle rovine degli antichi tempi, fanno ripensare al periodo
glorioso in cui gli Elleni fondarono le splendide città di Siracusa,
Agrigento, Selinunte e tante altre. Il loro rito è bizantino, e fa
quindi ripensare a quel periodo certamente non glorioso in cui gli
imperatori bizantini governarono, o meglio oppressero l'isola, fino a
che se ne impadronirono i Saraceni e due secoli dopo i Normanni che
latinizzarono il culto. Il vescovo greco degli Albanesi risiede in
Palermo e nel vescovado v'è pure un collegio o seminario greco, da cui
sono usciti degli ellenisti di valore tra i quali Crispi. A questo
semplice istituto si riducono ora le antiche scuole di sofisti e di
filosofi nella patria di Gorgia e di Empedocle. Il greco naturalmente
è, per gli Albanesi, solo l'idioma del culto e della scienza. Il
linguaggio di cui si servono tra loro e nel quale compongono le loro
canzoni e le loro apostrofi alla patria è ben diverso. Il Vigo afferma
che fino a poco tempo fa era loro costume ogni anno al 24 giugno (forse
il giorno in cui lasciarono la patria) di riunirsi sul Monte delle Rose
ed al sorgere del sole di cantare, rivolti verso l'oriente, un lamento,
di cui ecco il ritornello:
 
O' ebúcura Morée
Cù cuur të glieë néngh të peë.
Ati cám ù zootintát,
Ati cám ù mëmën t'i me,
Ati cám ú t'im vëlua.
O ébúcura Morée,
Cù cuur të glieë néngh të peë.
 
Il lettore che non ha mai inteso parlare albanese, può, da questo
saggio, vedere come questa lingua non abbia alcuna affinità con le
altre lingue conosciute. Essa infatti rappresenta un problema tra
le lingue vive, come l'etrusco lo è tra le lingue morte. Il dotto
linguista monsignor Crispi nella sua introduzione alla piccola raccolta
di canzoni popolari siculo-albanesi da lui inserita nel libro del
Vigo, dice: «L'albanese è così antico che si può considerare come una
lingua originaria cui somiglia per meccanismo e per suono. Difatti
somiglia alla caldea ed alla ebraica ed è intimamente legata alla
frigia, alla pelasgica, all'antica macedonica e alla primitiva eolica.
La sua maggiore gloria è appunto quella di essere una delle lingue
originarie da cui è sorta la divina lingua degli Elleni. Ma quantunque
questa lingua sia così vetusta, e quantunque possa considerarsi come un
fenomeno assai raro che essa si sia mantenuta sempre viva nella bocca
del popolo, pure essa ha avuto pochissimi scrittori e quindi non ha mai
acquistato un carattere letterario». Se la cosa è veramente così che
la lingua degli Albanesi sia la lingua originaria dell'Ellade, e, se
nel dialetto siciliano si possono trovare ancora le tracce dell'antica
lingua originaria sicula ed italica, allora in Sicilia sarebbe
avvenuto uno strano riavvicinamento tra le lingue affini che furono
originarie del greco e del latino. L'alfabeto originario degli Albanesi
era il fenicio; ma ora essi si servono, e già da lungo tempo, dei
caratteri greci, e, nella propaganda che fanno a Roma ed in Sicilia,
dei caratteri latini. E con questo monsignor Crispi ha aggiunto
alla raccolta del Vigo 17 canzoni e due canti spirituali, dandone
a lato la traduzione italiana. Non trovo in queste canzoni speciali
caratteristiche di bellezza, sono molto lontane dalle celebri antiche
canzoni popolari dell'Epiro e della Grecia, nel tono e per la forma
somigliano più alle ballate serbe; pure qua e là hanno un'intonazione
particolare, per qualche accenno di carattere siciliano o napolitano.
 
Occupiamoci ora della poesia popolare siciliana genuina. Nella
introduzione alla mia traduzione in tedesco di alcune poesie di
Giovanni Meli, ho gettato uno sguardo sulla poesia siciliana dai
tempi di Ciullo fino a quelli di Meli, ma senza occuparmi della poesia
popolare. Difatti i noti poeti siciliani come don Antonio Viniziano, il
marchese Rao, Vitale da Gangi, Giovanni Meli, Domenico Tempio e Ignazio
Scimonelli sono poeti letterati, quantunque essi abbiano scritto in
quello stesso idioma nel quale il popolo anonimo compone le sue belle
canzoni. Solamente il celebre Pietro Fullone di Palermo, vissuto ne
primi anni del secolo XVII e le di cui innumerevoli poesie hanno avuto
una diffusione enorme in tutta l'isola, può considerarsi come un vero
poeta popolare e il caposcuola della _poesia rustica_ di Sicilia.
Egli stesso appartiene al popolo, perchè era un povero tagliatore
di pietra che lavorava nelle reali galere. Nella sua facilità quasi
senza esempio d'improvvisatore in ogni genere di componimenti, sacri,
profani, erotici, epici e satirici, si ha un'espressione personale del
carattere, naturalmente poetico del popolo siciliano; pure la sua vena
era così ricca che dopo di lui (morì il 22 marzo 1670) nessuno lo potè
mai uguagliare. Tuttavia vi sono sempre nel popolo dei poeti i nomi
dei quali vengono tramandati e che fanno stampare in fogli volanti
le loro poesie di occasione. Il Vigo, che a questa classe di poeti ha
rivolto tutto il suo amore e tutta la sua attenzione cita come viventi
e specialmente degni di lode, Alaimo, Adelfio e La Sala da Palermo.
Il primo di questi tre fa lo zappatore, e si è reso celebre per una
ricca vena satirica. Il Vigo lo chiama il Salvator Rosa della _poesia
rustica_; Stefano la Sala poi ne è, sempre secondo il Vigo, l'Ariosto.
Questo poeta vive poveramente in Palermo, fabbricando chiodi; il Vigo
lo conobbe nel 1845, quando egli faceva stampare le sue poesie col
suo ritratto e con una litografia rappresentante il suo mestiere. Ma
il popolo gli ordina solo delle canzoni e non del lavoro, così che la
fabbrica del povero La Sala non vuol prosperare.
 
Assai notevole è ciò che il Vigo dice sull'accademia poetica dei
mendicanti ciechi di Palermo, e che da sola basta a provare lo
straordinario senso poetico dei Siciliani. In tutta la Sicilia i ciechi
esercitano l'arte della musica e del canto, l'innumerevole quantità
di tabernacoli e di cappelle dove si venerano immagini sacre, le
novene del santo protettore, il Natale, le feste di S. Giuseppe, di
Maria e di S. Rosalia, la settimana santa, i venerdì di marzo, e poi
le nozze conspicue, il carnevale, ecc. dànno moltissimo da fare ai
ciechi. Si vedono andare da un capo all'altro di Palermo, guidati da un
ragazzino e cantare sul violino e sulla ghitarra le laudi in onore dei
santi, canzoni d'amore, di gelosia e d'odio, o storie di banditi come
Testalonga, Fra Diavolo, Tabbuso, Zuzza. Essi sono così occupati che
è possibile averli solo dopo averli chiamati in precedenza. A Palermo
hanno formato una vera e propria accademia con relativi statuti.
 
La interessante storia di questa scuola di ciechi trovatori è la
seguente. Nel 1661 i ciechi di quella città si riunirono e ricevettero
l'autorizzazione di organizzarsi in congregazione, alla quale alcuni
cittadini pietosi donarono una rendita annua di 42 once. Nel 1690
il generale dei gesuiti Tirso Gonzales concesse loro come luogo di
riunione l'atrio della casa dei professi; concessione di cui godono
ancora oggi. Quando l'ordine dei gesuiti fu soppresso, i ciechi
continuarono a godere l'uso di quel locale. I gesuiti tornarono poco
dopo ed il re donò loro la terza parte delle entrate di tutte le
congregazioni che si radunavano nella casa dei professi.
 
I poveri ciechi cominciarono da allora e continuano ancora a lamentarsi
che l'ordine di Gesù abbia tolto loro tutte le rendite, ed intentarono
anche un processo che di tanto in tanto rinnovano con qualche atto per
non far prescrivere il loro diritto. Finalmente nel 1815 Ferdinando
III si piegò alle loro continue lamentele e concesse loro una rendita
annua di 14 once da prelevarsi sulla sede vacante vescovile. Ma i
ciechi continuano più ostinati degli _Illuminati_ a lottare contro
la Compagnia di Gesù. I gesuiti volevano cacciarli dalla casa dei
professi, i ciechi non volevano cedere, fondandosi sui documenti che
possedevano, ma che non potevano leggere nè vedere. Mentre il duca di
Laurenzana governava la Sicilia, essi ottennero un ordine ministeriale
che li manteneva nella casa dei professi. I ciechi chiusero questo
decreto così importante per loro in un forziere munito di tre chiavi
e il Vigo racconta che lo conservavano con tanta gelosa cura, da
non permettere nemmeno a lui, che pure era un loro benefattore, di
esaminarlo, per paura che egli potesse essere un emissario dei gesuiti.
E così i ciechi hanno sconfitto l'ordine di Gesù, un trionfo assai
importante e commovente di Orfeo diventato cieco e mendicante contro il
potentissimo generale Ignazio Loyola.
 
La Congregazione si compone di trenta membri, tutti suonatori e
cantori. Alcuni sono compositori di nuove rime (_trovatori_) altri
rapsodi che quelle rime cantano e diffondono. Essi si obbligano di
non cantare nelle case di piacere, nè di portare in giro per le strade
poesie profane; recitano inoltre ogni giorno il rosario, ed ogni anno
al 2 novembre pagano 10 _grani_ per la commemorazione dei ciechi
defunti, ed un _tarì_ per la festa dell'Immacolata l'8 dicembre.
Hanno inoltre un cappellano che dice loro la messa ogni mattina, ed un
gesuita presso il quale si confessano il primo giovedì di ogni mese, ed
al quale devono far leggere le loro poesie per la censura. Hanno poi
degli impiegati propri, un superiore, due aggiunti e sei consultori.
Fieri della loro associazione, si vantano d'essere soci della
Congregazione di S. Maria Maddalena in Roma, ed il loro misterioso
forziere racchiude anche un breve del vescovo Mormile, nel quale è
concessa un'indulgenza di 40 giorni a chiunque fa cantare una poesia ad
un cieco. Ogni socio era tenuto un tempo di presentare ogni 8 dicembre,
una nuova poesia in lode della Madonna; ma ora questa usanza è andata
scomparendo. Se si assiste ad una loro riunione, commuove vedere questi
infelici sedere in circolo come tanti Omeri, pieni di ardente zelo,
cantare uno dopo l'altro le loro nuove composizioni, accolte sempre da
un caldo applauso di tutti i camerati, mentre i ragazzi che fanno loro
da guida si riposano del loro servizio, seduti per terra in un angolo e si divertono a qualche giuoco infantile.

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