Passeggiate per l'Italia 9
Erra quindi il Vigo quando fa derivare il siciliano _ficora_ (plurale
di _ficus_) dal _figuier_; i Siciliani formano oggi il plurale in
modo analogo a quell'antico linguaggio volgare: _ramira_ (da _ramus_),
_ficara_ (da _ficus_), e così _nomira_, _loghira_, _ronura_, _ortura_.
Anche qui a Genazzano, 37 miglia lontano da Roma, sento tutti i giorni
dire come a Messina _le ficara_ e _le ramora_; e pochi giorni fa mentre
andavo verso l'antica Norma nei monti Volsci, mi divertii a far parlare
un ragazzo che mi accompagnava, ed oltre le parole già citate gli
intesi dire, proprio come un siciliano, _marmora_ invece di _marmi_.
In generale si può dire che tutti i dialetti d'Italia hanno una stessa
base fondamentale. Se il poeta sardo don Gavino Pes canta:
Li dì, l'ori, e l'istanti
Chi viè possu; cun sinzeru amori
Offeru a chist'Amanti,
Chi da l'omu nò vò sinnò lu cori.
il suo canto è assai simile a quello dei Siciliani, e se la canzone
popolare còrsa dice:
Un ghiornu mill'anni
Mi sarà pensandu a te;
anche essa somiglierà molto a quella siciliana. Tuttavia il dialetto
siciliano ha alcune particolarità molto notevoli, specialmente nella
coniugazione dei verbi che terminano in _ari_ ed _iri_. La seconda
persona del plurale ha poi l'aggiunta prenominale _vu_ (_voi_),
_dicisti-vu_, _vidisti-vu_. Il Vigo mette in evidenza la grande
dipendenza della coniugazione siciliana da quella latina; per esempio,
in latino: _vidi, vidisti, vidit, vidimus, vidistis, viderunt_; in
siciliano: _vitti, vidisti, vitti, vittimu, vidisti-vu, vitturi_. La
terza persona del perfetto finisce in _ao_ o _au_, invece di _ò_,
_durao_ invece di _durò_, ed anche questa forma si trova in altri
dialetti come anche il futuro _aggio_, _partiraggio_ per _partirò_, che
deriva da _partir-aggio_, vale a dire, _ho a partire_, perchè _aggio_
è la forma dialettale ed antica di _ho_ e quindi _partirò_ è uguale a
_partir-ho_. Ancora oggi nella provincia romana si dice _aggio_ invece
di _ho_. Molte parole che terminano in _u_ nel dialetto siciliano,
non sono che parole latine a cui il popolo ha tolto la desinenza _s_
o _m_: _tempus-tempu_, _bonus-bonu_, _matrimoniu_, _muru_, _periculu_,
_maritu_. In questo il siciliano, come il sardo è più vicino al latino
del toscano che ha mutato la desinenza _us_ in _o_. La terminazione in
_u_ è del resto comune a tutti i dialetti d'Italia e certamente deriva
dall'antichissimo latino popolare. Il dialetto siciliano ha anche _i_
per lettera finale al posto di _e_ come _notti_ invece di _notte_.
Il cambiamento del _b_ e del _v_ è antichissimo e si trova già nelle
innumerevoli iscrizioni cristiane dell'Impero al Vaticano. Il siciliano
trasforma _bibere_ in _viviri_, _bos_ in _vo_, _brachium_ in _vrazzu_,
_buca_ in _vucca_, e _votum_ in _botu_.
Caratteristico del dialetto siciliano è il cambiamento del doppio _l_
in doppio _d_, per esempio _beddu_ invece di _bello_, _iddu_ e _idda_
invece di _illo_ e _illa_. Ma poichè questa forma si trova presso i
Sardi, è dubbio per me che essa derivi, come sostiene il Vigo, dai
Cartaginesi. Del resto è il Vigo stesso che nella sua notevolissima
introduzione dice: «Questo idioma che io ho chiamato insulare e che
ha una sola ed identica impronta, vive non solo in Sicilia, ma anche
in Calabria, certamente con speciali modificazioni, ma con uguali
caratteri, e le sue traccie sono numerose in Sardegna ed in Corsica.
Dopo tanti secoli e tante vicissitudini politiche, in alcune città
delle Calabrie si parla quasi come in Sicilia. Ciò dipende dalla
origine comune e perciò il de Ritis dice: “Dalla cinta degli Appennini
fino al mare, l'idioma popolare è _campano_, o se si vuole _osco_ e per
conseguenza simile al siciliano”».
L'espressione _campano_ è felice, perchè abbraccia anche la lingua
popolare dei Romani, del Lazio e di una parte della Tuscia. Se si
confronta il _romanesco_, quello per es. della Vita di Cola di Rienzo,
con le cronache pugliesi, con quella per es. di Spinello, ed anche con
le siciliane, si osserverà subito quanta comunanza vi sia tra loro. Ma
dall'altra parte degli Appennini, la Romagna, le Marche, la Lombardia,
Venezia e il Piemonte parlano un altro gruppo di dialetti in cui
l'influenza straniera delle lingue gallo-francese e longobardo-tedesca
è facilmente riconoscibile. I confini quindi dell'idioma volgare
italiano coincidono con quelli dell'Italia propriamente detta e
storica, che va dagli Appennini alla Sicilia e che ha il Lazio per
centro.
Questo volgare può essere più antico del tramonto della potenza
romana, e le sue traccie più antiche possono trovarsi nelle commedie
di Plauto e presso Ennio; ma la sua completa formazione data solamente
dal perdersi del latino, come ho potuto osservare in centinaia di
documenti latini dei secoli VII-XI. Allorchè la cultura scientifica
e politica di Roma annegò nella barbarie, il latino sparve dall'uso
del popolo, e le forme dialettali più basse divennero le dominanti,
accogliendo in sè le sformate rovine del latino. Il moderno linguaggio
d'Italia è sorto, come la seconda Roma, dai bei marmi dell'antico
linguaggio di Roma, si è poi formato lentamente, magnifico fenomeno di
trasformazione della cultura, e ha dato poi i suoi fiori in Toscana.
Alla Sicilia toccò il duraturo onore di aver coltivato per la prima
questo volgare campano, perchè sotto i re normanni ed ancor più sotto
Federigo esso fu innalzato a linguaggio della poesia, designata come
_aulica_ e arricchita delle forme della canzone e del sonetto, così che
i primi poeti italiani conosciuti sono siciliani e principi tedeschi
di Sicilia. Con ragione può dunque il Vigo dire: «Allora noi fummo
Italiani». Questo merito dà al siciliano un bel carattere venerando, e
se si legge la raccolta del Vigo insieme con quella toscana del Tigri,
sembra di udire la voce della madre vicino a quella della figlia più
colta. E difatti l'odierno siciliano suona assai arcaico. Un ampio
abisso di cultura lo separa dal toscano, mentre l'originario idioma di
Ciullo d'Alcamo, di Iacopo Lentini, di Pier delle Vigne e di Federigo
II, reso puro dai poeti, ma pur sempre idioma popolare siciliano del
secolo XII, somiglia di più al toscano odierno che non il siciliano che
si parla oggi.
Il fissarsi dell'italiano come lingua letteraria data appunto da quel
secolo XII in cui vissero quei cantori siciliani. Prima di Ciullo non
ci rimangono documenti scritti nè in siciliano nè in italiano, se si
eccettua il frammento di una canzone apparentemente del secolo XI, che
si trova nell'archivio di Monte Cassino e che è stato pubblicato nella
_Storia dei duchi e dei consoli di Gaeta_ del Federici. Tuttavia i
diplomi latini anche anteriori a quell'epoca formicolano di espressioni
in volgare, che lasciano bene intravedere l'esistenza di un linguaggio
popolare. Nei documenti romani da me osservati non c'è tanta abbondanza
di frasi volgari, come ce n'è in quelli còrsi del X secolo, messi in
luce dal Muratori e dal Mittarelli; e le frasi interamente italiane
che io ho trovate in un documento latino del X secolo esistente a Monte
Cassino (_Sao che chelle terre per chelle fini che contene trenta anni
le possete parte sancti Benedicti_), provano che il popolo parlava già
italiano, la cui esistenza risale a molti secoli indietro.
L'odierno siciliano poi si differenzia da città a città, da pianura a
pianura. Oltre di ciò l'isola presenta il fenomeno stranissimo di un
altro linguaggio che, quantunque italiano, è perfettamente estraneo
ai Siciliani che non lo capiscono neppure. È questo l'idioma delle
colonie longobarde in Sicilia. Ed è veramente sorprendente che ancor
oggi possano trovarsi in Sicilia dei discendenti di quei Longobardi,
di Alboino, di Rotari, di Liutprando e di Desiderio, un tempo così
feroci, poi così devotamente inciviliti, mentre in Lombardia ed a
Benevento almeno da sette secoli si sono sperduti nel grande elemento
italiano. Il dominio dei Longobardi venne distrutto da Carlomagno; ma
il fiorente ducato di Benevento, aveva sopravvissuto alla rovina, e si
era mantenuto, quantunque diviso nelle tre città di Benevento, Salerno
e Capua, fino all'undecimo secolo. I Normanni poi distrussero anche
questi ultimi belli avanzi della signoria longobarda. Quando Roberto e
Ruggiero ebbero conquistata la Sicilia, molti Longobardi di Benevento
e di Salerno, che avevano combattuto nell'isola sotto le loro bandiere,
vi fissarono la loro dimora stabilmente, ed a loro se ne unirono altri
venuti dalla Lombardia, quando Ruggiero prese in moglie Adelaide di
Monferrato. Questi Longobardi si fissarono a Piazza, Nicosia, Aidone,
San Fratello, Randazzo, Sperlinga, Capizzi e Maniace e Ruggiero dette
loro un conte longobardo, Enrico fratello di sua moglie e figlio di
Manfredi, marchese longobardo. L'antico idioma germanico dei Longobardi
aveva certamente da lungo tempo ceduto il passo all'italiano, ed i
lontani pronepoti non parlavano più il linguaggio eroico di Alboino;
pure il loro dialetto diventato italiano conservava accenti, voci e
terminazioni germaniche. In alcuni paesi della Sicilia i Longobardi
si mescolarono con i Normanni e quando questi ultimi furono in numero
preponderante, la lingua longobarda prese un'intonazione francese che
ancor oggi è riconoscibile. I Normanni, come i Greci e gli Arabi,
sono scomparsi dalla Sicilia senza lasciar traccia: queste colonie
longobarde invece hanno resistito per otto secoli agli attacchi
dell'elemento siciliano, prova questa non solo della straordinaria
tenacità di questa razza, ma anche del basso livello della cultura
siciliana. Alcune di queste colonie oggi naturalmente non esistono più,
e il Vigo che fa ascendere a 30.000 anime la popolazione longobarda di
quei tempi, osserva che il loro linguaggio oggi si parla solamente a
Piazza, San Fratello, Nicosia e Aidone; ed anche in questo, a Nicosia
gli elementi franco-normanni sono in proporzioni non disprezzabili, e
solo a San Fratello la lingua si è mantenuta prettamente longobarda.
Il Vigo racconta un aneddoto che mette in evidenza la forma di dialetto
parlato da queste colonie. Quando nel 1806 Ferdinando III passò per
Piazza, domandò ad un contadino: «Che cosa mi avete fatto trovare
qui a Piazza?» Ed il longobardo rispose: «_Ppi V. M. a Cciazza gh'è
'nciangh cing dì fi riau_». Parole, dice Vigo, più incomprensibili
della lingua del diavolo e che fanno pensare al cinese. Tradotte in
italiano significano: «Per V. M. v'è un piano pieno di fichi reali».
A San Fratello, osserva ancora il Vigo, si dice _parduoma a dumbard_
(longobardo) quando gli abitanti vogliono parlare sanfratellese
e _parduoma a datin_ quando vogliono parlare latino, cioè a dire siciliano.
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