Passeggiate per l'Italia 19
CANTO III.
PALLADE ATENA.
Canzone, prima che tu t'allontani con la mutevole lampada della vita,
va', mostrati lieta in mio nome ai lontani amanti e dispensa corone
di dolce ulivo e così parla: «Salute a voi, o nobili e pochi! Voi
alimentate sempre nel petto le fiamme ideali e fuggite la vanità e le
tristi consuetudini del giorno. Non vi manchi mai la luce nella vita,
mai la gioia del cuore. Alla vostra casa fiorente batta sempre propizia
l'Aurora e v'introduca nella casa le Ore celesti. Ed alle feste siano
invitati come ospiti gli Dei, per distribuire i doni dell'amore ed
esaudire i prudenti desiderî».
Deserta era quel giorno Pompei ed oscura nella festa di Ione, l'aria
cupa ed il mare come spento nell'afa plumbea. Senza vampe il Vesuvio,
e il suo capo era velato da una nube fulva, che il vento del sud
spingeva in alto verso il cielo. E come se errasse il Sonno per le vie
e le case di Pompei, sembravano irrigiditi la città e il lavoro dei
solerti cittadini. Non un rumore risuonava dal porto, nè nel mercato,
nè nell'officina come altre volte, quando il pieno giorno incitava gli
uomini al moto: così incombeva l'aria e l'accidia del vento che snerva.
Pure chi a passo premuroso fosse andato nel sobborgo Augusto Felice,
accanto a quei palagi e lungo i frondosi giardini, si sarebbe
soffermato subito alla casa di Arrio ed avrebbe origliato lungi nei
portici, tutti ornati di nastri e fiori. Alto vi giubilava il canto,
cui si mischiava il suono allegro dei flauti lidî e il tintinnio del
metallo e delle arpe sonore. Garzoni in vesti variopinte e graziose
fanciulle si vedevano agili portare le vivande attraverso il fitto
delle colonne. Ed echeggiava sensibilmente un ronzio dalle aperte
sale, dove, appoggiati su cuscini e su coltri di Tiro, uomini e donne
accomunati si divertivano a banchetto, festeggiando il ritorno di Ione
insieme col lauto trattamento di Arrio.
Euforione se ne stava adesso nell'atrio, cupo origliando ai suoni delle
festa, solo, in preda ai pensieri del suo cuore. Intorno s'aggiravano
i compagni, i maestri di utili arti, l'orgoglio di Arrio e il fior
fiore delle magnifiche officine, ch'egli aveva di per sè stesso anche
accresciuto, dopo averlo ereditato dal padre; perchè tutto quel che di
meglio ciascuno potè modellare con premurosa cura, gli parve ora giusto
di consacrare alla festa ed agli ospiti degni. Tutti, cautamente,
tenevano nelle mani dinanzi a sè un lavoro artistico, chi un'immagine
a mosaico, chi un vaso con le anse, un altro gioielli scintillanti e
collane di rossi coralli; l'uno un tessuto filato in oro, questi le
gemme che abilmente scavò nel sanguigno diaspro di Cipro ovvero nel
crisolito e negli strati dell'onice leggiadra.
Ma Euforione se ne stava, pieno di grazia, nella turba dei molti
compagni, con le mani appoggiate all'alto candelabro, al suo
incantevole lavoro; perchè questo, messo da lui in disparte, spiccava
come un enigma, ravvolto in una nivea tela di lino. In tutto ei
sembrava mutato e la sua nera e ricciuta chioma si levava liberamente
su gli altri, con una tranquilla serietà. E non parlava, per quanto
tutti, avidi di desiderio, mormorassero fra loro, sperando ognuno la
ricompensa, sia della libertà, sia d'un dono qualsivoglia. Nel petto
però gli batteva spesso il cuore come in estasi, quando risuonava
il melodioso nome di Ione; allora gli pulsava più rapido, ma subito
frenava la piena del sentimento, parendogli già di essere a bordo
della nave di Serapione e di vedere le onde giù correre frettolosamente
all'estraneo lido.
Passavano le ore per quelli che ivi aspettavano ansiosi enumerando le
fasi della festa: mimi e cori di danzatori in giro si vedevano andare
e venire; quand'ecco si accostò ammiccando l'ordinatore Peisandro, e
subito introdusse nella sala i volenterosi uomini coi doni. Com'essi
entrarono, mettendosi in fila lungo le rilucenti colonne, gli sguardi
del giovane corsero ben presto sulla sala, ed ei vide presso il padre
Arrio la figlia maestosa: severa e seria ella lo guardò coi neri occhi.
Ad un tratto con queste parole si rivolse agli ospiti il magnifico
padron di casa: «Vedete, o amici, i figliuoli di Dedalo si son
presentati per offrire doni alla festa, le pregevoli opere della
Grazia. Orsù avvicinatevi, o uomini, e mostrate come anche nella mia
casa Pallade Atena abbia compiuto con arte cose belle ed eccellenti.
E ciascuno a cui sarà fatto dono mi esalti, lodandomi di avermi saputo
asservire lo stesso Fidia e Zeusi».
Disse, e i giovani presentarono le graziose opere della bellezza,
che il padrone distribuì in dono agli ospiti. E intorno passavano
i regali: con compiacenza lodavano gli uomini e le donne ora urne
magnificamente ornate e vasi d'alabastro, ora nappi da belletto e
specchi di bronzo ben cesellato; volentieri essi lodavano fermagli e
corni con allegoriche e gioviali figure, ovvero vasi d'oro e di ambra
artisticamente levigata.
A un tratto Ipato, fanciullo ancora negli anni, eppure assai pratico
a dipingere sulle tavolette i miti del poeta ellenico, portò un quadro
a colori, un grosso quadro lumeggiato. Se non che questa volta non gli
era riuscito — così appariva — ed Arrio allora increspò torvamente la
fronte e disse con accento di rimprovero: «Troppo giovane ancora tu
sei, o Ipato; veggo dal quadro che tu preferisti dipingere l'orrido,
la città di Troia divorata dalle fiamme. L'artista smorzi moderatamente
le tinte spaventevoli, pio sappia scansare le Furie e non mai ci sveli
nell'opera il capo di Medusa: no! le figure non dimostrino se non un
dio liberatore degli affanni».
E appena ebbe detto queste parole, che gli ospiti origliando guardarono
fuori pieni di meraviglia — libera si stendeva agli sguardi la superba
contrada, libero il Vesuvio — e s'udiva rimbombare il cratere del
monte e scrosciare cupamente, quand'ecco una fiamma rapida come
vortice guizzò nel cielo. A riprese mugghiavano dei forti scoppi e
si riversavano nuvole di fumo e tenebre. E l'aria diveniva fulva,
scendeva come un rosso crepuscolo, ricoprendo di densa luce la campagna
e le onde ribollenti del mare. D'un subito tutto s'acchetò e tacque
l'ansante cratere che fumava.
«Non abbiate paura del monte, gridò Arrio; anzi esso offre uno
spettacolo alla festa, e già nelle sue viscere lo rode la rabbia. Batta
pure imperversando il terremoto con pie' di bronzo, rimbombi pure cupo;
afoso ahi! e soffocante spiri il vento sud; no! non abbiate paura del
monte; noi già conosciamo il modo d'agire del vecchio: per la collera
gli si gonfia a un tratto la rossa vena della fronte, ma poi tosto
sorride di bel nuovo pacato. Intorno al mento gli aleggiano tenere
aurette, e le Ore e Bacco e Pomona e Cerere, la seducente madre, gli
cingono con rose il ginocchio. Versate libagioni di vino, o amici, al
padre Vesuvio».
Disse e spruzzò del vino al Vesuvio e insieme con lui ne spruzzarono
anche gli ospiti, e continuarono a parlare con gli occhi rivolti
al fosco cratere, temendo le rinnovate scosse di terremoto, la
lava e la rovina delle pianure. Ma ben presto il vino cacciò via la
preoccupazione, svelto circolò il boccale del mulso e come coppieri
andavano intorno lo stesso Bacco ed Amore.
«Guardate Euforione! gridò Arrio di nuovo. Guardate lì il migliore che
se ne sta dietro ai buoni. O come mai tu indugi tanto, o garzone! Orsù,
avanti! che cosa di giocondo tu porti quest'oggi alla festa?»
E tutti lo contemplavano, vedendo come il grazioso giovanetto, nel
fascino fiorente della giovinezza s'avanzasse d'un'andatura virile. Le
donne bisbigliarono molto fra loro, le ragazze lo guardarono ed anche
Ione guardò commossa, mentre le palpitava il cuore nel petto.
«Fosco s'è fatto il giorno, disse ben presto il garzone, la notte già
s'avvicina; io porto la luce!» Ed ammiccando fe' cenno agli schiavi
di portare dal lato suo l'opera velata, sollevandola sulla tavola.
Allora intorno sedettero ad aspettare gli ospiti silenziosi, dallo
sguardo interrogatore. Con tremule mani ei tolse il niveo panno di
lino, e ne uscì fuori la forma slanciata e scintillante dell'opera
dell'arte, bella come il fiore dell'aloe che spicca nella corona delle
foglie, sporgendo il pomposo gambo dall'aureo frondame. La bellezza
fiammeggiava all'intorno e lungi risplendeva il bronzo simile al sole.
E risuonò un grido di gioia, sonoramente applaudirono le donne e di
bocca in bocca corse un'esclamazione di meraviglia.
Ma Euforione se ne stava lì presso il suo lavoro, con grazia s'inchinò
davanti a Ione e disse: «Salute alla figlia di Arrio! La quale,
ritornata fra noi, come attiva padrona comanda nella sala e da vera
massaia provvede a distribuire dalla pienezza della casa. Non le
manchi mai la luce nella vita, mai la gioia del cuore! Risplenda
lungamente per lei e anche fino alla più tarda sera questo bronzo. Ma
il suo ritorno alle pareti domestiche sia come un araldo banditore
di benedizione!» Disse, le s'inchinò profondamente e se ne stette
rispettoso con gli occhi bassi al suolo. Pure una rapida fiamma
divampando salì alle guance della fanciulla; nella sala d'intorno
esultava il grido di plauso, e tutti gli ospiti si precipitarono,
elogiando, verso il candelabro.
E Silvia, la figlia dell'edile Vetranio, esclamò: «Con quanto
significato e con quanta bellezza l'ha ideato l'artista! Ben sarebbe
orgogliosa del dono la stessa Giulia, la figlia dell'imperatore Tito!»
E con voce sonora alto gridò Pansa: «Che bel colpo d'occhio! Il bronzo
sembra davvero lavorato dallo stesso Efesto! O divin garzone, tu mi sei
fra gli artisti un re!»
Allora dal sedile si levò Menandro, l'eccellente maestro dell'arte
plastica, al quale la Musa non aveva mai concesso i suoi doni con
iscarso favore; molte statue infatti di Dei egli lavorò nel marmo e
molte opere scultorie pose nei templi delle città campane. Se non che,
invido del lavoro altrui e piccolo, della figura di Esopo,[6] covava
l'invidia nell'animo e la brutta serpe della gelosia. Ora sarcastico
incominciò con stridula voce: «Come mi son facili alla lode gli uomini,
quando qualche cosa di luccicante abbaglia i loro ingenui occhi!
No! non più mi state a lusingare, o amici, il magnifico padron di
casa, altrimenti ei ci rinchiude tutti, artisti e lavoratori insieme,
nell'officina degli schiavi!.. Oggi ognuno si chiama artista, dopo aver
fatto un vaso nitidamente orlato, tripodi, lampade e tazze e stoviglie
di bronzo. Chiamate voi già divino e celeste meraviglia a vedere tutto
quel che serve soltanto all'uso quotidiano, e mi nominate già arte quel
che mestamente eseguì uno schiavo con l'animo stretto dal bisogno? E
che cosa allora resterà per noi degno di un onore conveniente, se hanno
lo stesso valore per la gente avvezza a lodare una pentola, una lampada
ed una immagine di
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