2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 4

Passeggiate per l'Italia 4


Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo
della favola, o uomini d'Imera; voi dovete ben riflettere prima di
sottomettervi al giogo di Falaride». Gli Imeresi rifletterono, infatti,
e quindi abbandonarono ogni idea di alleanza col tiranno.
 
Però, poco dopo cadde il poeta in suo potere e gli fu condotto davanti.
Ma non gli fece alcun male, bensì gli offrì ospitalità e ricchi doni,
prendendo molto diletto a' suoi sapienti discorsi, e all'armonia dei
suoi canti, e lo licenziò quindi con ogni onore.
 
Assai importante appare l'influenza che i filosofi avevano sui tiranni
di Sicilia. Come nei tempi favolosi gli eroi erravano pel mondo per
distruggere i mostri, così più tardi i filosofi viaggiavano pel mondo
per liberarlo dai tiranni.
 
Il cómpito della filosofia è sicuro: liberare l'umanità da ogni
specie di tirannia, e questo scopo è chiaramente espresso nelle
antiche relazioni dei famosi viaggi compiuti dai Pitagorici e dagli
Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e Pitagora per
ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù. Nella
vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con
Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi,
le capacità, le imperfezioni e le passioni dell'anima, rese manifesta
l'onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l'incredulo
tiranno.
 
Egli non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge, e
parlò molto sul giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della
sorte e della bramosia degli uomini pel possesso e la sovranità.
 
Ai discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: «Per
la signoria è come per la vita. Nessuno vorrebbe nascere se sapesse
anticipatamente il martirio della vita, però appena si è nati non si
vuol più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se conoscesse
anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si è
divenuti, non si può più cessare di esserlo».
 
Si ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio.
Quando questi una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno
dei suoi amici gli disse: «O Dionigi, la tirannide è una bella veste da
morto!»
 
Il presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide
con un esempio visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana è
eternamente la stessa. Quando si paragonano i due grandi periodi della
tirannide, la ellenico-sicula e la medioevale, che si equivalgono,
con l'apparizione della nostra giovane tirannide nei suoi intrighi e
nelle sue macchinazioni, si vede che nulla è nuovo sotto il sole. È
cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi filosofici e i nostri
professori di filosofia adesso non fanno che creare o combattere dei
sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla felicità dei
popoli.
 
Una favola dice che Falaride perdette la vita per una parabola di
Pitagora. Parlava una volta, il gran filosofo, alla sua presenza e
a quella dei cittadini della paura degli uomini davanti ai tiranni e
dimostrò come essa fosse senza fondamento con l'esempio dei colombi,
che, paurosi, fuggono davanti lo sparviero e invece potrebbero metterlo
in fuga se essi contro di esso coraggiosamente si volgessero.
 
Questo discorso infiammò un cittadino presente, che raccolse una pietra
e la gittò contro il tiranno: altri seguirono il suo esempio e così
Falaride rimase ucciso.
 
Altri raccontano che Zenone di Eleusi spingesse gli Agrigentini alla
rivolta contro di lui.
 
Il ricordo di Falaride si è mantenuto nel mondo e così notevole sembrò
quest'uomo all'antichità che gli si attribuirono centoquaranta lettere
morali e filosofiche, sulla autenticità delle quali però i dotti hanno
lungamente disputato.
 
Dopo la sua morte fu di nuovo innalzata la democrazia e a capo dello
Stato subentrarono due uomini saggi, Alkmener e Alkander, sotto il
potere dei quali la repubblica rifiorì e divenne così ricca, che i
cittadini cominciarono a portare abiti bagnati nella porpora.
 
La lussuria e la loro essenza geniale e sofistica sembrano essere state
principalmente causa della loro rovina.
 
Al tempo di Gerone di Siracusa, un uomo molto forte, Tirone, riuscì
a diventare il tiranno in Agrigento. Egli si era imparentato con
quel re e ambedue i capi siciliani si aiutavano nell'esecuzione dei
loro progetti. Cominciò allora il periodo di fioritura della Sicilia
dopo che i Cartaginesi presso Imera ebbero a soffrire una sanguinosa
sconfitta nell'anno 480. Il maggior numero di prigionieri cartaginesi
l'aveva fatto Agrigento, e parecchi cittadini tenevano nella loro casa
500 incatenati. Però il numero maggiore fu assegnato alla comunità,
dalla quale furono obbligati a trasportare le pietre che servirono a
fabbricare i tempî d'Agrigento, ed a lavorare nei canali sotterranei
che il celebre Faax aveva ideati. Oltre a ciò gli Agrigentini
costruirono una piscina per ingrassare dei pesci rari per le loro cene
raffinate; essa offriva anche un quadro pittoresco, così dice Diodoro,
perchè molti cigni vivevano nelle sue acque. Gli abitanti piantavano
inoltre su tutta la loro terra la vite e molti alberi da frutta.
 
La signoria di Tirone fu il periodo più splendido di Agrigento. Il
commercio e l'agricoltura resero assai ricca la città, che si arricchì
di belle opere architettoniche, plastiche e pittoriche; feste pompose
dilettavano il popolo e alla corte del mite signore si videro i
sapienti e i poeti dell'Ellade: Pindaro, Bacchilide, Eschilo furono
in Agrigento; quando una questione sorta fra Gerone e Tirone stava per
trascinarli alla guerra, si intromise per rappacificarli il gran poeta
Simonide. Pindaro inoltre compose i suoi canti olimpici di vittoria su
Tirone di Agrigento che aveva vinto col suo ardire, e magnificò nei
canti istmici Kenokrate Akragas come la più bella fra le città del
mondo.
 
Tirone regnò sedici anni. Quand'egli, nell'anno 472, morì, il popolo
gl'innalzò una bella tomba e gli rese gli onori degli eroi. Suo figlio
Trasidaos non gli somigliò; odiato dagli abitanti, fu scacciato e più
tardi giustiziato a Megara. Gli Agrigentini avevano abbattuto i tiranni
e avevano dato a tutta la Sicilia il segnale della liberazione dalla
tirannia.
 
Mentre, dunque, nelle città veniva esaltata la democrazia, Empedocle
in Agrigento dava una costituzione che assegnava uguali diritti tanto
all'aristocrazia, quanto al popolo.
 
Sembra che le basi politiche del gran filosofo fossero rappresentate
dall'eguaglianza di tutte le classi di cittadini; egli però si
considerò come un Dio, come vien riferito da lui stesso.
 
Vestiva di porpora e portava una corona d'oro sulla chioma lunga e
abbondante; quando usciva lo seguivano paggi graziosamente abbigliati.
Così lo descrissero gli antichi, come un eroe nel quale la natura
spiegò il suo più alto valore. Empedocle fu una delle figure più
fulgide nelle quali i Greci abbiano ammirato il genio; i biografi
postumi gli attribuirono la più alta coscienza della divinità del genio
umano.
 
 
La filosofia naturale della quale fu maestro Empedocle, non rimase
astratta in lui, ma l'applicò alla vita; e fu uno dei più grandi medici
dell'umanità. Egli aveva liberato i Selinuntini dalla peste, e così
meravigliose apparivano le sue guarigioni, che di lui si favoleggiò che
sapesse resuscitare i morti.
 
La medicina divenne così la scienza prediletta dei Siciliani: accanto
ad Empedocle troviamo il suo amico Pausania e il suo emulo Akrone di
Agrigento. Fu anche famoso più tardi, nella scienza medica Erodico,
fratello di Gorgia, e al tempo di Aristotile Menecrate di Siracusa.
Questi imitò la vanità di Empedocle, e di lui vengono narrate storie
assai amene. Non prendeva denaro per le sue cure, ma voleva solo che i
suoi pazienti si nominassero suoi schiavi. Aveva guarito, ancora, con
grande arte, due ammalati; essi dovevano seguirlo ovunque, chiamandosi
uno Ercole, l'altro Apollo; però egli era Giove! Una volta scrisse a
Filippo di Macedonia la lettera seguente:
 
«Menecrate Giove a Filippo, salute!
 
«Tu regni in Macedonia, io regno nella Medicina. Tu puoi far morire
quelli che stanno bene, io posso assicurare gl'infermi di vivere sani
fino alla vecchiaia, se essi mi ubbidiscono. La tua guardia del corpo
è di Macedoni, la mia di quelli che ho guarito. Poichè io, Giove, ho
ridato la vita!».
 
Rispose il re:
 
«Filippo augura a Menecrate cervello sano. Ti consiglio di fare un
viaggio a Anticyra».
 
Anche Plutarco racconta che ad una lettera di Menecrate ad Agesilao di
Sparta, questi in simil guisa rispondesse:
 
«Il re Agesilao alla sanità di Menecrate».
 
Si scorge già, come alla scienza naturale, della quale la Sicilia era
la patria, cominciasse ad unirsi la ciarlataneria, come alla filosofia
cominciasse ad unirsi la sofistica. La Sicilia, patria dei sofisti,
era anche la patria dei ciarlatani, e anche oggi questa regione è
caratterizzata in diversi modi da menti sofistiche e dal ciarlatanismo,
ed io credo che non perderà mai questi caratteri, essendo i prodotti
della sua natura vulcanica.
 
Empedocle preludiava già alle storie magiche e meravigliose dei tempi
seguenti. Intorno alla sua morte la leggenda futura distese una luce
favolosa, come per il famoso Apollo di Tyana e per molti altri semidei
e profeti cristiani. Si racconta che egli abbia richiamato in vita una
donna già morta e che sia quindi andato con molti amici nella villa di
Peisanax per fare dei sacrifici. Quando essi al mattino si svegliarono,
si accorsero che mancava Empedocle. Se ne domandò agli schiavi, dei
quali uno solo potè riferire che aveva sentito gridare nella notte da
una voce soprannaturale il nome di Empedocle. Quando egli si svegliò
vide una luce celeste, un chiarore di fiaccole e poi nulla più.
 
Così Empedocle fu subito collocato fra gli dei. Secondo un'altra
leggenda, il filosofo salì sull'Etna e si precipitò nel cratere. Il
monte poi rigettò una delle sue scarpe. Si dice che Empedocle abbia
scelto questa morte dopo che i Selinuntini gli avevano tributato onori
divini, per rafforzare in loro la credenza ch'egli fosse un dio.
 
Ciò non pertanto, secondo quanto dice Diogene, egli morì nel
Peloponneso.
 
Gli Agrigentini gli eressero una statua che i Romani più tardi
portarono a Roma e posero davanti la Curia.
 
La temperata democrazia che aveva introdotta Empedocle si mantenne a lungo in Agrigento.

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