2015년 5월 28일 목요일

Passeggiate per l'Italia 8

Passeggiate per l'Italia 8


La terza scena mostra, sul lato esterno, Ippolito con la lancia
in mano, gli amici con cavalli e cani ai lati, il capo mestamente
chino, mentre la balia gli fa noto l'amore della matrigna. La fine
è completata sull'ultima parte laterale: Ippolito giace al suolo
precipitato dalla biga, mentre il guidatore cerca di frenare i cavalli;
il mostro nettuniano, immoto, è accennato leggermente di dietro. Molte
teste e figure in quest'opera magistrale sono guastate grandemente;
nell'insieme però la scultura è conservata piuttosto bene. Fra i brutti
quadri che pendono nella cattedrale, rendendo percettibile la mitologia
da lazzaretto del cristianesimo, questo antico sarcofago sta come
straniero, di un altro mondo, mentre si celebra il trionfo silenzioso
del genio greco sul cristianesimo.
 
Chiudo con esso questi frammenti di Agrigento. Gettai sguardi
lontani sulla riva del mare, e sarei volentieri andato verso le coste
meridionali, verso Noto; però avevo toccata la meta e tornai a Palermo
attraversando l'isola in due giorni di marcia.
 
Oltrepassammo Aragona, dove si erge un magnifico castello baronale.
Dietro sta Comitini con le inesauribili miniere di zolfo. Ci vennero
incontro molti muli carichi di zolfo. I pezzi di un bellissimo giallo e
di forma regolarmente quadrata son belli a vedere. Ovunque sulla strada
zolfo rotto e calpestato, e qua e là nei monti spesse colonne di fumo
proveniente dalle miniere, e che riempiono l'aria di odor di zolfo;
si sente fisicamente che si è nell'isola dell'Etna. La sua maggiore
industria e la vera sorgente di vita delle impoverite terre siciliane
è solo lo zolfo, che in grande quantità viene esportato in Inghilterra.
 
Attraversammo diverse volte il fiume S. Pietro che si getta nel
Platani. Serpeggia variamente attraverso una melanconica valle rupestre
e si getta in silenziosi campi sui quali pascolano i buoi rossi; nessun
ponte passa su di esso. Mi piacque guardarlo tante volte: Giuseppe
Campo assicura con certezza matematica che l'abbiamo passato trentasei
volte.
 
L'ardore sciroccale nella valle ci dava le vertigini, e noi
desideravamo ardentemente un ristoro, il sorso rinfrescante di un
sorbetto, ma nulla si vedeva intorno. Due volte ci fermammo in un
gruppo di case di campagna, dove abitavano dei maniscalchi, che
ferrarono i cavalli. Il paesaggio diviene più importante e più
pittoresco a metà strada fra Palermo e Girgenti; alti pini e cipressi
e potenti carrubi rompono la monotonia che ci aveva presi e corriamo
silenziosi all'apparire della luna siciliana. Chi può descrivere una
simile notte di luna in un tale caos omerico, ove non si ode altro che
il passo dei muli e qua e là l'elegia dell'uccello di Minerva? Andavamo
così sul nudo monte, verso le miniere di Lercara.
 
Dalla piccola Lercara la strada va verso Palermo e si può servirsi
della posta. Io cavalcai di buon mattino, mentre il mio compagno,
essendosi ammalato, proseguiva in carrozza. Il giorno era chiaro
e meravigliosamente bello. Dopo Belle Fratte e oltrepassato il
ruinato castello di Palazzo Adriano verso Misilmeri, pervenni alla
bella dimora del cortese Campo. L'eccellente mulattiere mi accolse
in casa sua con sorbetti, mi caricò sulla bestia una cesta dell'uva
più bella, che aveva còlta dal giardino del principe Buongiorno e mi
lasciò in compagnia de' suoi figli, coi quali feci le nove miglia
che mi dividevano da Palermo. Una buona strada porta attraverso i
lussureggianti dintorni della città, lungo la campagna fiorita, i cui
giardini d'aranci raggiungono il vecchio _Panormus_.
 
 
 
 
I canti popolari siciliani.
 
 
 
 
I canti popolari siciliani.
 
 
I canti popolari della bella Sicilia, nel dialetto dell'isola,
dall'antica Siracusa, da Agrigento, dalla spiaggia ricca di palme
di Selino, da Palermo, dal fabuloso Etna, sono rarità preziose e
misteriose che noi salutiamo di gran cuore. E li abbiamo ricevuti
raccolti da Leonardo Vigo,[1] insieme con quelli toscani raccolti dal
Tigri, perchè tutti e due i libri sono apparsi in questi ultimi anni.
Ciò che le campagne d'Italia producono di prezioso appare raccolto
in queste foreste vergini della canzone e trasmutato in fiorite
immagini di poesia. È necessario leggere tutte e due le raccolte
per apprezzare i grandi doni di cui è fornita questa Nazione, che
appunto ora è agitata di nuovo da un così profondo movimento politico;
bisogna scendere nelle genuine regioni del popolo che, non ostante la
demoralizzazione dello stato politico ed amministrativo, ha saputo
dettare le bellezze di questi canti, per amare gli Italiani come
meritano. Si devono abbandonare le città e rifugiarsi nelle campagne,
si deve cercare il popolo, non nelle grandi strade, ma nelle montagne
senza strade, dove esso lavora e canta, per farsi un concetto esatto
delle sue belle qualità. La musa popolare di questo paese, con simili
rami fioriti nelle mani, è capace di disarmare l'odio più feroce di
anime nemiche. Ed è principalmente bene che il suo canto innocente
abbia visto la luce appunto oggi che essa, mite come la cicala
d'Anacreonte, canta le sue belle canzoni in mezzo al tuonar del cannone
ed agli schiamazzi dei partiti.
 
Poichè i Siciliani hanno pubblicato le loro canzoni contemporaneamente
con i Toscani, ci viene offerto il destro di fare degli
interessantissimi paralleli; e questo simultaneo apparire delle gemme
più preziose tra le canzoni d'Italia può essere considerato come un
felice avvenimento per la storia della poesia. Ciò che è cresciuto
nella dolce e leggiadra Toscana, come potrebbe essere diverso dalla
graziosa e ben formata lingua e dal bene sviluppato senso d'arte dei
Toscani? Noi troviamo nella raccolta del Tigri solamente ciò che vi
abbiamo cercato, e la nostra fondata aspettativa non viene sorpassata.
Ma il concetto che noi abbiamo della poesia popolare siciliana si
fonda più su quello che non sappiamo che su quello che sappiamo. Il
dialetto toscano è il più puro d'Italia; il siciliano è oscuro spesso
agli Italiani stessi. La letteratura, le condizioni e le città della
Toscana ci sono ben note, ma la remota Sicilia è rimasta ancora molto
misteriosa per noi. Il solo nome di Sicilia eccita la fantasia anche
di chi non ha veduto con gli occhi questo paradiso divenuto selvaggio.
L'immagine delle sue bellezze ha per noi qualche cosa di mistico, nè
la parola dei poeti, nè il pennello dei pittori possono rappresentarci
un paesaggio siciliano. Che carattere avranno quindi i canti che, non
modellati da mani colte, sono sorti spontaneamente dagli elementi di
quella natura meridionale ed incantevole?
 
L'Italia del Nord e la Toscana si sentono fiere di tutta la fioritura
medioevale. Sul Lazio brilla ancora l'inestinguibile splendore della
grande Roma e del canto di Virgilio. A Napoli comincia quel soffio
ellenico che dà a tutta l'Italia meridionale quella sua atmosfera
incantevole. La Sicilia è tutta pervasa da quel soffio. La musa latina
vi entra solo come ospite straniera; ma la musa dell'Ellade ci saluta
con gli antichissimi canti mistici e con i nomi di Stesicoro, Teocrito
ed anche con quelli di Pindaro e di Eschilo. Ai ricordi ellenici si
uniscono i punici, e si respira l'aria della vicina Cartagine. Uno
spirito bizantino viene dall'Oriente, e poco dopo l'orientale poesia
degli Arabi, che così a lungo regnarono nell'isola. Un'altra corrente
di cultura si precipita dal Nord e trasporta in terra di Sicilia il
romanticismo della cavalleria normanna e del grande periodo svevo della
nostra patria tedesca. Poi segue il dominio degli Aragona e di Spagna:
e così si incontrano e si fondono in quest'isola unica i più diversi
caratteri della cultura mondiale: Grecia, Roma, Cartagine, Bisanzio,
Bagdad, Germania, Francia, Spagna e Napoli. E tutti questi paesi hanno
lasciato qui la loro orma, ed hanno creato questa straordinaria natura
siciliana.
 
Appunto per questo diventa di grande importanza l'osservazione
seguente. La Sicilia è stata tanto a lungo sotto il dominio di così
numerosi elementi stranieri, e pure nessuno di questi elementi è
riuscito a disperdere il linguaggio popolare ed a distruggere quei
fondamentali caratteri nazionali sui quali riposa, come in Toscana,
la poesia popolare. Il dialetto siciliano è un antichissimo ramo
del grande ceppo latino. Io, per amore del signor Vigo, lo chiamerò
siculo, e lo farò derivare da quei Siculi che in tempi remotissimi
abitarono sulle rive del Tevere e nel Lazio, prima di essere costretti
ad emigrare in Sicilia ed a stabilirsi quivi presso i Sicani. L'antico
idioma di Sicilia era anche un ramo di quell'idioma che in terra ferma
si distingueva in sabino, osco e latino, e la lingua dei Siculi (Siculo
non è che un sinonimo di Italico, come ha dimostrato il Niebuhr)
può sempre considerarsi come la lingua madre dell'odierno dialetto
siciliano. Il lungo e splendido dominio degli Elleni nell'isola vi
diffuse la lingua greca come lingua letteraria, senza distruggere però
l'idioma siculo-italico, e vicino ai canti di Stesicoro e di Teocrito
continuano a risuonare i canti popolari dei pastori siculi sui monti
come sulle rive del mare. I Romani posero fine all'influenza greca,
e trovarono nell'isola un dialetto assai affine alla loro lingua,
e che dovettero considerare arcaico, e che durante la loro secolare
dominazione dovettero latinizzare, come già avevano fatto con la lingua
etrusca. La stessa discendenza da una stessa razza e da una stessa
lingua materna avvinse strettamente la Sicilia all'italia, come ad una
grande patria comune, e tutte le conquiste posteriori non riuscirono
che a staccare solo politicamente la Sicilia dall'Italia. Dopo che
l'Impero Romano passò nelle mani di Bisanzio, il popolo siciliano si
mantenne fedele al suo idioma italico, e la cultura e la lingua greca
che, dopo una lunga interruzione, rientrava di nuovo nell'isola, potè
impadronirsi solo del culto.
 
Ancora più notevole è la resistenza vittoriosa che l'idioma dell'isola
oppose alla lingua araba; difatti, durante una dominazione di duecento
anni, i Maomettani non riuscirono nè ad estirpare il linguaggio, nè a
soffocare il cristianesimo. Gli Arabi rimasero stranieri nell'isola,
e il dialetto siciliano si perpetuò anche senza l'aiuto di monumenti
scritti. Gli Arabi accettarono anzi i nomi più usitati di luoghi,
fiumi e montagne, mentre i Siciliani, come gli Italiani in generale,
presero da loro solamente alcune espressioni. Così sono parole arabe:
_dugana_, _maremma_, _giarra_, _bagaredda_, _sciarra_, _zzammara_,
_zibibbu_, _arcova_, ecc... Appena i Normanni conquistarono la Sicilia,
la lingua araba disparve dall'isola. E gli stessi Normanni trovarono
un linguaggio popolare così vivente e così armonioso, che non si
provarono nemmeno di far prevalere il loro proprio normanno-francese;
perfino nella Corte ben presto dominò il siciliano; e fu sotto la loro
protezione che i poeti siciliani poterono per la prima volta lasciare
scritti i loro versi.
 
Con questi fatti e storicamente con il poeta Ciullo d'Alcamo comincia
la storia del dialetto siciliano, ed il suo sviluppo si può seguire
fino ai nostri giorni su documenti scritti. L'ardente patriottismo dei
Siciliani, così ben fondato sulla loro grande ed antica cultura, e così
spiegabile per la posizione insulare della loro bella terra, ancor
oggi si rifiuta di considerare l'idioma siciliano come un dialetto
dell'italiano. Esso è una lingua propria e originale, se non proprio la
lingua madre dell'italiano. I Siciliani non hanno dimenticato ciò che
Dante ha detto nel suo trattato sulla lingua volgare, cioè, che tutto
quanto gli Italiani composero in volgare deve essere detto siciliano
e dovrà esserlo anche pel futuro. Quest'opinione di Dante non si è
avverata, perchè la lingua toscana ha dato il suo nome all'idioma
letterario italiano, ed il siciliano non ha conservato che la gloria di
aver forniti i primi saggi poetici scritti.
 
Io sono pronto ad ammettere col Vigo che una tradizione assai vivace si
sia mantenuta dall'antico siculo all'odierno siciliano, appunto come
le radici dell'odierno italiano possono ricercarsi nella lingua che
si parlava nella Sabina e nel Lazio, ancora prima che Roma dominasse
l'Umbria; ma ciò non toglie che il siciliano, anche ai tempi di Ciullo
e di Federigo, non sia in rapporto al latino che una _lingua volgare_,
perchè il latino ha un tempo modificato l'antico siculo, così come ha
modificato tutti gli altri idiomi regionali d'Italia. Nel secolo xii,
mentre non vi era ancora una universale lingua italiana consacrata
dalla cultura e dagli autori, all'infuori del latino, la lingua si
spezzava in tante forme diverse quante erano le provincie; ogni forma
conservando naturalmente le antiche radici italiche, ma tutte anche
assumendo i caratteri che dava loro l'antica e nuova corruzione del
latino. Il siciliano non era che una di queste forme, e da quel tempo
più vicina alle altre forme che non sia ora, perchè dopo molti secoli
di poca cultura il siciliano si è guastato, ed oggi è molto diverso
da quello adoperato dai poeti dei secoli XII e XIII. E pure anche oggi
il dialetto siciliano ha molte somiglianze con quello dei Napoletani,
dei Còrsi e dei Sardi, ed anche qui, nel centro dell'antico Lazio, a
Genazzano presso Palestrina, dove scrivo queste pagine, ascolto ogni
giorno voci da me trovate nei canti popolari siciliani. Anche qui,
in molte parole la lettera _r_ viene posposta, così che anche qui si
dice _crapa_ e non capra, e Capranica, il vicino nido di roccie, viene
chiamato _Crapanica_.[2] Invece di Clorinda qui si dice _Crolinda_ e
_Craudia_ invece di Claudia, e così si dice _andare_ a _balle_ (valle),
e invece di _padre mio_, _patremo_, come a Napoli ed in Sicilia, invece
di _questo_ e _esso_, _quisto_ ed _isso_; invece di _so_, _sacciu_. E,
come in Sicilia, anche qui l'_nd_ dei gerundi e dei sostantivi si muta
nel doppio _n_ (_vivenno_, _campanno_, _granne_, _banno_ e _munno_).
Perfino le stesse forme barbariche in _ora_ ed _ara_ del latino
corrotto, che io ho trovato così spesso nei documenti romani del IX,
X e XI secolo, ritrovo ora qui in questo dialetto, come in Sicilia.
In quel tempo i notai scrivevano ed il popolo diceva _fundora_ come
plurale di _fundus_, _censora_ (da _census_), _arcora_ (da _arcus_),
_bandora_ (da _bandus_); in una scrittura del secolo X ho trovato
perfino l'accusativo _domoras_ da _domus_. Questi barbarismi, che si
leggono ancora nella cronaca di Giovanni Villani, erano in uso nel popolo da tempi antichissimi, perchè il popolo prende volentieri quelle desinenze che piacciono all'orecchio.

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