2015년 6월 1일 월요일

Passeggiate per l'Italia 21

Passeggiate per l'Italia 21


Così il vecchio. Dagli occhi suoi caddero le lagrime della malinconia.
E come se per il mondo si fosse diffusa la calma della sera, onde
rabbrividisce dappertutto la campagna e tacciono i canti nel bosco,
così tutto si chetò nella sala: non una parola, non un bisbiglio
si udiva. All'intorno serpeggiava il raccapriccio come il passeggio
della morte, ma a volte rompeva il silenzio un rimbombo qual dei carri
strepitosi della battaglia campale e s'udiva in pari tempo il ruggito
delle tigri e dei leoni, che la città custodiva nelle gabbie per la
lotta dell'arena, cupo e lontano, come sulla sponda del libico mare di
sabbia s'ode nella tranquillità della notte echeggiare il ruggito delle
fiere.
 
«La parola che dicesti, o vecchio, gridò Arrio alla fine sbalordito,
risuonò ottenebrando la gioia; pure sappi che la Parca continua a
filare benignamente nella nostra casa delle fila dorate».
 
Senonchè Ismeno guardò calmo verso il Vesuvio e disse: «O fortunato
colui al quale parve nella vicenda dei tempi che le Ore avessero tutto
compiuto! Ma fluttua e ondeggia la vita dietro leggi oscure. Alla cieca
l'uomo oscilla nel dubbio come la canna, e alla notte oscura solo gli
Dei annodano per lui il giorno. Così all'apparir d'ogni giorno se ne
stia l'uomo devoto e pronto a ringraziare e consideri maravigliando il
celestiale incremento della vita, come un dono della fortuna, sul quale
giammai ha contato».
 
Disgustato riprese Arrio: «I vecchi cantano alla morte sempre il
loro canto del cigno; poichè ad essi il tempo spense la fiaccola
dell'Amore. Questo roseo ragazzo sen vola rapido, e non mai appare
al cospetto dei vecchi; egli si cerca una preda migliore; Bacco però
inghirlanda sempre di edera le bigie rovine. Vecchio, e come hai potuto
dimenticare completamente il fido amico, che sulla tersissima base
ha modellato l'artista per richiamarcelo alla memoria? Ecco, quella
base significa la terra tutta inghirlandata di grappoli, e, araldo
del piacere, sulla magnifica pantera si eleva Lieo, con in mano il suo
corno splendente come la luna; perchè la natura non ci ha chiamato a
vivere nell'indigenza, ma bello ci ha apparecchiato il mondo alla festa
della vita fuggitiva. Goda dunque l'uomo; rapide passano le ore e più
rapidi folleggiano i piaceri, come le rapide rose dell'amore. Condite,
o ospiti, il vino! e qui a me si arrechino freschi fiori, perchè l'aria
ci ha fatto appassire le corone sulle tempie». Disse e versò il falerno
nel corno e ne offrì al vecchio.
 
«Se qualcuno può uguagliarti, o divino, aggiunse l'altro, è necessario
ch'egli sappia offrire agli ospiti meravigliati il fior della parola.
Una cosa sola ti è sfuggita, il fiammeggiante altare che Euforione ha
qui modellato, al sommo della base. E chiuda il nostro discorso anche
l'allegoria dell'altare: gli Dei bramano i sacrifizi, accostisi perciò
il mortale volenteroso ai loro altari, pensando come presto fugga
l'ora, acciò gli si conservi la luce e la gioia nobile e moderata!»
 
Così il vecchio; Euforione lo strinse affettuoso fra le braccia,
profondamente commosso. Lucido splendeva il candelabro, sembrava
il genio della vita terrena, vivificato dalla parola del sublime
cantore. Nessun lume scintillava ancora nella sala, esso soltanto
risplendeva lontano. D'intorno sedevano come ombre gli ospiti che,
taciti e seri, guardavano le lampade. E Ione fissava incantata ora il
bronzo, ora lungamente gli occhi dell'amico; e nel profondo del cuore
agitato entrambi sospiravano di stringersi le mani. Quand'ecco si levò
dalla sedia, col suo bel volto raggiante e sospiroso, coi neri occhi
irradiati dallo splendore dell'alto sentimento, con le mani sollevate
essa gridò come l'indovina: «Se al nobile s'addice il nobile, anche
all'opera sia nobile la lode! Libero quindi sen vada l'uomo che gli Dei
elessero araldo della loro luce immortale, anche lui onorino gli uomini
come gli Dei. Libero ora tu sei, o Euforione, libero e sciolto dalla
condizione di schiavo!»
 
E subito ricadde sul guanciale l'impallidita donzella. Allora il padre
la contemplò e gli ospiti stettero ammirati ad osservare com'ella
sembrasse convulsa ed agitata nell'anima e nel viso.
 
Come rumoreggiando il lampo dinanzi agli occhi di un uomo sbalordito
guizza giù pel cielo nella terra crassa di vapori, così ora questa
parola penetrò nell'anima di Euforione, ed egli vacillò, indi stette
con lo sguardo verso il cielo, poi nascose il capo fra le mani e con
profuse lagrime si buttò ai piedi di Arrio.
 
E vide piegarsi verso di lui il volto amico di Arrio, quand'ecco si
fecero fosche le tenebre in un momento, fosche oltre ogni dire! Come se
il mondo si spaccasse, dal Vesuvio si scatenò una bufera: il vasellame
precipitò tintinnando, con fragore caddero le tazze e con rombo
profondo risuonò anche il candelabro di bronzo, stramazzando giù nella
sala, mentre all'intorno volavano schegge di marmo. Lontano rotolarono
le lampade, sfuggite alle lacerate catene, facendo diguazzare l'olio in
esse contenuto, e guizzavano le fiamme nella notte.
 
E un alto e orrido grido echeggiò nella sala, selvaggio come il capo
di Medusa stava il rosso Vesuvio. Con fragore scoppiò il monte, e
una figura di fuoco usciva dalla voragine, come il turbine del mare,
e lambiva l'etere con le fiamme. Aveva l'aspetto di un pino, così
s'inarcava una volta gigantesca di fiamme e cresceva, finchè ad
un subito non s'agitò un rabbioso uragano di fuoco e con rimbombo
sprofondò nelle viscere dell'urlante cratere.[8] E a un tratto una
fosca caligine, con cupi fragori gorgogliava e ribolliva il fuoco
interminabile, si sollevava di bel nuovo rapidamente, s'aggirava in
vortice, e volavano i massi incandescenti come astri e come lune, d'uno
splendore fantastico, come un esercito tuonante di comete che con la
coda piena di scintillio sferzavano l'aria che mandava dei gemiti,
finchè non si riversavano simili ad una spaventevole grandine di
fuoco. Rosso come il sangue spumeggiava il monte, vomitando un'onda di
metalli, e ne rotolavano cascate di fuoco e ardenti cateratte di lava.
 
Oscurità profondissima e nera al cielo si levava la polvere.
Scrosciando come pioggia cadeva e ricopriva la fumante città, sì che
questa si dileguava allo sguardo; soltanto orride luccicavano le torri
mandando vampe, e lottavano contro il fumo e il buio della cenere. Alto
or mugghiava il mare, spaccandosi nel fondo, e rovina si assommava a
rovina e s'alzava polvere su polvere nel nero orbe terrestre. Così
in un subito precipita giù nella valle una catena di monti per il
terremoto che tutto all'intorno sconvolge, così turbina il vorticoso
caos della nera polvere, sì che tutto si offusca il cielo e versa sulle
case e su gli abitanti fuggiaschi una pioggia interminabile di sabbia
infocata, come ora scrosciava la cenere e fremeva e strepitava con
fracasso, scorrendo simile al mare, rovesciando le porte della casa di
Arrio.
 
E discese nella sala la notte flegrea e la morte versava la cenere
nei bicchieri. Tutta l'aria buia si riempì di zolfo soffocante. E
un indicibile grido di dolore echeggiò all'intorno, spaventevole;
selvaggia si udiva la voce di Arrio, di Pansa, le stridule voci delle
donne e degli uomini fuggenti; terribile era il grido di Euforione,
mentr'egli, errando a tastoni lungo le colonne, faceva echeggiare del
nome di Ione tutta la casa avvolta dal fumo. E qua e là cadevano e
sporgevano le mani frugando in cerca della via, avvolti dal nembo di
polvere e di crocchiante lapillo. Rosse faci, simili ai saltellanti
fuochi fatui delle maremme, erravano e sparivano; e d'ogni parte
orrende figure, simili alle larve del Tartaro e allo stuolo delle
anime che gemono, quand'esse passavano, il torrente di fuoco fuggendo
in mezzo al vapore gorgogliante, andavano a tentoni, correvano e
precipitavano nella fuga e nella lotta disperata.
 
E come tutto fu spento, nella sala si vedeva fiammeggiare tranquilla
una delle lampade, come scintilla un astro nel buio delle nuvole.
Poichè dalla catena del candelabro essa cadde giù contro una sedia
che la trattenne, e lì rimase sospesa, trattenuta dal braccio della
sedia metallica, la luce vivificante di Pallade. Ed Euforione la prese
disperatamente, la sollevò nella destra e subito corse via con un grido
rimbombante.
 
Pure qui tu indugi, o Musa, e con profonda mestizia abbassi il tono
della lira; mostri il tuo capo nella polvere azzurriccia, che ancora fa
rabbrividire i posteri nella sala di Arrio, e lo pieghi cogitabonda e
taci.
 
 
 
 
CANTO IV.
 
TANATO ED EIRENE.
 
 
Com'è placido, o morte, e come è bello il tuo regno colorito qui fra
le rovine di Pompei, nel recinto della cenere che si inarca![9] Ben
altra tu mi apparisti nelle macerie di Roma, come un Cesare maestoso
che dalla via Appia infili i larghi archi, tacito e tetro, trionfatore
del mondo e calpestatore dei popoli; ben altra nei campi di Siraco,
dove ancora Aretusa versa giù nel mare le melodiche lagrime per il
perduto dio e la rocciosa plaga giallognola mostra i solchi del tempo
con tracce di tombe all'intorno, per quanto il falco la domina con lo
sguardo.[10] Colà come Memnone tu mi apparisti, che manda dei gemiti,
quando la madre Aurora lo sveglia e lo bacia sul capo. Ma qui come un
ricciuto fanciullo, simile al sorridente Amore, tu mi appari, o Tanato,
nelle scintillanti macerie di Pompei, scherzando con la polvere di
oro e coi rottami dei vasi infranti. E coi lapislazzuli e i perduti
ornamenti delle fanciulle tu ricami il tuo sepolcrale mosaico di
figure fantastiche e favolose. Informami soavemente il canto e venga
qui benigna Eirene, la celestiale sorella, e mi aleggi intorno al
capo, eternamente. Ed ecco che aprì gli occhi Euforione; dove mai si
trovava egli? Una nube gli avvolgeva lo sguardo e il capo accasciato
dal dolore, e dello spruzzo delle onde grondava ancora la chioma e
la testa. Era in un'arcuata caverna di rocce dentate, rischiarata
in rosso dal vaporoso lume d'un tizzo acceso a mo' di fiaccola, che
un uomo teneva in mano, ricurvo, nel vello peloso del pescatore,
mentre gli sguardi inorridivano del raccapriccio di morte. Allora
terribile mugghiò il mare con urlo, e le onde, freneticamente agitate,
risuonarono intorno per le rupi sulla caverna scossa. Ivi pendevano
in gran copia alle caviglie reti brunastre, canne da pesca, gomitoli
di nasse e corde di paretelle. Ma al suolo sulla nera terra giacevano
figure, vinte dal dolore, in un rigido deliquio. Fra la ciurma ivi
sedea anche lo stesso Serapione, col grigio capo appoggiato alle
mani, senza forza per l'indicibile pena. Inoltre, nell'abbigliamento
di festa, coi lineamenti del tutto sformati, sconvolta e arruffata
la chioma, inzuppata di acqua salsa, giacevano distesi sull'alga
gl'infelici figli di Arrio, simili alla conchiglia di porpora che il
flusso spinge alla riva sull'alga scintillante del mare.
 
Euforione li guardava fiso, come fantasmi, e piegandosi sulle ginocchia
cercò di pronunziare queste interrotte parole: «Ohimè! dove siamo noi
infelici precipitati? ci hanno, ohimè! trascinato giù nel profondo del
mare gli urlanti gorghi? dove sono io mai? cadde Pompei, rovinò dalle
fondamenta il globo terrestre? È questa la fossa? Ci ha tutti ingoiati
la voragine del Tartaro?» E dagli occhi cercò di scuotere con forza il
deliquio; ma la ragione gli girava intorno smarrita. Come quando di
mezzo al fumo spuntano qua e là delle figure poco riconoscibili e di
nuovo si offuscano, così a lui errava confuso lo spirito sulle immagini
scomparse. Vide tutti gli orrori della notte, il Vesuvio e Pompei
ravvolta nel fuoco, la casa della festa e Ione presso il magnifico
candelabro, gli ospiti giulivi e l'improvvisa catastrofe. Vide Arrio
fra le rovine presso la volta della casa, piegato accanto ad Ismeno,
col capo morente tutto ricoperto di cenere. Vide uomini e donne,
distesi nell'arena che si ammucchiava all'intorno, il popolo fuggente
correre giù per la china delle strade a precipizio nelle nuvole di
fuoco e sferzato da una gragnuola di lapillo, strillando come uccelli
notturni, quando ne li caccia via lo scoppiettare dell'incendio. Ed ora
ei vide sè stesso, nel vortice di cenere, con Ione sulle spalle e Ion
appeso alla veste correre verso il mare di mezzo alla città in fiamme e
alla turba confusa degli uomini; ed echeggiava l'aria dei lamenti del
popolo che si precipitava nel mare, acceffando le barchette con grida
angosciose, finchè il flutto li allontanava e di nuovo il riflusso
li gettava sulla riva. E a lui pareva come se sprofondasse nel mare,
come se tutte le acque furibonde lo inghiottissero nel gorgo; ma ad
un tratto egli intese il rumore del bordaggio, un vociare confuso ed
orribile e nel mezzo il grido risuonante di Serapione. E subito vide il
vecchio, non più come l'illusione di un sogno febbricitante, sollevarsi
sul suolo della caverna, nell'aspetto simile al nero Caronte, e cercò
di chiamare per nome l'ospite amico, stendendogli con forza il braccio,
mentre prima barcollava pieno di angoscia; ma la notte fosca gli avvolse ben presto il capo ricurvo.

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