2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 44

Storia degli Esseni 44



Ora chi non vedrà e l’una e l’altra cosa nel Talmud di _Kaghigà_? Ove
descrivendo le prime primissime origini delle controversie dei Farisei,
e i primi tra i Dottori ad erigersi tra essi antagonisti, narra qual
prima coppia ch’ebbe discorde il sentire in fatto di religione, un
Illel, l’antico il famoso Illel, che il chiarissimo Luzzatto crede
identico al Pollione di Giuseppe, e per secondo non già Sciammai
che non intervenne che tardi, ma il nostro, lo storico, l’Essena
_Menachem_ che precorse a _Sciammai_ nel rabbinico patriarcato e che
solo a _Sciammai_ cesse il luogo, l’ufficio, quando la sorte chiamollo
altrove, come vedremo. E perchè dico il talmudico Menachem identico al
nostro, all’Essena Menachem di cui parla Giuseppe? Perchè è il Talmud
stesso che ce lo insegna, per chi bene lo intenda, il quale, dopo
aver detto che a Menachem sottentrò nell’officio _Sciammai_, chiede a
se stesso.Che cosa avvenisse di Menachem _leehan iazà_.E Dio volesse
che fosse la risposta concorde. Ma no! Da Menachem al Talmud, o per
dir meglio, ai personaggi che qui interloquiscono nel _Talmud_, _Abaje
e Rabbà_, non solo più di tre secoli eran trascorsi, ma l’esilio, lo
spostamento delle accademie e dei centri studiosi avevano di tale
dubbiezza avviluppate le cose che immediatamente precessero la grande
catastrofe, che si vedevano sì, ma come gli obbietti si veggono per
l’aer caliginoso. Che volete pertanto? _Abajè e Rabbà_ rispondono sì,
ma onninamente discordi, alla domanda del Talmud. Dottori ambidue
Babilonesi, nati, cresciuti lungi da Palestina patria di Menachem,
ognuno di essi narra le cose tali quali le aveva udite per avventura da
una tradizione discorde. Per _Abaje_, Menachem uscì _letarbut rahà_,
frase talmudica che vale quanto _apostatare_ od uscire dal grembo della
ebraica ortodossia.Per _Rabbà_ invece se Menachem non è più tra i
Dottori annoverato, egli è perchè (notate prezioso ricordo!) fu assunto
al servigio e ministero del Re, il quale come ora vedremo non è, nè può
essere altri se non _Erode il Grande_.Ora di fronte al dubitar del
Talmud chi oserà asserire che le cose avvenissero come noi le dicemmo
avvenute? Quando due opinioni tenzonano, come vediamo, con egual forza,
chi ci autorizza a stare piuttosto alla seconda che non alla prima, e
soscrivere alla versione favorevole di _Rabbà_, piuttosto che a quella
a noi ostile di _Abaje_?Ah! il perchè è facile a dirsi, e voi uditolo,
spero, mi darete ragione. Due sono gli argomenti capitalissimi che ci
persuadono vera, preponderante la tradizione di _Rabbà_. È il primo
un principio che corre comune e divulgato assai tra gli studiosi del
Talmud, che ovunque cioè una controversia si verifichi tra _Abajè
e Rabbà_, egli è al secondo che dobbiamo attenerci, tranne pochi
singoli casi nominativamente eccettuati dallo stesso Talmud. Che nelle
quistioni critiche storiche, anco dogmatiche, questo criterio non
abbia avuto sempre forza di legge, concedo anch’io volentieri, ma con
qual giustizia, con qual coerenza?Certo con quella stessa giustizia
e coerenza che manomise nello studio del Talmud tuttociò che non ha
rapporto immediato colla pratica religiosa, senza pensare che ove di un
albero tu trascuri le radici, il tronco, i rami ed anco le foglie, è
vana opera occuparsi del frutto che non crescerà mai, o crescerà misero
e tristanzuolo, quale lo fece il mal governo dello stupido cultore.
 
A noi però che recammo sempre nell’animo la sintesi, la reintegrazione
della scienza ebraica in tutte le svariatissime sue parti, teoriche e
pratiche, non è lecito adottare criterio diverso nel rito da quello
che nella storia, nel domma, nell’esegesi adottiamo, e in queste come
in quelle diciamo e continueremo a dire _Ilheta che rabà_. E questo è
argomento che abbastanza identifica il Menachem del Talmud coll’Essena
Menachem, di cui Flavio discorre. Ma qual’è il secondo? Il secondo è lo
stesso Talmud che ce lo fornisce, ed è tale, che ove pure si volesse
niun valore concedere alla massima già esposta che dà ragione a _Rabbà_
contro _Abajè_, basterebbe per se solo a far prevalere l’opinione del
primo contro il dir del secondo. E perchèé? Perchè reca un inaspettato
ed autorevolissimo ausilio alla tradizione del primo, in un’antica
Barraità, che oltre essere opera di Dottori Palestinesi conterranei di
Menachem, è di gran lunga più antica del Talmud e dei suoi autori, e
quindi maggiormente si avvicina all’epoca di Menachem, e più veridica
e sincera ne ragguaglia dell’avvenuto. La Barraità o testo misnico si
pronunzia a dirittura in favor di _Rabbà_, e quella ragione assegna
al ritiro di _Menachem_ che _Rabbà_ assegnava, vale a dire i nuovi
offici che fu chiamato a sostenere in corte di un Re che non può essere
altro che Erode, TANA _nammè akì iazà Menahem laabodat ammelech_. Non
basta. La Barraità ci conserva memoria di una circostanza taciuta dallo
stesso _Rabbà_, e che più compiutamente risponde alla narrazione di
Giuseppe. Certo voi non lo avete obbliato. Oltre i favori personali
che asseguì _Menachem_, narra Giuseppe il credito, l’estimazione in
cui salirono, la mercè sua, gli Esseni: e come (sono sue parole) _da
indi innanzi trattasse con segnalati favori i nostri Esseni_. Or bene,
la Barraità pare che faccia eco alle parole di Flavio, e dopo aver
detto come udiste di Menachem che passò al _servigio del Re_, queste
parole aggiunge memorandissime che a voi raccomando: _E con esso
passarono allo stesso servigio ottanta coppie di giovani dottori in
serico ammanto_segno della nuova dignità a cui furono assunti, secondo
era stile degli antichi principati rivestire i nuovi eletti di abiti
distinti, secondo si legge in Assuero e in Faraone. Ma questi due
argomenti, per quanto grandi, non sono i soli: ve ne sono altri due
che grandemente favoriscono il nostro sistema: l’uno è la concordanza
cronologica dei due fatti, l’altro è la produzione di un’autorità
tanto più concludente quanto più inconsapevole e spontanea. Che cosa
è la prova cronologica? È quella che dimostra come il _Menachem_, di
cui parla il Talmud, visse appunto in quel tempo in cui visse, al
dir di Giuseppe, il _Menachem_ degli Esseni, il favorito di Erode,
rendendo tanto più probabile la loro identità, quanto più strano
sarebbe ammettere al tempo istesso due _Menachem_ ambo dottori, ambo
favoriti da Erode, ambo seguiti da lunga schiera di Dottori favoriti
com’essi. Or bene: noi abbiamo un punto fisso di partenza nel calcolo
cronologico, ed è la data dell’esistenza d’Illel collega di Menachem.
Il quale visse e sostenne il patriarcato cento anni prima della
distruzione del tempio, nel quale tempo deve aver vissuto e figurato
lo stesso Menachem che gli fu collega nel dottorato, anzi capo della
scuola avversaria, alla cui testa si pose, dopo di esso Menachem, il
più famoso _Sciammài_. Questo punto dimostrato costante, che cosa ci
resta a fare per compire la dimostrazione e provare sincronici i due
Menachem? Dobbiamo, se non erro, provare che il Menachem di Giuseppe
visse, fiorì giusto cento anni prima dello esilio. Or bene: aprite
Giuseppe, e dove è menzione del fatto della predizione di Menachem
troverete notato dall’Arnauld d’Andelby essere ciò appunto avvenuto
nell’anno 40 prima dell’era volgare, la quale avendo preceduto circa
un 60 anni la distruzione del tempio, torna l’istesso che dire cento
anni prima della distruzione, ch’è quanto dire quella stessa data in
cui, secondo il Talmud, veduto abbiamo esistere, fiorire il talmudico
_Menachem_.
 
Ci resta ora ad allegare l’autorità la quale indirettamente, e per ciò
stesso tanto più concludentemente, depone in favor della identità dei
due Menachem. Io non so se ne abbiate contezza. Ma oltre le opere di
Giuseppe in greco dettate, e che furono tradotte, si può dire, in quasi
tutte le lingue dell’Europa, ve ne ha un’altra in puro ebraico distesa,
che mostra di appartenere allo stesso autore, ma della cui autenticità
molti dubbj sorsero e durano tuttavia. Or bene in quest’opera ebraica,
nel _Josifon_, al cap. 55, dove si parla della restaurazione del Tempio
per opera di Erode, narra pure la famosa predizione del regno fatta
da Menachem ad Erode ancor fanciullo.Ma come la narra? Certo come la
narrava l’antico Giuseppe, tranne solo una frase che nel primo non
esiste e ch’è per noi il più luminoso attestato della identità dei due
Menachem. E là, ove nominando per la prima volta il profeta _Menachem_,
oltre porlo nel novero dei _hasidim e hahamim_, cenno, come vedete,
di gran rilievo, lo qualifica a dirittura _collega di Sciammai_, lo
che è appunto ciò che andiamo cercando, null’altro potendo essere un
_Menachem collega di Sciammai_ se non quello che appunto come collega
di _Sciammai_ è qualificato dai Talmudisti. Se poi a tutto questo
aggiungete che Erode fu, secondo il _Josifon_, secondo il Talmud, e
secondo il greco _Giuseppe_ intimo dei Farisei, sotto le cui bandiere
acquistò e conservò la corona; che fu stile generale, costante dei
Dottori farisei l’annunziare da lungi i grandi destini, specialmente
ai fanciulli come _Gamaliel a Giosuè_ ancor fanciullo prigioniero in
Roma, come Rabba di cui leggesi in Berahot ai due discepoli che aveva
commensali; che più particolarmente si occuparono di vaticinare il
regno ai futuri monarchi, come Rabban Joanan Benzaccai a Vespasiano
ed a Tito, come Ribbi Achiba a Barcohaba, l’_Arminio_ di Palestina,
se pensate che tutti i Rabbini posteriori come il Seder Adorot che
lessero nel _Josifon_ il fatto di Menachem, l’intesero qual personaggio
identico di fatti al Talmudico Menachem; se tutto questo aggiungete,
avrete un fascio di prove così stretto, così aderente, che insieme al
racconto talmudico, rispondente al racconto flaviano, insieme alla
concordanza cronologica dei due avvenimenti, forma tale congerie di
fatti così cospicui da costituire una vera e propria dimostrazione
evidente, da provare soprattutto questi due fatti capitalissimi: la
conoscenza che ebbero degli Esseni i Dottori nostri contro la sentenza
comunemente adottata, e la identità appunto di Esseni e di Farisei,
dappoichè questi ultimi dei primi favellano in guisa nel loro Talmud,
come se proprj fossero del Farisato gli Esseni, propria la loro storia;
proprie le glorie, e proprio tutto ciò che ad essi si attiene.
 
E poichè abbiamo preso a narrare le loro predizioni, mestieri è pure
che d’altro qui si favelli che merita pure tra quelle narrate luogo
cospicuo; e forse pegli autorevoli deposti, merita anzi sovra tutte il
primato. Voi avete udito Giuseppe narrare delle esseniche predizioni.
Or bene: Giuseppe, siccome quello che visse un anno nella società
degli Esseni, doveva pure pretendere al Profetismo, e difatti Giuseppe
apertamente v’aspira. Che dico? Narra egli stesso nel 3º libro delle
Guerre Giudaiche come, stretto d’assedio in _Jotapat_, predisse agli
abitanti che la città cadrebbe dopo 47 giorni di resistenza in poter
dei Romani, e ch’egli stesso sarebbe caduto vivo in poter loro. Non
basta.Ciò che il Talmud narra di _R. Johanan Ben Zaccai_, ciò che
udiste poc’anzi da questo Dottore qual presagio di prossimo regno
a Vespasiano, ed a Tito, Giuseppe di sè stesso lo narra. Racconta
Giuseppe come condotto nel campo nemico, e presentato a Vespasiano,
questi deliberasse inviarlo a Nerone allora imperante; come a sua
notizia pervenuto l’intendimento di Vespasiano, alla presenza di Tito e
di altri due testimoni lo ammonisse dicendo, lasciasse pure d’inviarlo
a Roma perciocchè Nerone ed i suoi successori poco avrebbero ancora da
vivere; sapesse che egli solo dovrebbe ormai riguardarsi qual Cesare,
giacchè egli, Vespasiano, e dopo di esso Tito suo figlio sarebbero
saliti sul trono. Mentiva nel racconto Giuseppe, e fama volle usurpare
di profeta agli occhi dei posteri? Così sentenzierebbe una critica
superficiale, ma quanto ingiustamente! Poichè se il caso favorisse il
temerario annunzio del prigioniero, o piuttosto, le potenze recondite
dell’Essena, dell’iniziato, si risvegliassero all’occasione, questo
non saprei accertare; ma che Giuseppe non abbia peccato per frode,
ella è tal cosa che sfida ogni dubbio in contrario. E sapete chi me lo
dice? I contemporanei o poco posteriori a Giuseppe, i Pagani nemici del
nome ebraico, quelli che raccolsero di bocca alla fama il prodigioso
vaticinio, come correva allor rumoroso sulle labbra di tutti; egli è
Dione Cassio nel libro 66; egli è Svetonio nella vita di Vespasiano
al 12º libro; e se Tacito non si può annoverare qual testimone della
profezia di Giuseppe, si può qual autorità allegare di una predizione
almeno congenere. Ella è quella di cui favella nel 2º libro delle
Storie, parag. 78. _Sorge_, egli dice, _tra la Giudea e la Siria un
monte che si chiama Carmelo, il Dio che in quel luogo si adora reca il
nome stesso_ (qui Tacito sentenzia a sproposito). _Nulla statua di quel
Dio e niun tempio: un altare solo si erge e il rispetto lo circonda.
Vespasiano vi andò e sacrificò. E mentre volgeva nella mente i suoi
piani, il sacerdote, consultate le viscere dell’animale, gli disse:
Qualunque sia il pensiero che ti preoccupa sappi che ti attendono
un vasto palagio, senza limiti possedimento, e lo imperio di genti
innumerevoli._ Ecco ciò che Tacito racconta. E certo qui di Giuseppe
non è memoria; ma se tutte le circostanze valutate del racconto di
Tacito; se fate la parte dell’ignoranza nel Dio Carmelo, che non
ha mai esistito; la parte del paganesimo nelle consultate viscere
dell’animale Beto, sconosciuto e riservato nell’Ebraismo; se cernete
infine la narrazione tacitiana di quanto v’ha d’inesatto, d’eterogeneo,
rimarrà questo fatto per sè stesso parlante, la _predizione del regno a
Vespasiano annunziata in Giudea da un Ebreo, da un sacerdote_. Il quale
fatto posto a confronto colla predizione attribuita dal Talmud a _R.
Johanan Ben Zaccai_, con quella che a sè stesso attribuisce Giuseppe,
verrà con essi fuso, assimilato e tutt’insieme faranno un solo fatto,
un sol vaticinio, le cui varianti sono in _Giuseppe_, in _Tacito_, e
nel _Talmud_, in cui ardua opera sarebbe quella parte d’onore assegnare ad ognuno, che per diritto gli spetta.

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