2015년 6월 1일 월요일

Passeggiate per l'Italia 23

Passeggiate per l'Italia 23


Strano, diss'egli; i celesti confondono sempre le sorti degli
uomini, il flagello della Furia colpisce le teste dei potenti, mentre
intorno al capo dello schiavo essa si trasforma per incantesimo in
una ghirlanda. La morte diventa vita, la porta della tomba si cambia
in un'eccelsa porta di trionfo! Oh te beato! Io ti esalto: come una
fenice risorgesti dalla cenere di Pompei, e Iddio die' compimento a
quel che tu presago modellasti. Tu sei libero e sfuggisti anche tu
al labirinto della morte; io ti chiamo Dedalo ed Icaro ad un tempo,
perchè i Geni ti prestarono le ali di entrambi. Oh! sollevate al cielo
le mani, sollevatele in segno di ringraziamento, voi, che i celesti
stessi guidarono sulle ali nella mia nave. E tu, o nobile e rassegnata
fanciulla, che cosa scegli tu adesso? Non più vi sono vie per ritornare
in patria; a novella vita e più grande risorgerai. Perchè colui che
ha superato tali cose, ha ricevuto dalle eterne potenze una elevata
destinazione, sempre più in alto nella vita. Vuoi tu andare a Roma
col fratello? Colà abitano molti amici di tuo padre, o vuoi piuttosto
scegliere la città di Napoli? Parla, io ti guido volentieri nella
mia nave, dove desideri. Oppure comprendo esattamente quel che già
presentivo, e che voi stessi ora mi date a intendere con lo sguardo e
con l'unione fraterna delle mani?»
 
Non rispose a ciò la figlia dell'infelice Arrio, ma, immersa in
profondi pensieri, abbassò lo sguardo, silenziosamente. Ed allora
Euforione: «Ben hai tu presentito il vero, tu che ci fosti mandato
per pilota dagli Dei, o santo ospite amico. Sì, noi veniamo teco, tu
stesso l'hai predetto. Ma non come uno schiavo fuggiasco io monto a
bordo della nave salvatrice, giacchè mi segue Ione, come compagna di
viaggio all'uomo che essa stessa ha liberato dall'infamia della trista
schiavitù. Colei che mi prometteva la vita, mi è stata ora legata dalla
morte, ed il Vesuvio ci ha fuso, ohimè! le indissolubili catene. È
forse un sogno? O Dei, come intendo io il subitaneo mutamento! Voi, sì,
mentre io me ne sto pieno di meraviglia, mi vuotate sul capo ambedue
i corni dell'abbondanza, mischiando il dolore al piacere e la morte
alla vivificante salute. Oh come rimango confuso di vergogna dinanzi
a voi, io che solo fra tutti soffrii meno! Io debbo sembrare ora come
un misero mortale, che dai luccicanti rottami estrasse i più preziosi
tesori, rubandoli ai caduti, e fu arricchito dalla prodiga morte.
Perciò non so pronunziare alcuna adatta parola; mi batte il cuore
nella speranza, eppure il dolore lo seppelisce in un raccapricciante
silenzio. Questo solo io sento: Ione, tu vivi, e tu vivi per me, o
fanciullo! E se ancora la preghiera dei vivi scende giù nell'Orco, ben
udrà il padre gli ardenti voti, e si volgerà a me accennando dai campi
elisi l'ombra placabile di Arrio. Lungi ora navigando sul mare noi
andiamo in esilio, c'è di guida il dolore, e nel tempo stesso anche la
speranza e l'amore, che di mezzo alle rovine ci costruisce di bel nuovo
la patria. Poichè anche oltre il mare fiorisce incantevole la terra
ospitale, anche colà risplende Eos e sorge per gli uomini d'azione
anche Elio e Selene nell'amica sera».
 
Disse e indicò il mare e i monti luccicanti di Calabria, che dal vapore
ondeggiante sollevavano la cima violacea. Lungi ridevano le onde e
bello brillava il promontorio merlato della Licosa; qualche nave a vele
spiegate correva giù verso il sud in una corsa beatamente alata. Ma
ad Euforione sembrò come se il cielo di smeraldo risuonasse di festosi
inni e come se echeggiassero di canti i rapidi flutti, che con ansante
mormorio si rincorrevano sull'estesa assolata. Così stava egli commosso
sulla riva crestosa di Capri, agitando la mano verso il mare porporino,
mentre gli splendeva nell'occhio la celeste fiamma del desiderio.
 
E l'afflitta Ione sollevò il suo pallido volto e disse: «Ahimè! lungi,
o amico, tu guardi, e le ali della speranza sollevano il tuo spirito
coraggioso; ma nel mio petto il cuore sepolto come sotto le macerie, si
è cangiato in un'urna, ripieno della cenere di morte. Io cerco vincere
l'angoscia, e apprendo l'umiltà dal dolore, piegando religiosamente il
mio povero capo innanzi alla triste necessità. Ma il grido del cuore,
oh questo grido disperato mi ridesta sempre dal muto silenzio, ed
allora mi rivolgo ai celesti domandando: ma sarà Pompei sempre coperta
dalla cenere? E ritornerà mai a noi il nobile padre? Ed è per sempre
sprofondato nei frantumi? E copriranno questi frantumi eternamente
gli amici e le case ed anche la fiorente città? Io vivo sempre nel
sogno ed orfana stendo le sospirose braccia verso la patria, verso i
vani fantasmi della tomba. Perchè come sulla sabbiosa pianura il vento
distrugge con la polvere per ischerno la traccia del piede frettoloso
al viandante, così copre la sabbia tutta la mia vita ed i miei sensi.
Tutto divenne intorno a me caos, e mi vacilla nel petto il cuore
senza patria, strappato quasi alla sua ancora e spinto nell'onda del
cordoglio verso il velato avvenire. Ahimè! della casa di Arrio sono
questi gli unici avanzi, io e tu, Euforione, ed il piccolo Ion, a me
carissimo sopra ogni altro!
 
Ed a ciò Ion: «O Ione ed Euforione, io ora vi amo doppiamente, perchè
voi mi sembrate i genitori, essendo il padre disceso nell'Orco. Ma
tosto che noi fabbricheremo la casa sulle rive del purpureo Nilo, sia
essa com'era la nostra, chè non mai io dimentico la nostra abitazione,
la quale s'ergeva sì bella con le colonne splendenti dell'azzurro del
mare. Sabbia e frana la ricoprono, e ricoprono anche il podere e i
tesori che il padre accumulò e la diligente madre raccolse. Di tutto
posso consolarmi, solo non posso dimenticare i tuoi preziosi regali,
o sorella, che poco fa mi portasti da Roma. Ed anche il candelabro
di bronzo io piangerò, o amico; mi appare sempre agli occhi la bella
figura e ripenso alle lampade scintillanti nella sala, al padre che
stupito ivi sedeva ed agli amici che guardavano ammirati. Ma ora esso
sen giace coperto di cenere, e nessuno attizza le incantevoli lampade,
allietandosi del loro scintillio. Si affrettò subito un demone a trarlo
giù nel profondo dell'Orco, fra le lare, per la regina Persefone, dove
ora sta accanto al trono e illumina le orride tenebre».
 
«Lo ricopra pure la polvere, rispose sorridendo Euforione, e sia ora
lampada sepolcrale per Arrio e per tutti gli amici: ormai mi ha già
bell'è compiuto il destino. Esso era per me l'araldo della luce, un
amico salvatore dell'amore; e un tempo, quando saranno trascorse le
età e molte generazioni di uomini, quando noi tutti saremo dispersi
coperti dalla polvere, i posteri lo ritroveranno; allora dinanzi ai
tardi nepoti esso starà come uno straniero e un divino mistero. Ma
forse un uomo, un osservatore, lo contemplerà, e con malinconia dirà
allora: di chi erano le mani, le preziose mani che ne intesserono
le forme e quali sensi commovevano il maestro, quando nell'officina
modellava il lampadaro dedalico? Per chi esso infiammò e illuminò
l'anima innamorata? Ed allora il mio bronzo racconterà a questo nipote
stupefatto anche il destino di Pompei e la nostra storia passionale.
 
«Ma io stesso, soggiunse il fanciullo, apprenderò subito da te a
modellare il bronzo, perchè anch'io diventi maestro di plastica,
che ognuno onori ed ammiri con lode e celebrazione. Bello mi sembra
pure che l'uomo si eserciti in tutto ciò che nessun destino, nessuna
improvvisa distruzione può strappargli. Noi, ahimè, i figli del
benestante Arrio siamo adesso come i più poveri del popolo, che sulla
via polverosa chiedono l'elemosina. Ma tu unico e solo rimani ricco,
tu porti teco tutti i beni, l'arte che rende felice il mortale ed il
lavoro che crea e che ora nutrirà anche noi, orfani smarriti». Così
disse il grazioso fanciullo ed Euforione se lo sollevò al cuore, lo
strinse dolcemente al petto e guardò nel cielo commosso.
 
«Bene, gridò subito Ione, bene ci siamo noi scambiata la propria
forma della felicità. Prima io stava altera e piena di splendore, e mi
pareva che nessun desiderio soddisfatto mi bastasse, per quanto fossi
circondata di ogni cura. E riuscii ad ottenere che la mia bocca potesse
liberarti, o caro. Ma dei doni, o amico, che per l'innanzi offriva
la figlia di Arrio per rendere gli uomini felici, questo, ahimè, era
l'ultimo ed il più bello. Io son povera adesso, il mio tesoro d'un
tempo è ora soltanto affanno e cordoglio. Mai tacerà questo immortale
dolore, per quanti anni possano scorrere, perchè, dovunque io sia, la
mia anima sarà rivolta alla tomba dei perduti amici, e dovrò piangere
il padre e sempre piangere Pompei. Ma tu quale un celeste donatore mi
porgi la salvezza. E come saprò io esprimerti i sensi del mio cuore che
palpita? Poichè, come finalmente appare al nocchiero, sbattuto dalla
tempesta, la più propizia pace nel porto, così tu sei per me il rifugio
del dolore. Noi siamo tuoi, noi veniamo con te; ciò che oltre il mare
lontano Iddio ci prepara, noi ce lo prenderemo con un amore operoso. Ed
ora vieni, il mio cuore si strugge dal desiderio della partenza. E già
satura di dolore io voglio piangere me stessa nella polvere di Pompei,
poi prendici tutti, o vecchio, e facci viaggiare sulla tua nave amica
ed ospitale».
 
Odi! e risuonò dalla spiaggia un canto, l'allegro e giulivo saluto del
mare. Dalla nave rabberciata gridarono su verso la roccia i figli del
Nilo, sollecitando il vecchio; dall'albero di abete sventolavano le
banderuole, nel nord-ovest le bandiere fluttuavano e a bordo pendevano
le corone d'ulivo e i rami dei sacri pini.
 
«Orsù! disse l'Egiziano, perchè lì basso la solerte ciurma mi chiama
con strepito e si apparecchia a partire. L'animo di tutti aspira
con ardente desiderio alla patria sicura. Affrettatevi dunque e
calmate l'ansia affannosa del petto, o partenti, che è sempre dolce
il piangere, dolce il dolore di ogni partenza; ma di là al capo di
Pallade io mi fermo, finchè voi torniate a casa dai ruderi di Pompei.
Alcuni giorni io vi permetto di restare colà per informarvi degli
amici, ovvero per prendere delle disposizioni, nel caso che vi siano
rimasti migratori, che il medesimo destino discaccia dal patrio lido.
Io mi reco a dedicare qualche pia offerta nel tempio, com'è costume dei
naviganti, perchè favorevole gli Dei ci mandino il vento da far vela e
ci spingano la nave verso il divino Nilo, dove in un'agiata casa i miei
vi tratteranno con ogni sorta di premure, finchè Pallade in seguito non
vi erigerà la propria abitazione. Ma tosto che sarò a casa, mi farò
dipingere da un pittore, che ben ne esegua il lavoro con arte, due
preziosi quadri, indove si ammirino la città sprofondantesi col monte
che vomita fiamme e la mia nave, così come i celesti me l'hanno tratta
fuori dal gorgo vorticoso. Io voglio ch'ei ben mi riproduca questi
quadri, e l'uno consacrerò colà nel tempio di Minerva, l'altro nel
tempio d'Iside, dov'esso si eleva alto presso Canopo sulla gialliccia
pianura di sabbia».
 
E qui discesero la sassosa scala del palazzo, che s'incurvava a mo' di
porto intorno ai rossi scogli dell'isola. Lento seguiva il vecchio;
tenendosi per mano, i due scendevano, e innanzi a loro saltellava
rapido il roseo fanciullo, simile nell'elegante figura al ricciuto
Amore, che guida gl'innamorati nell'azzurra lontananza della vita.
 
Subito saliron sulla barca, che rapida corse verso la riva di Pompei
fendendo coi remi i tersi flutti. Ma la nave di Serapione passò
fremendo lo stretto di Capri, e ben presto approdò presso il bel tempio
di Minerva che s'innalzava accanto al lido del mare coi luccicanti
merli, segnale al nocchiero e sacro e da tutti onorato fin da tempo
immemorabile. Lo fondarono i coloni di Tafo, quando dalla terra
ellenica veleggiarono per edificare sulla spiaggia di Napoli e nei
campi di Cuma. E molti doni che per riconoscenza i nocchieri piamente
consacrarono colà come offerte, vasi di bronzo, ornamenti di bionda
ambra e tavole votive dipinte per l'improvviso scampo, si vedevano
intorno nel tempio accumulati presso ogni altare. Molti ve ne consacrò
il vecchio, distribuendo ai sacerdoti ricchi doni di oro e preziosi
drappi di festa.
 
Erano già passati otto giorni; quando però giunse il nono e trascorse e
già Elio tramontava in sulla sera, ecco, la barca si allontanò dal lido
di Pompei. Con una gagliarda corsa passò daccanto agli scogli dell'alta
Sorrento e Serapione la vide con piacere accostarsi. Euforione
sorreggeva tra le mani la curva urna di bella forma campana, che lungi
risplendeva rossa, di luccicante argilla ed ornata di leggiadre figure.
Perchè della sacra cenere di Pompei Ione vi aveva dentro raccolto la
polvere, qual funebre ricordo della patria. E adesso invece dei lari,
invece del fuoco del focolare, presero seco la polvere nell'orciuolo,
per metterlo un giorno nella nuova patria, religiosamente, come
segnacolo della propria abitazione.
 
Serapione con gioia guidò subito sulla sua nave gl'innamorati, perchè
più gagliardo spirava il vento di ponente col fresco della sera. I
bruni figli dell'Egitto sollevarono ora le ancore pieni di desiderio,
mentre il vento riempiva e gonfiava le vele. E la nera nave prese la corsa come il migrante Ibi.

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