2015년 6월 1일 월요일

Passeggiate per l'Italia 24

Passeggiate per l'Italia 24


Era già sera: il sole già tramontava di là alla roccia lungisplendente
di Ponza, svanendo in un vapore di porpora con magnificenza e
grandezza, come si spegne la vita dei popoli e delle età, spargendo
sulla tarda generazione ancora un chiarore crepuscolare. Sempre più
calma diveniva la terra, e già si spegnevano i monti di Sorrento e di
là già si offuscava dolcemente e impallidiva l'alto Vesuvio. Ed essi
sedevano a bordo tenendosi per mano e guardavano indietro placidamente,
finchè disparve ai loro occhi la patria sepolta.
 
«Addio, Pompei! Addio o sacre tombe!» Così gridavano da bordo Ione,
Euforione, Ion. «Addio, Pompei!» e correva fremendo il naviglio
lontano e sempre più lontano nella vita. E scese la notte, magnifico
scintillava a ponente Espero, e le Ore celesti accesero subito
nell'azzurro la lampada degli Dei Orione, mentre le stelle dal cielo
con dolce scintillio mandavano giù sulla nave i loro raggi benigni.
 
 
 
 
NOTA DELL'AUTORE
 
 
Il candelabro, che forma il nucleo di questo poemetto, fu, com'è noto,
scavato nella casa di Arrio Diomede. Ora si trova al Museo di Napoli.
Io l'ho rifatto alquanto in ciò che costituisce l'essenziale di questi
canti, attribuendogli lampade di mia propria invenzione. Quelle che gli
sono appiccicate nel Museo sono altrimenti conformate; l'una è senza
figure, l'altra è adorna di due aquile, la terza presenta una figura
di toro a metà e alla quarta infine servono come anse d'ornamento
due delfini. Mi si vorrà scusare, quando si saprà che queste lampade
non appartenevano originariamente al candelabro, ma gli sono state
appiccate ad arbitrio. Le lampade primitive non si ritrovarono.
 
La figura del grazioso bronzo si trova nella Collezione del
Museo Borbonico, e il lettore non si annoi della dolce fatica di
scartabellare in quei volumi, finchè non l'avrà trovato. Egli sarà per
lo meno largamente rimunerato dalla quantità dei magnifici oggetti,
dovesse anche affaticarvisi intorno.
 
Coloro che hanno visitato la Pompei di oggi, non si meraviglino che
io abbia avvicinato il mare alle mura dell'antica città, poichè così
era il suo letto alla foce del Sarno, mentre dagli odierni avanzi di
Pompei il mare s'è ritirato d'un miglio in seguito al riempimento di
cenere, di lapillo e di lava. Del porto di Pompei parlano Floro, Livio
e Strabone; esso serviva di emporio anche a Nola, a Nocera e ad Acerra.
 
L'antico nome dell'isola d'Ischia era Enaria; io però (alla fine
del I Canto) ho conservato il nome odierno perchè più facilmente
s'intendesse.
 
Da ultimo ricordo che nella casa di Arrio Diomede, ancor sempre la
più bella di quelle finora scavate, sono stati ritrovati più di trenta
scheletri. Di questi diciotto si scoprirono nella galleria sotterranea,
uomini, donne e fanciulli: essi tutti avevano il volto coperto d'un
panno, segno questo di abbandono e di rassegnazione. Presso di loro
si ritrovarono collane, anelli, gemme e monete. Si scoprì il padrone
di casa accanto ad uno schiavo, presso la porta che conduceva alla
campagna: teneva una chiave in mano, mentre lo schiavo aveva preso con
sè molte monete di oro in un sacchetto di tela con l'effige di Nerone,
di Vespasiano e di Tito, e molte altre di argento e di rame. Pochi anni
da che erano stati scritti questi canti, il signor Fiorelli, direttore
degli scavi di Pompei, fece meravigliare il mondo con alcune immagini
vere e proprie di Pompeiani che nella catastrofe avevano trovato la
morte nella cenere. Egli le trasse alla luce del giorno con un metodo
per quanto semplice altrettanto geniale, versando del gesso nelle
incavature che le loro carni avevano lasciato sotto la cenere rappresa.
Così egli ottenne solidamente rappresentate come impronte plastiche le
figure di quegli infelici e il momento stesso e perfino l'espressione
della morte. Chi vide queste statue, le più meravigliose fra tutte
quelle che il mondo possiede, le avrà osservate non senza profonda
commozione, poichè quello di cui solo la fantasia del poeta può dare
un'idea, ei vide in piena e materiale naturalezza e realtà e come un
testimonio del momento.
 
Al lettore sarà nota la descrizione dell'eruzione del Vesuvio in Plinio
e Dione, e innanzi tutto egli si ricorderà degli _Ultimi giorni di
Pompei_ del BULWER. Una estesa descrizione di questa catastrofe non fu
toccata in questo poemetto, ed io ho lasciato alla Musa d'imitare quasi
l'esempio di quegl'infelici nella cripta della casa di Arrio Diomede;
poichè, incominciando a cadere la spaventevole pioggia di cenere, essa
si copre il volto presso il rovesciato candelabro ovvero le lampade di
Euforione, probabilmente per timore di essere soffocata, o almeno per
una disperazione e rassegnazione più moderna che antica.
 
 
 
 
INDICE
 
 
_Notizie sull'Autore_ Pag. 3
Girgenti » 11
I canti popolari siciliani » 69
EUPHORION (Poemetto pompeiano)
_Prolusione del Traduttore_ » 119
Canto I. _Oneiro_ » 131
» II. _Amore e Psiche_ » 157
» III. _Pallade Atena_ » 177
» IV. _Tanato ed Eirene_ » 205
Nota dell'Autore » 231
 
 
 
 
NOTE:
 
 
[1] _Canti popolari siciliani_, raccolti ed illustrati da LEONARDO
VIGO, Catania 1857.
 
[2] Questo splendido luogo ha alcune particolarità di linguaggio che
meritano d'essere notate. Mentre tutto intorno il popolo dice _domani_,
a Capranica dice _crai_ (da _cras_) ed invece di dopodomani, _biscrai_.
 
[3] Cfr. WIELAND negli _Abderiti_.
 
[4] Evidentemente quando il Gregorovius visitava Pompei e con l'anima
di artista interrogava i ruderi della civiltà passata, la casa
più bella ed elegante che colpisse l'immaginazione e la fantasia
del visitatore, era quella del liberto M. Arrio Diomede, posta in
capo al villaggio suburbano Augusto Felice. Difatti, quel grande
quadrato bislungo, scavato in tufo bigio ed in pietre vulcaniche, che
racchiudeva un vago giardino, un vestibolo dalle 14 colonne doriche,
e portici e terme e quanto si può immaginare di più sfarzoso ed
abbagliante per soddisfare alla umana ambizione, offre tuttora allo
sguardo uno spettacolo assai grandioso.
 
Se non che, oggidì, un'altra casa, da cui, certamente, il Gregorovius
avrebbe saputo attingere la sua materia di ispirazione per una scena
idillica o qualcosa di simile, gli contende, a giusta ragione, il
primato. È l'abitazione di una famiglia di Vettii, venuta fuori
alla luce negli scavi del 1894-95, che occupa il lato sud dell'isola
adiacente dal lato est a quella della casa «_del Laberinto_». Ricca
di decorazioni e pitture dell'ultimo stile, fatte con gusto squisito
e con finezza di particolari; adorna di candidi marmi che paiono
ancora animarla; ricinta d'un peristilio unico nel suo genere per la
gran copia di sculture figurate ed ornamentali conservateci; fornita
d'ogni sorta di comodità che l'arte e l'ingegno sanno escogitare per
rendere più delizioso ed ameno il soggiorno dei mortali, essa desta
un interesse ben più grande delle altre e supera, sotto vari aspetti,
quella di Diomede, che lo storico insigne scelse a teatro delle gesta
amorose del suo Euforione.
 
Chi desideri ampie e dettagliate notizie di questa importante scoperta,
legga la dotta relazione del Mau inserita nelle _Mittheilungen des
Kaiserliches Deutsches Archeologischen Instituts_, Roem. Abtheilung.
Bd. XI 1896, e la descrizione riccamente illustrata che ne fa il prof.
SOGLIANO nei _Monumenti antichi della Accademia dei Lincei_. (_N. d.
T._)
 
[5] L'immagine della vite come quella della pantera si può dire non
iscompagnino quasi mai la figurazione di Dionisio o Bacco nelle pitture
pompeiane. Così, per citarne un esempio, nella stessa casa dei Vettii,
il dio del vino, secondo l'intenzione dell'artista che ha voluto
riprodurre il trionfo di Dionisio, s'incontra sdraiato sopra un carro
a quattro ruote in guisa di dischi tirato da due caproni, sul quale
è stata messa sopra una pelle di pantera una _kline_ senza piedi col
basso fulcro avanti. E altrove, nel gruppo di Bacco ed Arianna, il
primo è vestito di nebride e di una veste paonazza svolazzante dietro
la schiena, con stivali alti ai piedi e lungo tirso sulla spalla destra
ed è coronato di vite.
 
Del resto, in tutte le antiche rappresentazioni mitologiche, Bacco si
dipinge qual fresco e rubicondo giovane (il _puer aeternus_ ovidiano)
con bionda capigliatura, una corona di ellera sulle chiome, con pelle
di pantera cascante sugli omeri, assiso sopra un cocchio a guisa di
botte tirato da tigri o da pantere, mostrando in una mano una bacchetta
cinta di pampini di vite (tirso) e nell'altra additando grappoli di uva
matura. Di qui le Baccanti nelle solennità religiose in onore del nume
si adornavano del pari della pelle di tigre e del tirso. (_N. d. T._)
 
[6] Di consueto, in quasi tutti gli scritti intorno ad Esopo, si
dipinge il favolista come un mostro di bruttezza, dalla statura piccola
e deforme; ma, molto probabilmente, questa pittura va dovuta anche
all'ingegno bislacco di quel monaco di Costantinopoli, che visse verso
la metà del secolo XIV, e che per il primo premise alla collezione
delle favole esopiane una biografia, nella quale volle accozzare alcuni
fatti, la maggior parte di una falsità stravagante e puerile. (_N. d.
T._)
 
[7] Giova qui riassumere i criteri fondamentali su cui poggia la teoria
estetica dell'arte del Gregorovius.
 
L'arte non è fine a sè stessa; la formula _l'arte per l'arte_ è un non
senso. L'arte, non animata dal soffio di nobili idealità, non ha valore
alcuno. Essa invece, quando seconda gl'impulsi generosi del cuore o i
palpiti ardenti di un ideale, sublima l'individuo, lo trasporta in una
beata contemplazione di gloria e di amore, gli prolunga ed abbellisce
la vita. Come, sotto l'impressione di un forte dolore, l'animo umano
è capace di attingere dal dolore stesso una gagliarda virtù; così,
individuandosi il soggettivo artistico in una passione, l'opera d'arte
verrà fuori più eloquente e suggestiva, se passata per il filtro delle
sofferenze morali.
 
All'arte va congiunta la più grande e nobile missione umana: non
solo solleva lo spirito, infondendogli entusiasmo e vigoria e quasi
indiandolo, ma ancora lo distriga dagli abietti ceppi del giogo, lo
redime dall'opprimente servitù, gli dona quella libertà, nel cui seno
è il segreto delle più eccelse cose. La libertà è infatti il suggello
e la consacrazione delle opere: per essa le opere ricevono uno stampo
durevole di forza e bellezza, per essa l'alato genio vi proietta sopra
i suoi sprazzi di luce.
 
L'arte poi non è soltanto quella che noi ammiriamo riflessa e come
emanante da una statua di Giove olimpico, grave e maestoso seduto sul
trono: anche un candelabro, una brocca orlata di figure, che servono
agli usi quotidiani della vita, entrano nei dominî dell'arte, purchè la
mano che li modellò sia stata mossa e diretta da una generosa passione,
da un plausibile intento. Gli è che il fine dell'arte non consiste
tanto nel dilettare, quanto nel riuscire utile in qualche cosa: essa
infatti, più che parlare e sedurre i sensi, deve conquidere i cuori; il
concetto del bene dev'essere contemperato e frammisto in larga misura
all'altro del bello.
 
In fondo, la teoria artistica del Gregorovius è calcata sulla dottrina
di quegli esteti, i quali sostengono a buon dritto che il principio
_in arte libertas_ debba intendersi con una certa discrezione, e che
le arti produttive del bello debbano essere subordinate al sentimento
morale e religioso dell'ambiente. Senza dubbio l'arte deve muovere gli
affetti, e muoverli in modo che arrechi piacere; ma questo piacere fa
d'uopo che sia per essa più mezzo che fine. Inoltre, l'arte sarà vera
solo quando sarà utile agli uomini, ed utile quando sarà conforme alla verità, essendo questa il suo principio.

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