2015년 6월 2일 화요일

Storia degli Esseni 21

Storia degli Esseni 21


Deh, gli fan dire (Talmud Tract Irrubin) al Signore; deh non giudicarmi come
gli abitanti delle grandi città, tra i quali è violenza, lussuria
e maldicenza; ma usciamo ai campi, (notate queste parole) ove ti
mostrerò i cultori della tua legge che meditano del continuo e tra
angustie la tua parola, mattiniamo alle vigne, cioè (continua il
Talmud) ai tempj ed agli studi dove vedremo la vite fiorire, cioè la
Bibbia coltivarsi: e così via discorrendo. Ma quali parole quelle
che attribuisce alle città i vizi discorsi! E quanto bene consuonano
con quel che dice Filone a proposito del ritiro e delle solitudini
dei Terapeuti; maravigliosa consonanza in verità! _Primieramente_,
dice Filone, _abitano in campagna e schivano le città grandi, a
cagione del mal costume che in esse regna per ordinario, persuasi che
siccome si contrae una malattia col respirare un aria infetta, così
i mali esempj degli abitanti fanno impressione indelebile sull’animo
nostro_. Ma io dissi anche gli usi generalissimi, anche istituzioni
permanenti. Potrò io dimostrarlo? Sarei io in grado di provarvi che
tanto spinsero oltre l’amore pei campi, da farne il prediletto, il
durevole, il venerato soggiorno? Facilmente, solo che io vi rammenti
la benedizione di _Meen Scebach_. Che cosa è questa? Voi lo sapete,
perciocchè l’udite la vigilia di ogni sabato. È quella benedizione
che dopo la preghiera sommessa pronunzia il Ministro e che non è,
a veder bene, che un compendio o sommario della istessa _Amida_.
Che cosa è questa benedizione e perchè istituita? Chiedetene al
Talmud, ai Ritualisti, chiedetene ad ognuno, ed ognuno vi dirà quello
che andiamo cercando; cioè vi dirà che ai tempi misnici, ai tempi
talmudici gli oratorii, gli studi sorgevano tutti in mezzo ai campi,
lontano dall’abitato, nella solitudine e nel silenzio; vi diranno che
all’orazione vespertina convenivano da ogni parte i fedeli, che parte
solerti giungevano a tempo e la preghiera cominciavano e finivano col
popolo tutto, parte trattenuti dai negozi o dal cammino protraevano le
loro orazioni alquanto più tardi. Perché non rimanessero soli costoro
fuori dell’abitato, che cosa fecero? Istituirono il _Meen Scebah_ che
mandando un poco più alla lunga la orazione offriva agio ai ritardanti
di terminare prima che il popolo si partisse. Un gran fatto emerge da
tutto questo; ed è la presenza delle antiche sinagoghe e dei pubblici
studi nella solitudine; ch’è quanto dire un nuovo riscontro col costume
presso che generale degli Esseni, dei Terapeuti.
 
Io non vi dirò adesso ciò che scrisse Beniamino di Tudela nelle sue
peregrinazioni. Ebbi luogo di ricordarvelo quando voleva provare la
provenienza Recabitica del nostro Istituto, e spero che non l’avrete
obliato. Narra Beniamino di aver veduto nel Iemen tra le numerose
popolazioni israelitiche di quella regione, uomini, Dottori, Asceti
che perseveravano nell’antico costume degli Esseni, nella solitudine e
nel ritiro. Non vi dirò nemmeno come i nostri meno antichi moralisti,
p. e., il _Hobod Allebabod_, che fu non ha guari trasferito in
italiano, il Rescit hohma di un Cabbalista discepolo del Rabbi Isaac
Loria, facciano tutti e due menzione di una scuola di religiosi che
predilegeva l’isolamento e la vita anacoretica, l’ultimo in ispecie
che fa menzione siccome tale di un _Rabbi Abraham apparus_ che vita
menava non disforme da quella più sopra descritta. Queste cose
pretermetterò volentieri poichè ho fretta di giungere all’ultima
quistione; non ultima però al certo per lo interesse che desta, ed
è quest’una. Rimane egli tra noi tuttavia traccia veruna di questi
antichissimi costumi e degli Esseni e di una frazione dei Dottori?
cioè, v’è nulla che tragga l’Israelita dal romore delle città per
levare la sua mente colla vista della natura, col silenzio, colla
maestà del creato, a pensieri più celestiali? Io ardisco dire che vi
è, vi è almeno nei libri, conciossiachè e belle e nobili istituzioni
sien cadute fra noi in disuso, ed un gran brivido mi mettesse un
giorno per l’ossa il _Lamennais_, quando lessi nel suo Romanzo _les
Amshaspandas et les Darvands_ quella frase terribile _les Hébreux ont
perdu le sens de leurs institutions_. Dopo avere tante cose perduto,
perdere ancora il _senso delle proprie istituzioni_ pareami troppo
orribile cosa in verità; e vedendo tanti e tanti inconsci assolutamente
di aver perduto il senso delle nostre istituzioni, pensai non forse
avvenisse nella perdita del senso morale, come avviene nei sensi del
corpo che non sappiamo d’averla perduta. Fatto è che la memoria, che
la reliquia esiste; ed esiste in un uso a noi incognito, ma che pure
praticato fu dai Talmudisti, e che solo fu in progresso ed è forse in
qualche parte ancor praticato dalla scuola Cabbalistica, io vo dire il
_Ricevimento del sabato_. Che cosa è ora? Egli è ora pei più un canto
incompreso, egli è per pochissimi lo stare per qualche istante ritto
colla persona, l’inclinare un poco a destra, un poco a sinistra, un
leggiero dimenare di capo; e tutto è detto. Che cosa era e che cosa
dovria essere? Era purificarsi anzi tratto il corpo, era vestirsi di
candidissimi pannilini, (vi ricordi il bianco uniforme dei Nazarei,
le stole dei sacerdoti, le candide vesti degli Esseni, e tra poco,
vedrete anco le bianche insegne degli Esseni moderni, dei Cabbalisti,)
e sopratutto egli era uscire all’aperto, rinfrancare lo spirito coi
vastissimi orizzonti, colle aure purissime, colla maestà del tramonto,
rannodare le antichissime tradizioni patriarcali, salutare il sabato
imminente, la sposa mistica che s’avvicina. Così fecero i Talmudisti
quando dicevano l’uno all’altro _esciamo ad incontrare la sposa_. Così
il verace continuatore delle loro tradizioni l’_Aari_, quando per
attestato dei suoi discepoli (conciossiachè egli o poco o nulla abbia
scritto), vestito di quattro abiti bianchi a guisa dei sacerdoti,
traeva fuori per le campagne di Safet, città boreale di Palestina, e
alternando i salmi di David e il mistico poetare, riceveva il sabato.
Così a tempi più tardi i Dottori di Sionne perseverando nell’uso antico
cercavano pei campi la mistica sposa. L’autore del _Hemdat iamim_,
Cabbalista se altri fu mai, gran scrittore, gran moralista, dolorando
come divelto dalla cara Sionne non potesse dar opera, come l’usato,
all’amabile rito, così si esprime in suon di lamento: _e nei giorni del
mio esilio quando la sorte mi divelse dalla Eredità del Signore, nei
luoghi ove ramingai pellegrino, non fummi per molte cause conceduto
di proseguire nell’antico costume; sibbene questo io faceva: traeva
fuori al vestibolo della sinagoga ove vasto e libero ti si schiude
l’orizzonte, ed atto all’accoglienza della sposa, e colà io leggeva il
Ricevimento del sabato._ Avete inteso? È l’aria aperta, è il libero
orizzonte, è la vista del creato che sta a cuore al pio Dottore; egli
a questo spediente si appiglia non potendo far meglio: ma ciò ch’ei
fare vorrebbe, ei lo ha detto, ei lo dirà anche meglio nelle parole
che seguono: _Ed ove ti sia conceduto, ascendi sulla cima di alta
montagna, provvedi che il luogo sia puro, e colà recita il Ricevimento
del sabato._ Quanto diversi i tempi presenti! Le persecuzioni, le
reclusioni, le tirannie fecero certo gran male e più male alle anime
che ai corpi, perciocchè se la Religione si conservava nei Ghetti, a
caro prezzo si conservava; a prezzo di divenire rachitica, atrofica,
impotente, ingenerosa, a prezzo di perdere quel fare nobile, grandioso,
poetico, sentimentale che le è proprio. I Ghetti caddero, è pur vero;
e gli uomini ne uscirono frettolosi, ma vi dimenticarono preziosissima
gemma, _la Religione_. La Religione è sempre in Ghetto; e sempre tra
le angustie, tra le tenebre, tra la melma di quei schifosi meati. Meno
infelici i soggetti dello Islamismo! i quali le pratiche religiose
spiegano impunemente alla luce del sole; i quali possono mostrare
davvero che sia, che possa la fede ebraica. Il Fariseo Cabbalista che
ascende la montagna per salutare il giorno santo, è cosa grandiosa
per chi la intende, per chi _non ha perduto il senso delle nostre
istituzioni_; è più grande di Byron che si affida su barca leggera
al mar tempestoso per essere spettatore e forse vittima della natura
infuriata, che vuol assaggiare la morte tanto per poterla descrivere;
è più grande di Iacopo, la creatura del Foscolo, che cerca per balzi e
dirupi emozioni fortissime. E perchè dico più grande? Perchè i poeti
cercan nella natura, nelle sue grandi scene, le sorgenti del Bello,
mentre i poeti teologi dell’Ebraismo ve lo recano, ve lo diffondono:
conciossiachè vi rechino, non vi cerchino le grandi idee ed i grandi
effetti; conciossiachè viva nel loro petto Dio creatore della natura,
fonte suprema del bello e del sublime; conciossiachè abbiano in petto
il tipo increato del Bello al cui raffronto sorgono giudici meglio
che spettatori del Bello creato. In una parola, i poeti ricevono il
raggio di Dio riflesso dalla natura, i poeti teologi dell’Ebraismo
diffondono sulla natura il divin raggio riflesso dall’anima loro.La
natura divinizza i poetinon è così? ma i poeti teologi dell’Ebraismo
divinizzano la natura.
 
 
 
 
LEZIONE DECIMASECONDA.
 
 
Parecchie cose furonvi conte finora intorno agli Esseni. Oltre il
nome, l’origine, di cui a dilungo parlammo, sappiamo dove abitavanoil
mezzogiorno di Palestinasappiamo ancora, lo abbiam veduto nell’ultima
lezione, come abitavano, ch’è quanto dire solitari nella quiete dei
campi. Se queste cose come le avvenire, maggior tempo richiesero a
trattarsi che per avventura non sembra dicevole, lieve è lo scuoprirne
la causa. Ella è quel duplice e complessivo lavoro che noi imprendemmo,
e quel volere ad ogni passo, ad ogni nuovo elemento della loro
esistenza, trovare nuova conferma a quel postulato supremo che vi
enunciai dapprincipio, la restituzione dell’Essenato a quella scuola
più vasta che s’intitola dai Farisei; e più specialmente a quella
frazione che dagli altri si distingueva e per l’austerità della vita
e per la sublimità degli studj. Rinunciare a questo scopo nobilissimo
sarebbe certo ridurre a più angusti termini il nostro lavoro, ma
sarebbe altresì rinunciare a quel benchè modesto resultato che ci è
concesso sperare dalle nostre fatiche, a quell’unico titolo che possono
queste lezioni vantare alla estimazione dei dotti. Ella è dunque
stasera una nuova circostanza di lor vita esteriore che noi dobbiamo
apprezzare. È quella predilezione e quell’amore che gli Esseni ebber
mai sempre per le piagge, per le rive dei fiumi. Se meno gravi, se
meno concordi fossero gli attestati degli antichi autori, io dubiterei
non forse il caso meglio che la elezione avesseli per ordinario fatto
stanziare sulla ripa dei fiumi. Ma il potremmo pensare, dopo che
_Plinio e Filone_ abbiamo ascoltato? Che dice Plinio? Plinio parla
specialmente degli Esseni di Palestina, e quanto ei dice al capitolo 5
del libro XVII solo ad essi dobbiam riferire. Ora, se non m’inganno,
io ebbi luogo di accennarvi in altra lezione, quanto Plinio ci narri
in proposito. Egli asserisce come gli Esseni vivessero tutti quanti in
riva al Lago Asfaltide ossia Mar Morto, e _solo_ egli aggiunge _tanto
se ne discostavano quanto tornava indispensabile a cansare le mefitiche
esalazioni di quel lago insalubre_. Or che sarà se intenderete Filone
lo storico dei Terapeuti dirci altrettanto dei suoi solitari? Certo
direte che non è senza grave cagione che così accadeva. Or bene; aprite
Filone nella _Vita contemplativa_, e poichè vi avrà dette come taluni
di quei religiosi dimorassero qualche volta nelle città, queste parole
nonostante ne intenderete apertissime. _Ma i principali_, dice Filone,
_si ritirano quasi tutti in un luogo che hanno fuori di Alessandria
vicino al Lago Mereotide sopra un’eminenza, che fa il luogo securo e
dove l’aria è salubre_. E qui i Terapeuti non potrebbero mostrarsi più
che non si mostrino conformi ai loro fratelli palestinesi. Com’essi
parte vivono in società e parte in ritiro, com’essi amano le campagne,
i luoghi salubri, sopratutto com’essi ancora prediligono le rive. Havvi
a quest’uso un perchè? Erano eglino gli Esseni, i Terapeuti nella
scelta di questi luoghi guidati da un principio, da una tradizione, da
un esempio che glieli additasse? La storia, il culto, la religione,
la letteratura ebraica ci rispondono propizi. Non dirò come le acque
fossero sempre simbolo, immagine venerandissima in bocca ai profeti,
simbolo d’Ispirazione quando alludono alla futura effusione dello
spirito, simbolo di Beatitudine quando Dio è presentato qual sorgente
perenne di acque vive, simbolo di Dottrina quando _spargansi_, dice
Salomone, _le tue acque per ogni dove_, intendendo della propagazione
dei buoni studi. Non dirò nemmeno come non solo atto si stimano a
lavare di ogni corporea impurità, d’onde le infinite e multiformi
abluzioni di ogni maniera immondizia, ma bensì la virtù lor si conceda
altresì di santificare e predisporre ai più nobili offici di religione,
siccome vediamo aperto nelle ripetute abluzioni del sommo Pontefice nel
giorno di Espiazione. Non dirò come la vista del mare, la navigazione
si dican capaci di preparare gli animi all’acquisizione del (Hassidut),
e già sappiamo gli Esseni dirsi _Hasidim_ d’onde l’adagio _i marinari
per la massima parte essere Hasidim_. Non dirò infine come le rive
fossero dai Dottori desiderate dopo la Terra Santa, siccome il più puro
ricetto a ospitarne le ossa, siccome vediamo in Ribbi Meir, il quale
per attestato del Talmud di Gerusalemme _essendosi addormentato_ (bella
metafora[55] per dir trapassato!) in Assia, luogo come altra volta
intendesse dell’Asia minore, lasciò detto ai Discepoli _Deh! vogliate
seppellirmi in riva al mare_. Che se questo brevemente trapasso per non
tediare, come potrei tacere di cose che tanto a questo sovrastano per
gravità? Come tacere che per dottrina tradizionale, per esempi grandi
cospicui della Bibbia, il solo luogo atto dopo la terra santa alla
fruizione di profezia, sono i lidi del mare o le rive dei fiumi? Come
non dire che se Ezechiele profetò, tutto che fosse oltra i confini di
Palestina, ei fu solo perchè, dice la tradizione, acconciamente vi si
dispose stando in luogo purissimo cioè sulla riva del fiume _Chebar_?

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