2015년 6월 2일 화요일

Storia degli Esseni 22

Storia degli Esseni 22


Come non dire che se Daniel ebbe visione, e non in Palestina, ei
fu, dice egli stesso al cap. VIII, sul fiume Ulai? Come tacere del
capitolo X dove, se ci si narra l’ultima sua visione, ella è pure in
riva ad un fiume, il fiume Tigri? Come tacere che se festa vi era in
cui si stimava potere l’ispirazione conseguire, quella si era in cui le
libazioni di acqua si praticavano;[56] non troppo dissimile da quanto i
Pagani favoleggiarono intorno la profetica virtù dell’onda _Castalia_,
dell’_Ippocrene_, dell’_Aganippe_ e del _Lebitrio_? Come non ricordare
ciò che dice Massimo Tirio parlando dell’oracolo Jonico. _Lo Ipopteta_,
ei dice, _della Jonia dopo avere attinto e bevuto l’acqua del sacro
fonte predice lo avvenire_? E come infine tacere dell’atto più
importante della monarchia israelitica della unzione del nuovo Re? La
qual cerimonia, è la Bibbia che lo attesta, si faceva e doveva sempre
farsi, aggiunge il Talmud (in Oraiot), sulla riva di un fiume, in
quella guisa appunto che vediamo nei Re praticato, in Salomone, il
quale per ordine di Davide condotto presso a _Ghihon_, piccola riviera
che scorreva vicino a Solima, vi fu solennemente sacrato e proclamato
monarca? Ma quanto non riescono al confronto insignificanti cotesti
esempi ove ad un fatto grande significantissimo si riferiscano, di cui
la Tradizione ci ha serbato memoria! Perocchè tra i Pagani, nei tempj
loro più venerandi, negli oracoli più famosi, non altrove, sorgesse
l’altare, non altrove si locasse la Pila, a inspirarsi del Nume che
colà abitava se non sull’orifizio di un pozzo, questo sapevamo e per
storici antichi e per moderni: sapevamlo sopratutto dal _Clavier_
(_Les oracles des anciens_) di cui non ha guari scorsi le pagine, ove
in una dotta Memoria presentata all’Accademia sugli _Oracoli degli
antichi_ tolse a dimostrare con squisita erudizione, il fatto da me
accennato nei due più famigerati tempj ed oracoli di Grecia antica,
in quello cioè antichissimo di Dodona e in quello di Delfo. Il
sapevamo da Origene il quale dice la Pitia essere posta sull’orifizio
della fonte Castalia; da Euripide nella _Ifigenia in Tauride_, dove
facendo Apollo parlare, sì gli fa dire: _Il mio Santuario divino sulla
corrente Castalia_.Da Temistio che scrive: _Gli Anfizioni furono
i primi fondatori di Delfo, un pastore del Parnaso sendosi trovato
invaso dallo spirito profetico del fonte Castalio_; da Nonnio nei
suoi Dionisiaci, che disse: _L’acqua divina della previdente Castalia
era in ebullizione_; da Ovidio che all’antro della Pitia dà il nome
di _antro Castalio_; e infine da Pausania che così si esprime nella
descrizione di Delfo: _Volgendo a sinistra all’uscire dal tempio di
Delfo voi trovate la tomba di Neottolemo; un poco più in alto si vede
una pietra che non è grandissima. È unta con olio; ogni giorno ed i
giorni di festa è coperta di lana grassa. Questa pietra è, dicesi,
quella che fu fatta inghiottire a Saturno invece del figlio e che poi
in questo luogo rejesse. Ritornando di là verso il tempio, tu osservi
la fontana Cassoti_ (altro nome della sorgente Castalia) _essa è
circondata di un muro poco alto, in cui è praticata una porta per cui
si crede che quest’acqua si conduce per vie sotterranee nel santuario
del Dio e ch’è dessa che ispira le donne che vaticinano lo avvenire_.
Così tutti gli scrittori summentovati dell’oracolo Delfico. Possiamo
dire altrettanto di quel di Dodona? Sì, se portiam fede a Servio nel
commento a Virgilio, il quale al libro terzo dell’Eneide sopra il
v. 406 così si esprime: _Questo paese di Dodona è sui confini della
Etolia. Gli antichi vi consacrarono un tempio a Giove ed a Venere.
Presso al tempio, immane quercia sorgeva, a quanto sen dice, dalle cui
radici una fonte scaturiva, il cui mormorio per divina ispirazione una
vecchia donna per nome Pelia interpretava. Ex cuius radicibus fons
manabat qui suo murmure instinctu deorum diversis oracula reddebat_. E
questi furono i due più celebri oracoli della greca antichità, e questo
il modo dei loro responsi; nè da questi differirono altri infiniti,
comunque meno famosi; non quello dei Branchidi nell’Asia minore di
cui così favella Jamblico nel libro sui Misteri: _Una donna appo i
Branchidi predice lo avvenire, vuoi tenendo la verghetta in origine
donata da qualche Iddio, vuoi assisa sopra il tripode, forse ancora
i suoi piedi o il lembo del suo vestito stanno immersi nell’acqua,
e infine il Dio a lei si comunica col vapore di quest’acqua_. Nè
quello differiva dei _Colofoni_, al dire di Jamblico, che ne discorre
in questa guisa: _Quanto all’oracolo dei Colofoni, ognuno conviene
che egli è per mezzo dell’acqua che ci si annunzia lo avvenire. Una
fonte vi ha in un edifizio sotterraneo. In certa notte dopo parecchie
cerimonie e sacrifizj, il Profeta bee l’acqua del fonte, e non veduto
da quelli che vennero a consultarlo predice lo avvenire_.
 
Ma quello che colmare vi dovrà di stupore, quello che io temo forte
vi sarà riuscito sinora ignoto, siccome quello che poco eziandio è
divulgato tra i cultori delle lettere sacre, egli è questo fatto
curiosissimo, il fatto cioè che non altrove era situato il grande
altare dei sacrifizj nel tempio di Dio, tranne _sulla bocca di un
pozzo_, pozzo, dice Rascì nel Talmud (14º di _Succa_), che riceveva
tutte le libazioni che si versavano sull’altare; pozzo che si chiama
_Scitin_ nel Talmud e che si proclama antico quanto il mondo, _Scitin
nibrau miscescet ieme berescit_, d’onde il curioso anagramma berescit
_bera-scit_; pozzo, secondo i dottori accennato da Isaia, ove
paragonando Israele ad una vigna dice: _e vi fabbricò il suo padrone
una torre, e questo è l’altare_; un pozzo vi scavò, _e questo è la
cavità sottostante_; pozzo, interpreta il _Moarscià_, ch’era come la
scaturigine di tutte le acque mondiali, ristretta, contenuta ai piedi
dell’altare, sì perchè (stupendo pensiero) imponendovisi sopra quasi
suggello l’altare di Dio, rispettin le acque i naturali confini, nè più
irrompino a inondare la terra; sì perchè vengano benedette le acque
dalla sorgente di ogni benedizione, e le libazioni scorrano all’oceano
quasi sangue novello perpetuamente infuso nelle arterie del Globo. E
questa è parlantissima analogia oltre le altre già menzionate, oltre
altri fatti in gran numero che ometto per brevità col costume che
vediamo prevalso tra gli Esseni di ogni colore di abitare le rive. Ma
quanto non amerei che più a lungo mi fosse dato d’insistere sull’ultimo
e supremo fatto da me accennato di soprail pozzo sacro su cui poggiava
l’altare! Non solo i tempj e gli oracoli greci potrei chiamare, come
dissi, a rassegna, ma molte altre idee con questa principalissima
concomitanti potrei accordare, vedreste le idee dei Pagani su quel
pozzo, su quelle acque poco procedere dissimili da quelle da _Moarscià_
enunciate, comecchè il solo genio delle dottrine talmudiche gliele
abbia ispirate; potrei mostrarvi come ogni qual volta si dava ai
Pagani un pozzo profetico, non mancava un idea, una tradizione che lo
accompagnasse, voglio dire la credenza comune in Grecia, comune in
Fenicia che da quell’orifizio, da quel condotto, fossero tutte scolate
e tutte inghiottite le acque del Diluvio quando si ritirarono; e che il
tempio e l’altare e l’oracolo quivi eretto, fosse un perpetuo religioso
scongiuro contro le onde frementi; vorrei dirvi come quell’intimo
comunicare dello altare di Dio colla profondità della terra, quel
veicolo che univa l’ara alle viscere più segrete del Globo, riceva lume
e tolga senso principalmente dalle dottrine dei Pitagorici. I quali
non solo chiamavano il fuoco centrale _torre di fortezza_ (Pyrgos)
come i dottori appunto, cosa sorprendente! chiamarono il centro della
terra il sito dell’altare col nome _Migdal_, _torre di fortezza_, ma
ciò che più monta chiamavano i Pitagorici quel centro stesso _altare
dell’universo_ come appunto nel centro della terra secondo i Dottori,
sorgeva l’altare e il fuoco perpetuo quasi vampa projetta e quasi
prolungamento del fuoco centrale di cui favellano i Pitagorici. Ma di
questo basti per ora; basti lo avere provato come nemmeno in questa
circostanza, in questo costume, nell’amor delle rive si dipartissero
gli Esseni dal comune pensare e dalle idee predominanti tra i
Farisei.[57]
 
Rimettiamoci dunque in cammino e procediamo spediti. Che cosa abbiam
fatto sinora? si può dire senza errore che poco più abbiam fatto
fuorchè aggirarci intorno agli Esseni senza mai investirli. Nome,
Origine, Patria, Regione, Solitudine, Sito particolare, tutte cose
senza meno opportune, ma che non sono ancora gli Esseni. Tempo è che
gli Esseni stessi consideriamo più davvicino. Ma anche adesso conviene
procedere ordinatamente e a grado, conviene sapere se sono tutti
omogenei o in qualche parte diversi fra sè; in altri termini conviene
sapere se classi vi erano, e quali, e quante nel grande Istituto. E
qui non potrei senza colpa dissimularvi che le notizie che intorno
al subbietto ci son pervenute, procedono a senso mio così confuse e
talvolta eziandio così contraddittorie, che dura cosa è mettere ordine
e luce in tanta repugnanza di idee.
 
Voi non volete certo sobbarcarvi a una sottile disamina, nè io lo
esigo. Vi risparmierò dunque il Processo, vi risparmierò altresì i
considerandi della mia sentenza; questo solo vi dirò, che a quanto ho
potuto capire dal confronto dei Testi, due classificazioni debbono
ammettersi nel nostro Istituto. Notate che dico _due classificazioni_
e non _due classi_, dico due ordini di classi, due gradazioni,
due gerarchie. La prima riguarda la maggior o minor purità a cui
s’obbligavano nel contatto delle cose esteriori, e si deve intendere in
quel senso tutto _ritualistico e positivo_ a cui accennano i Trattati
sulla materia. E in quest’ordine d’idee, in questa gerarchia quattro
gradi o classi rammenta la storia in seno agli Esseni. E principalmente
ne favella Giuseppe nel libro secondo delle _Guerre Giudaiche_, dove
così si esprime: «V’ha d’essi secondo il tempo della loro professione
quattro differenti classi; e i più giovani sono talmente inferiori agli
anziani, che se accade che uno di classe più alta ne tocchi uno della
più bassa, convien che si lavi come se avesse toccato un incirconciso.»
Resta ora a parlar della seconda classificazione della seconda
gerarchia. Ma prima di procedere più oltre, e seguendo il nostro stile,
domandiamo a noi stessi: se egli è vero che gli Esseni non altro sono
che una frazione, la più sublime frazione dei Farisei, siccome per me
si estima; mestieri è pure che di questa quadruplice divisione non
solo appo i Farisei resti serbata memoria, ma che i Farisei stessi
a dirittura se l’approprino, voglio dire che di se stessi narrino i
Farisei ciò che degli Esseni i loro storici ci raccontano. Dov’è questa
menzione, e in qual guisa se la appropriano i Farisei? Voi comprendete
che ove la divisione esista realmente, laddove poi ai Farisei istessi
sia applicata, fatto non indifferente sia cotesto in verità, per la
identità da noi propugnata tra Essenato e Farisaismo. Ora dov’è la
quadruplice divisione? Voi la troverete a capello nel 2º capitolo di
_Haghiga_ dove leggerete le seguenti espressioni: _bigde am aarez,
medras lapparuschem, bigde paruscum medras leohele maaser scheni,
bigde, ooele maaser sceni medras leohele teruma, bigde ohele teruma,
medras lacodes, bigdes codes medras lehattat_.
 
Dove più cose sono da osservarsi; prima la _quadruplice_ gradazione
di purità rispondente ai quattro gradi di purità nella società degli
Esseni, per ciò che riguarda il reciproco contatto; e dico quattro
nel testo Misnico; giacchè ognuno comprende come coloro che sono al
di fuori del farisato, cioè _bigde amaarez_, non possano ammettersi
in conto. Il fatto poi dalla Misna rivelatoci come vi fossero uomini
tra i Farisei che senza appartenere al ceto sacerdotale, come Iohanan
Ben Gudgheda ivi stesso rammemorato, od anche al ceto sacerdotale
appartenendo come Iose ben Ioezer che vien chiamato col nome
significantissimo di _Hasid_, come dico, tali vi fossero che in tutti
i loro rapporti quella rigida osservanza serbassero di purità, ora
qual si conviene al sacro cibo di _Teruma_ come Iose il Hasid, ora
qual si addice anzi alle offerte stesse approssimate agli altari, come
l’altro, Iohanan Ben Gualgheda. E questa è la prima classificazione e
la memoria ed il segno che di essa è rimasto nei libri rabbinici. Ma
io dissi, se ben vi ricorda, come duplice classificazione distinguesse
gli Esseni. Qual’è la seconda classificazione? Ella è quella che
riguarda, non già come la prima il diverso grado di purità, ma ciò
che più monta, il genio riguarda e l’officio diverso delle classi
che la società componevano. E quante erano queste classi? Eran due.
Si dicevano i primi _Esseni pratici_, si dicevano i secondi _Esseni
contemplativi_. Che cosa erano gli _Esseni pratici_? Eran coloro che
senza troppo gittarsi nel turbine delle faccende mondane non lasciavano
però di conversare familiarmente cogli uomini in società; che non
solo praticavano il matrimonio, ma lo predicavano eziandio santo e
legittimo, e conforme sopratutto alle mire provvidenziali per la
conservazione della specie umana; erano coloro di cui così favellava
Giuseppe nel 2º delle Guerre: «_V’è ancora un altro ordine di Esseni
che ha l’istesso metodo di vita, i medesimi costumi e le medesime
regole, toltone l’articolo delle nozze, questi dicono che sia tôrre
alla vita umana una delle sue parti più considerabili, lo impedirne
la successione col non ammogliarsi, e che se tutto il mondo fosse
di questo parere il genere umano presto correrebbe al suo fine. Ma
spendono tra anni ad esplorare gli animi delle lor spose; e quando
sono state tre volte in questo tempo purgate conchiudono che sono atte
ad aver figliuoli, e le sposano._» Queste sono le parole di Giuseppe
intorno agli Esseni che si dicono pratici. Se fossero a voi famigliari
i libri e le sentenze dei nostri Dottori, trovereste siccome io
trovo, una mirabile uniformità di linguaggio tra gli Esseni, secondo
Giuseppe e i Dottori più celebrati, intorno la necessità, il dovere
del matrimonio; tantochè se non mancano esempj, come altra volta vi
dissi, di celibato volontario ascetico in seno ai Dottori, non si può
negare che il comun genio e le prevalenti dottrine non consentano
piuttosto col genio, colle dottrine di quella parte di Esseni che si
nomano pratici. Ma una seconda divisione nell’Essenato vi additava,
ed è quella degli _Esseni contemplativi_. Che cosa sono gli Esseni
contemplativi? Sono quelli che ponevano ogni amore nello studio e nella vita contemplativa, quelli che passavano i loro giorni, dice Filone, a meditare i libri sacri e la filosofia dai maggiori imparata;

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