2015년 6월 2일 화요일

Storia degli Esseni 25

Storia degli Esseni 25


e il precede insieme anche _la
santità_, siccome del _timore del peccato_ essa pure avviamento e
prodromo. Che cosa dunque vuol dir ciò? Vuol dire, se io non erro, che
colle parole _che teme il peccato_ intesero i Dottori uno stato morale
che generato è pure dal Farisato, e che di gran lunga eccede tutte le
virtù sottostanti, la _purità_, la _umiltà_, ed anche la _santità_,
e che è affine, e ch’è contiguo, e ch’è conducente al _Hasidut_ cioè
a quello stato, a quel grado onde ebbe nome la società degli _Esseni
Contemplativi_ negli antichissimi tempi. O io erro, o fatti sono
cotesti che altamente depongono in favor mio. Che sarà poi se il nome
intenderete dell’autore della Barraità in discorso? Voi vedeste e
vedrete costantemente i Dottori più insigni della scuola cabbalistica
farsi nelle pagine del Talmud gli oratori, gli avvocati delle idee,
delle massime dell’Essenato, vedeste Rabbi Simon Ben Iohai, contro a
R. Ismael, Rabbi Akiba contro Ribbi Tryphon, Rabbi Neorai contro R.
Meir, e Ben Iohai e Ribbi Akiba e R. Neorai al tempo stesso cabbalisti
e rappresentanti e organi dei principi dell’Essenato. Vedetene adesso
un altro nell’autor della _Barraità_. E chi è l’autore della Barraità?
Voi l’udiste: è Rabbi Pinehas Ben Iair, non solo il suocero di R. Simon
Ben Iohai, non solo veneratissimo nel Talmud, ma quel che più monta,
celebratissimo nel Zoar, le cui parole, le cui dottrine sono ivi con
venerazione registrate, e le parole e le dottrine sono esse pure della
scuola teologico-mistica dei Cabbalisti. E tutto questo a caso? È a
caso che di tratto in tratto sorgono nel Talmud due idee parallele,
concomitanti, talvolta opposte, antitetiche, ed alle idee corrispondono
dei pratici, dei contemplativi? È a caso che gli avvocati della
_contemplazione_ nel Talmud sono sempre quegli stessi che più vanno
rinomati pel loro ascetismo? È a caso che tutti i loro nomi primeggian
nel libro del Zoar? È a caso che niuno al contrario vi figuri dei loro
avversari, non _Ismael_, non _Tryphon_, non _Meir_? Io credo che non è
caso. Quel che non è certo a caso son le parole che seguono: e chi ne
è l’autore? È lo stesso _Pinehas Ben Iair_. _Dal giorno ei dice, che
fu il tempio distrutto furono confusi_ I SOCI, I FRATELLI E I LIBERI
_e cuoprironsi il capo e decaddero_ I PRATICI. Chi sono i _soci_, i
_liberi_, e chi sono i _pratici_? Io lo chiesi agli antichi interpreti
e quale n’ebbi risposta? Per pratici l’idea vaga generalissima di
religiosi; pei _soci_ o pei _liberi_ sensi che, o nulla significano,
o se qualcosa significano, giovano non poco al mio assunto. Ma quanto
bene nel nostro sistema! _Soci_ (_Haberim_), sono i _Soci_ i fratelli
della società e della Essenica _Frateria_; i _Pratici_, sono i
_Pratici_ la frazione più urbana, più cittadinesca dell’Essenato. Ma
chi sono i liberi. Benè-horin? Ah chi sono i liberi? Ve lo dica per
me un’aurea indicazione da _Filone_ serbataci; quando parlando della
costituzione degli Esseni narra di quelli che di fresco introdotti
nella società, consumavano il noviziato nel servire, nel ministrare ai
provetti, ai maggiori.[66] E come dice Filone che si chiamavano dagli
Esseni, cotesti? Si chiamavano _Liberi_, sì, si chiamavano _Liberi_
volendo, siccome ei dice, con un nome contraddistinguerli, che ogni
carattere servile escludesse dalla loro persona al quale non poco
avrìa indotto a credere i riguardanti, l’officio veramente servile
in cui ministravano. Ma liberi essi erano, Benè-horin, e dicevansi
liberi comecchè umilmente ministrassero a mensa ai veri _soci_, ai veri
fratelli.[67]
 
Voi vedeste già molte volte ed ora stesso aperta vi fu mostrata la
esistenza di _Pratici_, di _Contemplativi_ in seno ai Dottori. Non mi
resta che chiamare la vostra attenzione sopra un altro fatto soltanto,
ma cospicuo, ma rilevantissimo fatto; ove non solo questa duplice
ramificazione riprodurrassi e più distinta e spiccata; non solo vedremo
Esseni _Pratici_ ed Esseni _Contemplativi_; ma ciò che a dismisura più
monta, li vedremo parlare, agire e certi atti caratteristici eseguire
che Filone ci narra, propri, particolari agli Esseni. Dissi un fatto
perchè invero ambi s’identificano, si confondono, si unificano in
un solo fatto, ma per ora sono due, l’uno fornitoci dagli Esseni è
narrato da Filone, l’altro fornito dal Farisato è raccontato dalla
Misnà. Qual’è il fatto da Filone narrato? È una festa ed una festa
da ballo, ma di quelle ch’è capace di dare un Istituto religioso, un
sodalizio quale era l’Essenico. Narrarvi per filo e per segno tutte
le circostanze di questa festa da Filone descritta, troppo più a
lungo ci menerebbe che nol consentan l’ora e le forze. Pure mestieri
è che le cose più rilevanti vi sien conte. Festa era questa che
celebravano i Terapeuti, in una delle solennità religiose che resta
difficile determinare, ma che ogni analogia ci persuaderebbe essere
i _Tabernacoli_. E dove si celebrava cotesta festa? Si celebrava,
dice Filone, nell’aula del chiostro che lor serviva di Tempio. Colà
si riuniva la numerosa famiglia dei Terapeuti, e indossata ognuno la
bianchissima stola, sedeva ad una mensa, donne ed uomini separatamente
da ambo i lati, dove tutti prendevano cibi parchissimi, d’onde carne
e vino erano assolutamente banditi, ove ministravano quei _Liberi_ di
cui vi discorsi, ed ove i sacri ragionamenti allietavano ed istruivano
i commensali. Soddisfatto il bisogno del corpo, ognuno levavasi. Il
Presidente intonava un Inno alla gloria di Dio composto da esso o da
qualcuno dei predecessori, e tutta la compagnia lo cantava con lui,
quindi i giovani recavano in mezzo una tavola, per memoria di quella
ch’era in Gerosolima nel vestibolo del Tempio; quindi i balli, e al
ballo uniti e suoni e canti; e ballo e canto protraevasi insino a
giorno. All’alba, tutti come un sol uomo volgevansi al sole nascente,
e supplicato da Dio il buon giorno e la luce della verità, ognuno si
ritirava nella sua cella ove riprendeva le usate occupazioni. Questa
è la festa che narra Filone, e questo è il fatto che vuole essere
adesso paragonato alla storia che di una gran festa ci han trasmesso i
Rabbini. Qual’è questa festa? Ella è quella che si celebrava, dice la
Misnà, (_in Succà_) nei vespri del primo giorno dei Tabernacoli, e che
fama altissima lasciò di sè in tutta la Rabbinica Enciclopedia sotto il
nome di _Simhat bet Ascioaba_ e di cui il nostro _Simhat Attora_ non è
che pallida copia e debile reminiscenza. Dove si celebrava il Simhat
bet Ascioaba? Si celebrava in quella parte del Tempio che si chiamava
_l’Atrio delle donne_ perché alle donne era quello il limite assegnato,
che non poteano valicare. In quell’atrio, dice la Misnà, stabilivasi
_grandissimo ordine, Ticun gadol_. Che vuol dire quest’ordine, dice
il Talmud? Vuol dire, risponde, che l’atrio stesso in due parti era
diviso ove uomini e donne potuto avrebbero assistere alla festa
separatamente. Ma quanto splendido non c’è descritto l’apparecchio!
specialmente perciò che riguarda i candelabri, i doppieri, i lampadari
infiniti che gettavano per ogni parte del Tempio, degli atrî e di
tutta la montagna d’intorno, torrenti di luce. Vi basti dire, dice la
Misnà, che non v’era casa, non cortile, comecchè distante dal Tempio
in Gerosolima, che un raggio non ricevesse della sacra montagna che
tutta pareva divampare in un mare di fuoco. Piacerebbevi egli, o miei
giovani, che ove conceduto ne fosse l’accesso, quelle aule visitassimo
e quegli atrî santissimi? Orsù, entriamo ed osserviamo. Che spettacolo
è questo! Non solo la vastissima sala splende per miriadi di luci,
non solo un dolce suono mandano i Leviti, oggi in gran completo dalla
loro numerosa e svariatissima orchestra, non solo il caro idioma dei
sacri libri risuona in bocca agli astanti nelle lodi, negli inni che
celebrano all’Altissimo; ma che cos’è quest’agitazione che veggo: sogno
io o son desto? È pure un ballo! Un ballo nella casa del Signore! Un
ballo che al canto si marita, si marita al suono istesso dei sacri
strumenti, dei sacri cantici, e che pare ad un culto rivolto, ad un
oggetto pur esso santissimo! Tersicore negli atrî del severo Dio di
Solima non avrei pensato io giammai. Eppure è così. E chi sono i
danzanti? giovani forse? adolescenti? pensate! Altro che giovani!
Ravvisateli bene, sono venerabili aspetti, sono canuti, sono Dottori,
sono le stelle più fulgide del Farisato, _ogni altro eccettuato_,
dice Maimonide, sono essi soltanto, essi soli; sono, diciamolo una
volta colle parole testuali della Misnà, sono due ordini di Dottori,
i _Hasidim_ e i _Pratici_, sono essi i quali, in uno slancio di gioja
celeste, in un’estasi di mistico amore, intrecciano dotte e mistiche
danze, raffigurando nelle armoniche cadenze quello che gli antichi
tutti vollero raffigurato nelle danze religiose, vuoi l’armonie delle
sfere, vuoi l’armonia più segreta dell’animo umano e delle sue facoltà,
vuoi insomma qualche altro consimile intendimento, che lungo sarebbe
voler constatare. Sì, sono essi, sono i _Hasidim_, i _Contemplativi_
e gli _Anscè Maasè_, alla lettera i _Pratici_, i quali santificavano,
riabilitavano nel culto del vero Dio le danze che narrava il Paganesimo
dei Dattili, dei Telchini, dei Coribanti, delle Baccanti. Non sappiamo
noi da Luciano egual costume appresso ai Greci? Non è il più bel
premio di una mente culta e religiosa quello di potere riposare in una
uniformità ammirabile tra il mondo Ebraico e il fiore del Paganesimo?
Non abbiamo bisogno in mezzo a tante discrepanze, a tanti antagonismi,
un po’ di armonia, un po’ di pace tra Ebraismo e Paganesimo che
valgano a costatare che ogni filo non era spezzato tra l’uno e
l’altro? Oh! come è bello, per tanto, udire Luciano a descriverci le
paganiche danze! «_La danza di Bacco_ (ei dice) specialmente nella
Jonia e nel Ponto è esercitatissima; _e vi ballano persone nobilissime
e i principali della città, che lungi d’averne punto rossore, si
compiacciono meglio di questo esercizio, che della nobiltà degli uffici
e della dignità dei maggiori._» (ed. Capol., vol 3, 206) Non par egli
udire l’apologia di David che danza innanzi l’arca, e i Dottori che
lo imitano nella festa della _Scioaba_?[68] Sublime invero, santo
Coribante R. Simon Ben Gambliel, il quale, dice il Talmud, quando
tripudiava nel tripudio della Scioaba, otto faci teneva in mano e
l’una e l’altra successivamente scagliava in aria e tutte in cadenza
regolarmente riafferrava, senza che niuno dei moti complicatissimi
fallisse il segno. Ma non solo io li veggo con ordinate movenze menare
un ballo, ma parole io odo e canti dal labbro loro sgorgare. Che
parole son coteste? Porgete l’orecchio e l’eco lontano ne addurrà la
MisnàDicono i Contemplativi, dicono i Pratici che incanutiti eran
nella fede, nello studio_o felice gioventù, che la vecchiezza nostra
non fai arrossire!_ Ma altri pure altra lode proferiscono, e lode
diversaChe lode è questa? _Felice vecchiezza, che il fallo emendasti
di gioventù._
 
È questa la festa, e questo il ballo, e queste sono le parole della
_Scioabà_. Qui separate le donne,qui il tempio convertito in sala
da ballo,qui musica, qui canto, qui ballo e qui infine cantanti e
danzanti; chi? I _Hasidim_ e _Anscè Maasè_, cioè quei due ordini che
abbiamo superiormente veduto per altri fatti moltissimi corrispondere
al doppio essenico ordine di _Pratici_ e _Contemplativi_, che da
Filone nella succitata descrizione della festa ci vengono nella
stessa attitudine raffigurati, nello stesso luogo, allo stesso
oggetto, nell’atto istesso di cantare e ballare. Ma quando avviene
questa festa? Avviene di notte, avviene durante una festa religiosa,
e di notte e durante una festa religiosa quella avveniva da Filone descritta. E quanto dura la festa? 

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