2015년 6월 2일 화요일

Storia degli Esseni 26

Storia degli Esseni 26



Tutta la notte, dice Filone, sino all’alba spuntata; e tutta la notte risponde per la sua, la Misnà; e
ne fa fedenon vaga lontana tradizione, ma uno degli assistenti, uno
dei santi danzatori, quell’eccellentissimo Dottore che i colleghi
soprannominavano grecamente lo _Scolastico scolastica deoraità_: io vo
dire _R. Ieosciua Ben Hanania_ il quale nel Talmud si esprime così:
_Dice Ribbi Ieosciuah Ben Hanania quando gioivamo nella festa della
Scioaba_ (che sublime mestizia in queste parole. Il tempio non era
più!) _non vedevamo_ (traduco a verbo), _non vedevamo sonno cogli occhi
nostri: e come? La prima ora del giorno pel sacrifizio cotidiano,
di là all’orazione mattutina, di là al sacrifizio addizionale, di
là all’orazione dei Musafim, di là alle accademie, di là alla mensa
festiva, di là ai vespri, di là al sacrifizio vespertino, e di là sino
al mattino seguente nei tripudi della Scioabà._ Ed anche in questo,
voi lo vedete, la festa di Alessandria e quella di Solima procedean
conformi. Che facean poi al mattino? Per quei di Alessandria così dice
Filone: _All’alba tutti volgonsi verso il sole nascente, e pregano
Dio che conceda loro una buona giornata e la luce della sua verità_.
Così gli Alessandrini. Che cosa facean in Solima? La Misnà ce ne ha
serbata fedelissima memoria. _Al canto del gallo_, ella dice, _il corno
mandava un triplice suono,[69] e così suonando e strepitando, procedeva
la comitiva muovendo verso la porta che guarda ad Oriente. Giunti che
erano alla porta che guarda ad Oriente, volgeansi tutti da Oriente a
Occidente; e così diceano: I padri nostri che vissero in questo luogo
volgeano, come dice Ezechiele, il tergo alla casa del Signore e la
faccia loro indirizzavano ad Oriente, all’astro del giorno: ma Noi a
Jah sono rivolti i nostri occhi_; e ripetevan dicendo: _Noi a Jah, ed a
Jah i nostri occhi_.
 
Che cosa vedete qui? Tutto procedere appunto come tra i Terapeuti
procedeva; tranne una cosa, la parte a cui si volgeano. Gli _Ebrei_,
i _Dottori_, _gli Esseni_ di Palestina, memori della profanazione che
i loro proavi fatto avevan del tempio del Signore, l’idolatrico culto
introducendovi delle stelle del cielo, memori dell’attitudine che
prendevano nell’adorazione del maggiore astro, che Ezechiele descrive e
rinfaccia; giunti ch’erano al punto in cui dovevan pregare, prendevano
la contraria positura e il tergo volgeano al sole nascente e gli occhi
miravano e la persona al Santo dei Santi che la parte più occidentale
occupava del santuario. Pegli Ebrei invece, pei Terapeuti Alessandrini
avveniva il contrario. Fosse che a guisa di tutti quelli che vivono
fuori di Terra Santa, a guisa nostra anch’oggi, si volgessero nel
pregare ad Oriente, fosse che inesatta giungesse loro contezza del modo
di pregare della Metropoli, fosse eziandio che il lungo soggiorno
dello Egitto, la lunga conversazione cogli infedeli, la diuturna
separazione dal cuor della fede, facesse prendere al loro culto una
tinta d’Idolatria, siccome l’eco ne perdurava e perdura in scrittori
gravissimi che l’adorazione del _Sole_ gli attribuiscono; fatto è, che
in questo sol punto tra il culto Essenico di Palestina e quello dei
Terapeuti d’Egitto tu ravvisi un’antitesi. Del resto, la somiglianza
non potrebbe più esser perfetta, e sopratutto non potrebbe più che in
questa festa spiccare il doppio ordine di _Pratici_ e _Contemplativi_
che fu mio officio sinora mostrarvi nella _storia_, nella
_discussione_, negli _atti_, nel _culto_, com’ora vedeste degli antichi
Dottori.E quindi sempre più splendida sorgerà quella conclusione che
viene dimostrata perpetuamente dalla nostra esposizione; la identità
dell’Istituto degli Esseni colla parte più dotta e più santa del
Farisato.
 
 
 
 
LEZIONE DECIMAQUARTA.
 
 
Noi dobbiamo oggi proseguire nello studio delle esseniche istituzioni
per passare quindi alle dottrine e quindi al culto. Si parli dunque
delle Istituzioni, e per procedere con quell’ordine che più io stimo
acconcio, cominceremo da onde appunto cominciava l’Essena nell’atto
di votarsi alla società, ch’è quanto dire cominceremo dal Noviziato.
Ebbero eglino, gli Esseni, un noviziato? Imposero eglino ai nuovi
venuti, un tirocinio speciale, una propedeutica religiosa prima di
largir loro il nome e le prerogative di socio e fratello? Ebbero
eglino un noviziato a guisa di pressochè tutti i religiosi istituti
antichi e moderni, a guisa segnatamente del Pitagorico istituto, col
quale tanto amava di raffrontarli il nostro Giuseppe? Sì, rispondono
le più autorevoli testimonianze, le quali non solo di questo
noviziato attestano la esistenza, ma la durata ancora ne ricordano,
la divisione, le prove a cui sopponevansi, lo scopo a cui si mirava.
Il noviziato durava tre anni, ma questo periodo di anni tre si
distingueva in due parti, o per dir meglio abbracciava due gradi che
successivamente percorreva lo iniziato. Durava il primo un anno intero,
e in quell’anno le virtù che più si volevano splendidamente provate,
erano continenza e temperanza, nè per luminosa che ne emergesse la
prova, poteva dirsi ancora assolutamente qualificato fratello. La più
intima comunanza che conoscessero gli Esseni, la tavola comune, il
refettorio, non si asseguiva che dopo altri due anni dl tirocinio più
severo. Pria di sedere al fianco a’ fratelli nei sacri agapi intorno
al desco venerato, due altri anni dovevano ancora trascorrere dove,
come pare probabile, nulla di sè lasciar doveva desiderare il nuovo
fratello. A capo di due anni diveniva Essena compito. Noi abbiamo
di sopra toccato del noviziato religioso nelle antiche consorterie,
noi abbiamo detto come da quelli non differisse il nostro Istituto.
Che dico? Noi potevamo farvi toccare con mano non solo i rapporti
che da questo lato lo avvicinano ai Pitagorici, ma ad altri infiniti
istituti accennare, antichi e moderni. Potevamo dire della iniziazione
sacerdotale dello Egitto, del Noviziato tuttavia superstite nel
sacerdozio Braminico, ove una rigida preparazione si esige da coloro
tra i Brami, che all’amministrazione voglion dedicarsi del sacro culto,
e sopratutto avrei potuto additarvi nelle società religiose derivate
dal Cristianesimo una immagine fedelissima di quello che tanto tempo
innanzi praticavano i nostri Esseni. Ma questi riscontri, comecchè non
destituiti di alta e feconda significanza forse più chè non credesi,
debbono ad altri cedere il campo che di gran lunga sovrastano e che
compiono quanto abbiamo a dire intorno l’essenico noviziato. Io spero
che non l’avrete dimenticato. Fu e sarà nostro officio, ad ogni passo
che muoviamo nella esposizione della scuola, trarre dalle viscere
del subbietto, sempre nuove, sempre maggiori conferme, a quel fatto
rilevantissimo che resulta a parer mio dalla più scrupolosa disamina
dello Essenato, la identità dell’Essenato medesimo colla parte più
dotta e più squisita dei Farisei. Voi lo ricordate; il metodo da noi
prescelto a provare siffatta identità fu, se non isbaglio, il più
rigoroso. Chiedere al Farisato tutto che di proprio, di organico si
trova nell’Essenato, e ove nulla si trovi nel secondo che il primo non
contenga, chiarire vera e fondata la propugnata identità. Il noviziato
sarà egli occasione di conferma o di dubbio? si trova egli tra i
Farisei come la storia ce lo addita in seno agli Esseni? Se non il
chiedessimo che alla Bibbia, la Bibbia ce ne offrirebbe un esempio, un
tipo parlante nel sacerdozio. Il sacerdozio aveva un noviziato, e se
questo noviziato anzichè tre durava invece cinque anni, non cessava per
questo di essere vero e proprio noviziato. E d’onde questo noviziato
resulta nei libri sacri? Implicitamente dal testo; esplicitamente poi
dalla tradizione. Ella è nel testo una di quelle contradizioni che non
tollerano conciliazione se non mercè il dettato della tradizione. Sono
due testi che sembrano escludersi a vicenda. Per l’uno il sacerdote
ministra nei sacri offici all’età di venticinque anni, per l’altro
solo ai trenta adempie agli offici del sacerdozio. Che cosa sono
questi cinque anni di differenza? Sono, dice la tradizione, il periodo
di noviziato. Ma noi dobbiamo chiederlo altresì ai dottori, dobbiamo
cogliere nei loro usi, nei loro dettati l’essenico noviziato almeno
in germe. Saremo noi tanto felici di rinvenirlo? Io spero che voi
non esigerete una perfetta e circostanziata identità. Comprenderete
benissimo come una frase, un cenno sia d’immenso rilievo quando si
tratta, come in questo caso, di due scuole che non fu mai usato di
confrontare, di cui niuno sospettò o almeno asserì non solo la identità
ma nemmeno la somiglianza. Ora, io oso dire che questo cenno esiste, ed
esiste nel Talmud di Hollin, ove togliendo a ragionare del tempo in cui
il discente può veder dei suoi studj profitto alcuno, altri fondandosi
sul noviziato sacerdotale, questo tempo pongono dopo anni cinque;
altri in più brevi termini restringendolo lo limitano a soli tre; e tre
erano, come udiste, gli anni di noviziato prescritti al nuovo Essena.
 
Ma questi anni vedeste in due periodi partirsi; ed il secondo che
dicemmo più lungo, nuova prova e solenne preparazione al cibo comune,
al refettorio. Che cosa significa questa speciale importanza alla
tavola conceduta? Solo allora la comprenderete quando lo spirito
della antichità e lo spirito dei rabbini vi sarà familiare; quando li
udirete proclamare la tavola, imagine, ricordo, rappresentanza dello
altare di Dio; quando la mensa santificata dalla legge divina li
udirete parificare alla mensa dello Eterno, e i commensali qualificare
commensali di Dio; quando vedrete queste idee a maggior altezza
poggiare per opera e nel sistema dei cabbalisti successori legittimi,
a parer mio, dell’antico Essenato. I quali parecchi usi e procedimenti
ebbero a mensa che poi vedremo radicarsi negli antichissimi istituti
dell’Essenato, e più solenne appalesare fra essi quella identità
che è perpetuo subbietto del nostro argomentare. Intenderete allora
come supremo onore e grado supremo d’iniziazione fosse tra essi la
commensazione in comune, e come niuna prova per essi si trascurasse
onde riconoscere se degno fosse l’ospite nuovo di questo onore. Il
volevano sapere perchè delle idee partecipavano gli Esseni e dei
costumi dei Farisei; perchè i talmudisti, i farisei primo studio
ponevano, quando trattavasi di banchettare, nel sapere chi avrebbe
a fianco loro seduto a mensa, perchè questa indagine solevano fare
immancabile coloro che i talmud designano col nome di _Nekiè adaat
sce-biruscialaim_ gli animi delicati di Gerusalemme; perchè i farisei
avarissimi erano della loro persona, quando si trattava di porsi a
tavola con chi castigatissimi non avesse i costumi e l’animo culto;
perchè carattere precipuo si predica nel fariseo, il non prodigarsi in
conviti plebei; perchè il farisato irrideva con appellazioni derisorie
a quei degeneri dottori che ponevano cattedra nei Prandj e aringo
prediletto agognavano le laute imbandigioni perchè li chiama in suon di
scherno scaldaforni e leccapignatte.[70]
 
Nè questi titoli avriano certo convenuto agli austeri membri
dell’Essenato. Ma provatane, come dissi, la continenza, trovato degno
di sedere alla mensa fraterna, nel novero senza più era introdotto
dei fratelli e dei socj. Allora un bel nome lo attendeva ed oh quanto
da quelli testè citato diverso! Lo attendeva il nome, il titolo di
_libero_; e perché? Perché libero solo allora estimavasi l’uomo
che i vincoli più forti avea se non rotti, allentati, che alla
terra lo avvincevano; perchè libero si diceva, come disse Platone,
eziandio quello soltanto che alla legge subordinava il volere; e
forse come altra volta accennai, libero altresì si diceva perchè
gli uffici umilissimi in cui i giovani ministravano un carattere
a torto lor non annettessero di mercenari o di schiavi. Ma quanto
non consuonano coteste idee colle idee dei farisei! La libertà vera
riposta nell’affrancamento dello spirito da ogni maniera mondanità, è
teoria se altra fu mai farisaica per eccellenza; liberi _Benè korim_
udiste chiamati dai Dottori nel Talmud (Sotà) coloro che a fianco
essendo posti dei _Kaberim_, a ragione, come dissi altra volta, ci
rappresentano i giovani Esseni, i neofiti della setta, coloro che
Filone espressamente insegna liberi dagli Esseni appellarsi, liberi
di quella libertà che i dottori dissero discesa, scolpita sulle
tavole della legge; duplice libertà per cui l’uomo e lo spirito si
affranca dal giogo di morte, ed il corpo si sottrae alla signoria
dei Potenti del Mondo _harut mimmalach amavet umiscibud malkijot_.
Libertà che gli Esseni conseguivano e colla perfezione dello spirito
e colla fuga e coll’abbandono del mondo, libertà di cui i dottori
favellarono quando dissero che chiunque si toglie il giogo della
legge di Dio si affranca al tempo stesso di ogni giogo terreno, delle
terrene dominazioni che nulla ponno oggimai su quello che nulla più
chiede alla terra, e tra gli uomini vive come se non vivesse; giogo
sociale che dissero _hol derek erez_, in cui i bisogni e la servitù si
compendia, che la società impone ai membri suoi e dai quali l’Essena
solo poteva dirsi affrancato, e quindi dello Essena soltanto deggiono
aver inteso i dottori quando quello dissero andare immune da ogni peso,
da ogni legame sociale, _ol dereh erez_, il quale sobbarcato si sia
al giogo della legge di Dio, ch’è quanto dire, siccome io intendo,
che abbia, siccome l’Essena faceva, tutto l’esser suo consacrato ad
una vita di ritiro, d’abnegazione, di abbandono. Che il _sottrarsi
ad ogni giogo sociale_ a niun altro può si bene attagliarsi come
all’Essena che fugge il mondo nel silenzio e nella pace del sacro
chiostro. Oh quanto bene ancora non si addice al carattere alla storia
dell’Essenato quella virile indipendenza da ogni umana podestà, _ol
malhut!_ Oh! quanto acconcie non soccorrono all’uopo le parole di
Giuseppe lo storico, quando degli Esseni favellando, non rifinisce
di esaltare la fortezza dell’animo, la imperturbabile resistenza che
seppero ognor contrapporre alle sevizie, alle persecuzioni, ai martirj
di Roma imperante! E queste stesse laudazioni di Giuseppe non sono
elleno la miglior conferma di quella identità d’Esseni e Farisei ch’è
perpetua dimostrazione di queste conferenze? E chi altro se non i
Farisei saranno questi audaci sfidatori della romana tirannia? Chi
se non quelli che gli annali empierono del giudaismo della eroica
loro resistenza, delle lotte incessanti, dei trionfi, dei supplizi
più ammirandi delle stesse vittorie, delle morti cento volte più
invidiabili della vita più prosperosa? Chi se non i Farisei, chi se non
gli stoici di Palestina con cui ama tanto di compararli Giuseppe lo
storico, e con cui tanti e sì profondi ci offrono punti di attinenza
non meno di questo rilevantissimi, voglio dire il durare impavidi di
fronte al fantasma terribile, implacabile, della romana tirannide?

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