2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 27

Storia degli Esseni 27


E chi tra i Farisei medesimi meglio in sè riproduce la bellissima
caratteristica; chi più altiero levossi sulla mala signoria; chi
profferiva più terribile sentenza sui vizi del governo imperiale;
chi meglio resisteva al prestigio, al bagliore di quella ipocrita
civiltà, se non quella parte di Farisei con cui, a parer mio, più
specialmente, più intimamente s’identifica il nostro Essenato, ch’è
quanto dire la parte teologica, mistica, ascetica del dottorato
ebraico? Singolare a dirsi! Il Talmud ci ha conservato un frammento
prezioso in cui il carattere e le opinioni politiche si dipingono di
tre tra i più grandi dottori in Israele; in cui tu puoi vedere di
ognuno il vario sentenziare su quell’impero, che teneva allora il mondo
sotto i suoi piedi; in cui ognuno rivela le proprie impressioni tali
quali internamente esperimentavali a quello spettacolo di grandezza,
di forza, di ricchezza, di lusso, di sapere governativo, di polizia
cittadinesca! E chi sono i grandi interlocutori? Sono Rabbi Jeudà
soprannominato lo eloquente o meglio il primo tra i parlatori, _Ros
amedabberim_; è l’altro Rabbi Iosè; ed il terzo è R. Simon Ben Iokai.
Favellavano essi dell’impero romano, delle sue leggi, dei suoi usi,
della sua civiltà. Sorge R. Jeudà ed esclama: Oh quanto sono belle
le opere di questo popolo! Quanto senno nel governare i sudditi!
Quanta cura del loro ben essere! Qui aprono strade che la città in
se stessa e le città le une alle altre e tutto l’impero congiungano
fra le sue parti; qui a valicare fiumi erigono ponti; qui di ogni
maniera comodità arricchiscono il paese, e bagni e teatri e passeggi
aprendo a ristoro, a vaghezza, a diporto degli abitanti. Il cuore di
R. Jeudà era ebreo; chi ne dubita? Ma la mente sua non poteva non
ossequiare quel prodigio di arte, di grandezza che l’impero ostentava
agli occhi dei popoli vinti. Alla generosa apologia tace R. Iosè, ma
Simone favella, anzi Simone rugge, Simone tuona e come terribilmente!
Sì; elevano costoro ponti ma per preporvi commissari all’esazione dei
pedaggi! Sì; aprirono strade, ma per gettarsi come torrenti sul mondo
intiero. Sì; schiusero vie, ma per alloggiarvi i loro agenti, i loro
proconsoli, le loro meretrici. Sì; aprirono bagni, teatri, passeggi, ma
per snervarvi i popoli colle blandizie, e per conchiudere colle parole
del testo, _tutto che fecero, a pro di sè operarono_. Ma Roma era tutta
in orecchi, e in ogni angolo, in ogni città, in ogni ritrovo protendeva
la rete del suo spionaggio.Insieme ai tre dottori eravi un quarto, e
questo quarto era Ebreo, e questo quarto era il delatore di Roma. Roma
seppe poco stante ogni cosa, seppe la lode, il silenzio, la invettiva,
e Roma di li a breve sentenziò: Giuda che esaltò sia esaltato, _Jeudá
sceillá itallé_; Iosè che tacque, tragga in esilio, _ighlé lezzipori_;
Simone che sparlò, perda la vita. Narrarvi le cose che seguirono, la
fuga di Simone, la caverna, gli studi e probabilmente la coordinazione
delle sue dottrine; non è di questa conferenza l’officio. Ma che animo,
che mente, che cuore, che indipendenza di spirito! E che riscontro
mirabilissimo colla nota caratteristica che Giuseppe attribuisce agli
Esseni! L’indipendenza di Simone lo condusse se non al supplizio
estremo, a vita peggiore che morte per tutt’altri che lui; ma qual
conforto! Nella sua solitudine ei poteva dire a sè stesso: quando i
secoli avranno delle cose presenti abolita ogni traccia, Roma non sarà
più; ed uno dei miei più tardi discepoli narrerà ai fratelli ammirati
le mie prove, i miei dolori, il mio coraggio, la mia gloria. Questo
discepolo non oso dire chi sia, ma questi fratelli siamo noi, siete voi
stessi.[71]
 
 
 
 
LEZIONE DECIMAQUINTA.
 
 
Noi abbiam detto nella passata lezione, come il noviziato degli Esseni
constasse di due parti o periodi che dir vogliamo, e come secondo fosse
quello che preceder soleva l’ammissione al refettorio. Noi abbiamo
così conosciuto la durata, la gradazione del noviziato; ne abbiamo,
a così dire, veduta sinora la parte esteriore. Mestieri è che meglio
in esso ci addentriamo a scuoprirne la verace natura; mestieri che il
valore, la guarentigia morale ne sindachiamo; mestieri che al fatto più
cospicuo assistiamo che la intima essenza costituiva del noviziato.
Qual’è questo fatto, qual’è l’atto più solenne a cui il nuovo Essena
era chiamato a adempiere? Egli era in una parola, un giuramento. Non
so se io vada errato, ma il giuramento per se stesso, la sua formula
avventurosamente conservataci per intero, le parti tutte di cui è
composto, la precisa e minuta descrizione di tutti gli obblighi che
il Neofita si assume, la viva dipintura che vi si asconde della vita
e del genio dell’Essenato, il suo carattere insomma, di sommario, di
catechismo, di compendio di tutte le esseniche istituzioni ne fanno,
se io non erro, un documento unico nel suo genere e di una tale
significanza che vano sarebbe il disconoscere. Potremo noi a tanto
trovato rimanerci indifferenti? Potremo non istudiarne a parte a
parte gli articoli di cui è composto? Potremo noi non rimirare quasi
in vivo speglio la società degli Esseni nell’atto più espressivo e più
compendioso della vita sociale, e come a dire nel suo credo, nel suo
atto di fede, nel suo programma? Ecco perchè ho meco stesso deliberato,
a costo ancora di mandare più che non volessi per le lunghe il nostro
corso, esaminare partitamente il giuramento in discorso; ecco perchè
senza por tempo in mezzo mi accingo a dirittura al lavoro. Ma prima
siamo con noi medesimi conseguenti. Noi vogliamo, non è egli vero,
gli Esseni per nulla diversi, anzi identici assolutamente a quel
farisato in cui si contengono come parte nel tutto? Ora se questa
identità non è menzognera, non solo i Farisei avranno pure essi un
noviziato, e ciò vi fu (cred’io) abbastanza dimostrato, ma avranno
ancora, lo che più monta, l’equivalente della essenica iniziazione;
avranno un atto per cui noverati venivano nel bel numero, per cui al
patto sociale, ai suoi doveri, ai suoi dettati promettevano leale
osservanza. Eravi nulla di questo in seno al farisato? Se vi era! Basta
gettare ancorchè superficiale uno sguardo sulle pagine talmudiche
per convincersene immantinente. Basta aver udito a parlare dei Dibrè
habrut, e della iniziazione a questa consorteria chiamata _cabalat
dibrè habrut_, l’assunzione, l’accettazione dei doveri sociali. È vero
che la memoria che ne serbò il Talmud va quasi sempre improntata di
quel carattere pratico, esecutivo, rituale, ch’è genio specifico di
quasi tutto il Talmud; è vero che non conosciamo siffatta consorteria
che dal lato suo positivo cerimoniale; è vero che la parte organica,
ideale, dottrinale di questo habrut, è rimasta nel Talmud ricoperta
da densissimo velo; ma quante d’altra parte non ci offre col nostro
Essenato parlantissime analogie! Basti accennarvene le più cospicue,
intorno alle quali mi abbisognerebbe dettare un trattato per esaurir
tutta quanta la vastissima materia. Vi basti in primo luogo che le più
ovvie resultanze delle memorie talmudiche altamente ci attestano come
nel mentre che cotesti _haberim_ o soci si radicavano profondamente
in seno ai Farisei, e da essi, vita, dottrine, soci, indirizzo e
tutto accogliessero onninamente, cionnonostante del farisato medesimo
formassero quasi elettissima schiera, ed a certi doveri e pratiche
gissero sottoposti a cui sottoposti non erano il comune dei Farisei.
Testimone quel rilevantissimo passo della Misnà ove a chiare note si
distingue il semplice Fariseo, il semplice Talmid haham, da quello
che ivi stesso si noma _Haber_; e le norme ivi stesso si dettano e
le regole che dovranno all’ammissione presiedere dello stesso Talmid
haham, prova se altra fu mai irrecusabile, a parer mio, come a senso
della Misnà Talmid-Haham e Haber non sono sinonimi; ma il primo di
semplice Fariseo alla più elevata condizione può trapassare di Haber, e
come io intendo di Essena di Terapeuta. Curiosissima indagine sarebbe,
tutte le parti della rabbinica enciclopedia perscrutare ove dei
Haberim è menzione, ove questa società innominata, indeterminata, ha
lasciato di sè traccie sensibili. Vedreste in primo affaticarsi i tardi
comentatori come il Maimonide a giustificare l’appellazione di Haber ai
Farisei conceduta, e ragioni così esigue, sì aeree allegare _che dopo
il pasto hai più fame che pria_. Siccome quella V. G. che il Maimodine
proponeva non per altro, dicendo, chiamarsi i dottori Haberim o soci se
non per che _fida e durevol società è la loro_, quasichè non resultasse
da tutto il Talmud lo speciale e superlativo indirizzo dei _Haberim_;
e quasi infine generale denominazione fosse cotesta dei Farisei, e non
piuttosto ad una parte di essi peculiarissima, siccome ho abbastanza,
se non erro, provato. Vedreste poi la memoria dei Haberim tornar
frequente e rinomata nelle pagine del Talmud, li vedreste nel trattato
Niddà, comechè fosse da lungo tempo il sacrifizio abolito, nelle
antiche lustrali aspersioni perseverare colle ceneri della vacca rossa.
_I Haberim_, dice il Talmud, _tuttora aspergono di acque lustrali
in Galilea_. Vedreste dottori contraddistinguersi con questi nomi e
intitolarsi come dai Haberim _Zeirà demin Habrajà_. Vedreste in altri
luoghi i dottori dirsi in generale Haberim, non perchè tutti lo fossero
attualmente, ma perchè tutti erano capaci di divenirlo. «Haberim
Machscibim elu Talmidim scemachscibim zè lazè baalakà» Vedresti nel
trattato Sciabuot, cap. 4, i dottori l’un l’altro scrivendosi, col
noto nome appellarsi di Haber e con quello diverso sì, ma equivalente,
di Amit. Vedreste due fatti che più davvicino ci accostano alla
consorteria degli Esseni: in primo luogo nel Talmud quelle larve, quei
fantasmi che in sembianza umana era dato di suscitare apertamente
dirsi _fattura dei Haberim_, lo che a dirittura ne mena il pensiero
al carattere ascetico taumaturgico del nostro istituto. Vedreste
poi non più nel Talmud, ma lo che è più, lo che è tutto nella nostra
disquisizione, vedreste nel Zoar, che è quanto dire nell’Emporio del
cabbalismo, un fatto semplicissimo ma d’una immensa rilevanza a parer
mio, ed è questo: che la sola, la comune, la indistinta denominazione
che tutti recano i dottori cabbalisti, quella e non altra si è di
Haberim, o come in dialetto arameo ivi costantemente si legge, Habrajà.
 
Io non so se mi faccio illusione, ma più che non fôra mestieri parmi
aver argomenti accumulato a provare l’esistenza di un legame, di un
vincolo sociale in seno al farisato. Lo prova il carattere e il nome
tanto significantemente ripetuto di Haber, lo prova di più l’atto di
ammissione di iniziazione, che i libri rabbinici chiamano, come vi
dissi, _cabbalat dibrè Habrut_ e di cui le norme, le forme tutte sono
prescritte nella Misnà e nel Talmud.
 
Abbiamo perciò esaurito quanto di più concludente ci offrono gli
antichi rabbinici monumenti? Oso dire che rispetto alle cose che
intenderete, poco parrarvi l’udito sin ora. Io vi dissi, e non è
molto, che sino quasi ai nostri tempi non si credeva in generale
che le opere rabbiniche dei primi secoli dell’Era volgare niuna
traccia contenessero di Esseni e di Essenato. Oggi però si comincia a
sospettare il contrario e non poco studio si rivolge a quante vestigia
per avventura ne conservano i libri talmudici. Io credo aver posto la
mano su tale memoria che mentre attesta come vedrete la identità degli
Esseni e dei Haberim, ci fa udire forse per la prima volta sul labbro
ai dottori vivo e parlante il nome di _Essena_, ed in circostanze
e ad uno intendimento siffatto che il valore ne accrescono a mille
doppi. Giudicatene voi stessi. Narra il Talmud gerosolimitano come
un _Assià_ (alla lettera medico o terapeuta) chiedesse ad un dottore
la comunicazione del nome di Dio, come questi lo interrogasse se
mai avvenuto gli fosse di profittare degli averi altrui, come a ciò
replicasse l’Asseo dicendo essere uso cibarsi della decima che si
prelevava sulle derrate, e come infine concludesse il dottore dicendo:
non potersi comunicare il santo nome di Dio a chi riceva d’altri
qualsiasi cosa in dono. Quanti dubbi, quante domande non provoca il
frammento citato! Chi è questo medico o Terapeuta così voglioso di
conoscere addentro _i nomi di Dio_ quasi fossero aforismi ipocratici?
Che è questo inaudito cibarsi della decima in chi non appartiene
alla tribù di Levi? Che cosa significa questa condizione posta alla
desiderata comunicazioneil nulla ricevere in dono? Ma quanto bene,
se si accettano le nostre premesse! Avremmo allora nell’_Assià_ del
Talmud il vero e proprio nome dei nostri Esseni; nella sua domanda, una
domanda che nulla più confacente ad uomini che studiavano le arcane
cose contenute nella legge di Dio, e sopratutto i nomi divini, i nomi
degli angioli che apertamente impromettono di gelosamente custodire nel
loro giuramento d’amissione, e tanto più a costoro conveniente s’egli è
vero ciò che noi reputiamo verissimo, che non altro fossero gli Esseni
che gli antenati dei cabbalisti ai quali mirabilmente si acconciano
siffatte speculazioni. Ma che cosa, direte, è la decima di cui si
cibano? Ovvio lo intenderla purchè vi piaccia con me convenire che non
altro sono gli Esseni, non altro quindi il nostro _Assè_ o Assià del
Talmud, che i Haberim o soci talmudici, gli uomini delle raffinate
purità. Perciocchè di questi si legge nello stesso Talmud di Gerosolima
(Sota cap. 9) che della decima si cibavano al pari dei poveri e dei leviti.

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