2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 28

Storia degli Esseni 28



Non solo: ma il nome di _Haberim_ soci è dato dallo stesso Talmud
(Nedarim VI) a quei Harasc e Masgher (alla lettera falegnami e
fabbriferrai) che si narra nei Re essere stati trasferiti in numero di
mille per ordine del vincitore da Gerusalemme a Babilonia. E finalmente
un visitatore d’infermi, anzi un loro assistente, era detto nel Medrasc
(Berescit Rabbà sez. XIII) appartenente al ceto dei Haberim; senza
dire di altri luoghi moltissimi in cui tal nome ritorna; segnatamente
nel Talmud già citato (Ghittim Iº) ove i _Haberim_ o soci si fanno
interpreti delle dottrine di R. Jeosciuah. Ben Levi, uno dei dottori i
più manifestamente cabbalisti di tutto il Talmud.
 
Io dissi non ha guari come il carattere di questa iniziazione talmudica
partecipi in grado eminente del carattere generale del Talmud, che mira
unicamente ad un complesso di osservanze più minute, più rigorose,
alla costituzione di una frateria vivente con regole più severe di
purità religiosa; dissi in fine che la iniziazione onde è discorso non
si mostra nei libri talmudici, che dal lato suo rituale e positivo,
per la semplicissima ragione che il lato rituale e positivo è quello
che universalmente primeggia nelle pagine talmudiche. Quindi è, che
solo brevi fugacissimi lampi ci è dato vedere per entro al Talmud
della interiorità, del midollo del lato ideale dottrinale dogmatico,
dell’istituto medesimo e sotto l’opaco velo talvolta adombrato
dell’essoterismo dei riti. Egli è per questo che dovremo credere
null’altro esser i Haberim del Talmud che uomini più gelosi degli
altri del governo del corpo, dei reciproci contatti, del lecito e
dell’illecito? Io credo che la conclusione sarebbe assurda in principio
ed assurda in fatto, e come oggi si dice _a priori ed a posteriori_.
Perchè dico assurda in principio? Perchè egli è contro ogni sana
induzione il supporre un’organizzazione, vuoi sociale, vuoi religiosa,
un complesso di pratiche, una regola di azioni senza alcuni grandi
principî che siano di quell’organismo la vita, l’anima, il pensiero,
il genio supremo; perchè non appena mi vien fatto di udire il verbo
dell’uomo, di assistere all’esercizio ragionevole dei membri suoi,
di udirlo parlare, muoversi, agire, io sono senz’altro e per questo
solo criterio fondatissimamente autorizzato a supporre in lui comechè
invisibile, un principio ragionevole che le azioni ne governi, un
complesso di idee di pensieri che sieno come le molle dell’azione che
mi si spiega dinnanzi, in una parola l’anima di quel corpo. Ho detto
che sarebbe anche un errore di fatto. Perchè s’egli è vero, come ho
già detto, che l’elemento dottrinale del talmudico _Haberut_ sia in
gran parte invisibile, non è sì che altri monumenti, altri attestati,
altre sorgenti non soccorrano all’uopo; non suppliscano a quanto ha di
manchevole la storia talmudica del _haberut_; non completino di esso la
verace fisonomia e quella non restituiscangli che nei libri talmudici
fu unicamente abbozzata. E dove si trova questo? Lo si trova ove deve
naturalmente, ove non potrebbe a meno di trovarsi: nel libro del
_Zoar_: che è quanto dire in quel libro che adempie verso le dottrine,
il dogma, la teologia, l’acroamatismo, quell’ufficio medesimo che il
Talmud verso la pratica, il rito, l’essoterismo.[72] Per modo che il
Zoar e il Talmud ci forniscono per parte loro una metà per ognuno della
fisonomia del _Haberut_, e quella appunto che alla indole speciale
si attiene di ognuno: le quali parti poi insieme combinate non solo
bellamente si connettono, si completano, si integrano, prova se altra
fu mai della loro intima originaria unità, ma ci danno ancora il vero
e fedele ritratto che andiamo cercando. Che voglio dire pertanto?
Voglio dire che il Zoar ci offre la iniziazione al _Habrut_ da quel
lato che manca precisamente nel talmud dal lato dogmatico, voglio
dire che il Zoar contiene per gran ventura pochi, ma preziosissimi
fatti, in cui la iniziazione di cui si parla assume il colore proprio
al genio dell’opera; e più palesi ne rivela le armonie coll’istituto
che studiamo colla società degli Esseni.[73] Io lo credo fermamente.
Percorrendo con occhio diligente le pagini del _Zoar_, parecchie altre
non meno gravi dimostrazioni, non meno appropriati esempj si potrebbe
scuoprire. Ma chi potrebbe a tanta opra non venir meno? Io non pretendo
aver ogni ricerca esaurita; e pure due grandi esempi mi fu dato
trovare, due grandi scene di cabbalistica iniziazione, due ritratti
parlanti dello _Epopsi_ essenico-cabbalistico, l’ultimo specialmente
che per la maestà e stupenda semplicità vince ogni credere. E il
primo al vol. 2º p. decimoquarta, ove tu vedi il maggiore dei Hyà,
Rabbi Hyà Rabbà, tutte subir le prove, le esitanze, le trepidazioni;
e infine il premio dei nuovi iniziati; ove lo vedi soffermarsi alla
porta del capo-scuola e per parlare il linguaggio dei misteri, del
Jerofante; qui naturalmente non altri che R. Simhon ben Johai ove
una cortina il divide dal seggio e dalla scuola venerata, ove ode
la voce delle sacre dottrine e vaghezza il prende di penetrare, ove
l’esitazione s’impadronisce dello stesso ben Iohai non sapendo se degno
sia il nuovo venuto di partecipare ai santi misteri, ove tu vedi il
figlio suo R. Eleazar profferirsi di fare da Epopta, da introduttore
al dotto straniero, dovesse ancora, siccome testualmente si legge,
restarne incenerito; ove una voce si dice allora essersi udita la quale
con parole che tuttavia riescon dure ad intendersi, sembra volere
il soverchio zelo affrenare del giovane dottore; ove lo straniero
rinnuova il pianto e le suppliche; ove aperta infine la cortina, si
rimane nonostante lo straniero esitabondo non osando penetrare; ove
infine levatosi R. Simone, egli stesso introducelo, e vedendo il nuovo
iniziato gli occhi tenere sommessi e il capo chino per timidezza
soverchia, ordina al figlio suo, udite singolarità! di fare a R. Hyà
quell’atto così celebre, così comune a tutte le società che vivono di
segreto, voglio dire, la chiusura e l’aperizione della bocca.
 
Ma quanto il secondo sovrasta d’incomparabile maestà! Egli appartiene
a uno di quei due antichissimi frammenti la cui autenticità l’ossequio
ebbe eziandio di coloro che più dubitosi procedevano intorno all’opera
in generale; e che sotto il nome sono conosciuti di due Iddarot.[74]
È in quella che il titolo riceve di maggiore, che il venerato maestro
R. Simone intendendo i più sublimi misteri ai discepoli rivelare,
è sovrappreso dapprincipio da cruda perplessità; non sa se parlare
o tacersi; chiede una parola che a dire lo conforti; e questa
parola si fa finalmente sentire. Egli è R. Abbà il futuro scriba e
compilatore del Zoar[75] che supplicante gli dice: Deh! o maestro,
ti piaccia liberamente favellare perciocchè si trova scritto: «I
misteri del Signore sono per coloro che lo temono» e cotesti fratelli
tutti timorosi sono di Dio; e in altri augusti consessi sedettero e
felicemente ne uscirono. Sedette R. Simone e pianse. Quindi sclamò:
Guai se svelo e guai se mi taccio! I soci che si trovavano là si
tacquero. Ma sorse R. Abbà e disse: «Piaccia a te, o maestro, di
svelarci i misteri, perciocchè dice la scrittura: il mistero di Dio è
per chi lo teme. Ora questi nostri compagni tutti temono Iddio e già
furono introdotti nella camera del tabernacolo.» Allora dopo avere
tutti gli assistenti passati in rassegna, tutti in circolo si posero
intorno al maestro. Le mani loro ei raccolse e fra le sue le strinse,
e poi quasi in atto di giuramento tutti levaronle al cielo, il cielo
chiamando a testimone della sete che tutti consumava per la parola di
Dio. Quindi, dice il Zoar, trassero ai campi la prediletta dimora,
e là, dice il testo, all’ombra degli alberi sedettero tutti; e il
venerato maestro dopo avere in piedi orato, sedette pur esso. Ma egli
è qui dove si vede quel riscontro che io dapprincipio avvertiva tra il
giuro degli Esseni e il sacramento dei cabbalisti. Perciocchè, dice il
Zoar, non appena seduti impose loro il maestro che le mani di nuovo
ognuno fra le sue ponesse,[76] _sul suo petto_ come legge un testo,
_sul proprio cuore dei giuranti_ come legge un altro; e dopo aver tutte
in un fascio strette le mani ai discepoli, terribilmente prorompe con
quella spaventosa imprecazione con cui i leviti sulla montagna di
Ebal dovevano la vendetta di Dio invocare sul capo degli Idolatri, e
_maledetto_ con essi ci grida _colui che immagine o scultura facesse
opera di arte e tenesse celata_; volendo con questo premunire i
discepoli contro ogni arbitraria e personale intrusione di umani
opinamenti, di umane innovazioni nel giro del misterioso insegnamento:
prova tra mille come da ogni straniera importazione profondamente
abborrissero i Patriarchi del cabbalismo, e come stranamente vadano
errati coloro che la origine del cabbalismo ripongono nelle anteriori e
contemporanee scuole di filosofia orientale.
 
Ma la fedeltà non è unico dovere che il maestro imponga ai discepoli:
egli ricorda loro immantinente _come la riserva, il segreto comandato
dalla legge nelle cose del mondo, nelle cordiali espansioni dell’amico
che il cuore ci apre; a mille doppi allora più doveroso che Dio stesso
ci apre, a così dire, la mente sua sacrosanta, ci inizia ai suoi
misteri, ci fa copia dei suoi segreti, i quali voglionsi con quella
gelosia custodire che basti agli sguardi sottrarli dei curiosi, degli
indegni e dei profani_. Quante cose egualmente preziose contenute
in questo mirabile esordio! Quale inesausta miniera di peregrine
indicazioni! Oltre la maestà del quadro, e a tutto dire il pregio
estetico di questo prologo sublime, innanzi a cui impallidiscono
le più vivide gemme della classica antichità; quanti bellissimi
documenti per noi per la società degli Esseni, per la identità da noi
propugnata! Prima di tutto il giuramento; tema della presente lezione,
il giuramento che chiaro spicca e luminoso dal fondo del quadro. E
poi quante conferme, quanta maniera di prove, quante nuove e minute
attenenze! Il grado più eccelso della iniziazione cabbalistica, il nome
di _soci_, di _fratelli_ così parlante, così chiaramente alludente ad
una consorteria, ad un legame sociale. L’amore dei campi e degli alberi
ombrosi, il mistero comandato, l’orrore delle innovazioni così proprio,
come vedremo, agli Esseni medesimi; e finalmente quella attitudine con
cui si dipingono colla mano sul petto. Verrà tempo, quando parleremo
del culto e delle pratiche degli Esseni, che la storia antica,
ignara assolutamente del Zoar e delle sue dipinture, ci parlerà di
una attitudine curiosa inesplicata che soleano prender gli Esseni,
una mano lasciando andare sul fianco, l’altra al cuore premendo,
allora il ravvicinamento fra il Zoar e la vita degli Esseni si farà
spontaneamente, naturalmente nell’animo vostro; si farà senza neppure
che a così fare siate guidati per mano, ed allora crederete anche voi
alla identità delle due scuole.
 
«A guisa del ver primo che l’uom crede»
 
 
 
 
LEZIONE DECIMASESTA.
 
 
Noi abbiamo nelle passate conferenze accennato all’Essenico giuramento.
Dobbiamo adesso questo giuramento osservare più da vicino; dobbiamo
brano a brano sottoporlo a disamina; dobbiamo al tempo stesso a
quell’ufficio comparativo adempire che imprendemmo a principio,
rilevarne cioè le idee, gli obblighi in seno al Farisato nei suoi
volumi, nei suoi dottori, onde quella identità emerga sempre più
luminosa che fu nobilissimo compito di queste lezioni.
 
Principalmente dicono le istorie: giurava il nuovo Essena _Adorare e
onorare Iddio, e giustizia e carità serbare alle sue creature_.
 
Parvi egli sterile insegnamento cotesto?
 
Parvi egli che queste idee a prima vista sì ovvie, sì comunali, così
oggi universalmente consentitenon offrano per nulla argomento alla
critica ed alla istoria? Così veramente sarebbe se le glorie nostre,
le nostre dottrine fossero state sempre nostre credute, se niuno
avesse preteso redare l’unico retaggio glorioso che i padri nostri ci
trasmisero, il _maestrato di Religione_; se il primato niuno ci avesse
conteso nella proclamazione delle più sacrosante verità religiose e
morali; se quando lo Evangelo insegnava _Ama Dio sopra ogni cosa e il
prossimo tuo come te stesso_, ognuno applaudendo alla santità della
massima, all’eco fedele della ebraica morale, non si fosse l’ebraismo
fraudato della legittima priorità che gli spetta; se si fosse ognuno
di Mosè ricordato quando _l’amore_ prescrive _di Dio al disopra di
ogni cosa terrena più degli averi, più degli affetti, più della anima
nostra_; quando imprecando alle vendette private prescrive _l’amore
del prossimo come se stesso, fosse pur egli nemico nostro_, siccome
manifesto appare dal contesto; se rammentato avesse Illel, lo stipite
glorioso del Dottorato palestinese; quando al gentile che anelava alla
cognizione della legge_Ama_, gli rispondeva, _il prossimo tuo come te
stesso. Ecco tutta la legge. Il resto n’è la chiosa_; di Rabbi Hachibà
quando insegnava: _Ama il prossimo tuo come te stesso; ecco della
legge l’assioma supremo «Ze Kelal Gadol battorà»_ di Ben Azzai quando
riponeva cotesto assioma nel dettato mosaico: _Ama il Signore Iddio
tuo come tutto il tuo cuore_, l’altro elemento in tal guisa fornendo
della morale evangelica. Se infine, per tornare agli Esseni, obliato
non si fosse il giuramento che tra essi il novizio prestava ove la
morale evangelica costituisce il prodromo, la base dell’Etica degli Esseni.Proseguiamo l’esame intrapreso. 

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