2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 29

Storia degli Esseni 29


Essi giuravano dopo le cose
anzidette _di non nuocere a chicchessia, sia per propria volontà, sia
per dovere di ubbidienza_, e noi vedremo in seguito, quanto fedelmente
osservassero gli Esseni gli obblighi assunti, vedremo quant’oltre
spingessero l’orrore del _nuocere_ altrui sino al punto d’interdirsi
il maneggio e la fabbricazione delle armi da guerra; sino al punto di
non offrire ad altri ne manco indirettamente i mezzi di distruzione; e
nuova e inaspettata armonia allora sorger vedremo tra Esseni e Farisei.
Per ora una idea, una parola sorge degnissima di nota nel paragrafo
ricordato. Voi l’udiste, il dovere dell’ubbidienza. Come intendevano
gli Esseni il dovere dell’ubbidienza? In quella guisa appunto che i
Farisei. L’obbedienza non cieca, non gesuitica, non assoluta, non
la teoria assurda, immorale, che annulla l’arbitrio, la libertà, la
responsabilità umana sotto il giogo macchinale inintelligente di una
autorità collettiva. L’obbedienza sino all’ara, sino al dovere, sino
al santuario della coscienza e come dicevano gli antichi _Usque ad
aram_. Obbedienza ove cose non s’impongano contro la voce di Dio e
della coscienza _En scialiah lidbar aberà_. Obbedienza che al suddito,
alla creatura non conceda quel primato che si deve al Creatore _Dibré
arab vedibré attalmid, dibré mi sciomein_? Obbedienza che ha un
limite insuperabile nella nozione chiara del dovere che favella alla
coscienza; tanto, che ove il sommo magistrato della nazione imponga
l’esecuzione di cosa che osti direttamente ai principj ricevuti, la
rivolta, la disubbidienza, non solo è chiarita giusta e legittima,
ma pur anche doverosa, _Bet din scesciaghegù veorù laakor guf
migufé torà veasa akaal al piem, bet din peturem, vehol ehad veehad
haiabim_. Obbedienza che non solo la conformità per tal guisa ci
manifesta tra Farisei ed Esseni, ma quella non meno tra ambedue e i
Pitagorici; dei quali dopo aver alquanto discorso l’illustre Gioberti
nella _Protologìa_, così seguitava dicendo:_Ciò basta a mostrare,
che intento del pitagorismo non era di spegnere e snervare il genio
individuale nazionale e le virtù native dei soci, ma di avvalorarle,
che l’individuo non ci era soggetto a una obbedienza cieca, nè immolato
a una falsa unità innaturale, e che insomma la compagnia di Pitagora
non era come quella di Gesù_. Obbedienza infine che svela quanto
erroneamente si vada del continuo identificando spirito farisaico e
spirito gesuitico, quasi due aspetti di un sol tutto, mentre nulla
havvi, a mirar bene, di più ostile, di più repugnante.
 
Giuravano poi di serbar la fede ai magistrati, ai rettori dello Stato,
conciossiachè senza la volontà di Dio stimavano non fosse stabilita la
loro potestà. Che cosa s’intende per _Maggiori_, per _Magistrati_ e
per _Rettori_? S’intenderà forse pegli Esseni, i principi e dominatori
stranieri che Dio prepose al governo di Palestina; dei principi tra
cui gli Ebrei emigrarono dopo la distruzione del Tempio? Io non saprei
categoricamente rispondere: ma se pure così s’intendeva, ella non è
la prescrizione degli Esseni senza precedenti, senza esempj grandi
autorevoli nella ebraica antichità. Non lo è nei profeti, dove Geremia
il popol suo premunisce contro la disperazione, la irritazione e le
tentazioni vane perigliose dello esilio, siccome quello che voluto e
preordinato era da Dio pietosissimo alle mire ultime e adorabili della
sua provvidenza, dove li esorta di cercare nella salute del popolo, tra
cui emigrarono, la propria salute, nel suo bene il proprio bene, e una
seconda patria riconoscere ovunque li balestrasse fortuna, preludendo
con questo consiglio a quel genio cosmopolitico che i padri nostri
spiegarono nella loro dispersione; genio e fattezze assumendo secondo
lo speciale asilo in cui ripararono senza pregiudicare però all’intima
propria speciale caratteristica di ebreo; e con maraviglioso magistero
in uno accoppiando e il cosmopolitismo più generale e il più stretto
e rigido particolarismo di nazione e di fede. Non lo è in secondo
luogo nei dottori fedeli in tutto e continuatori legittimi dei profeti
loro predecessorj, quando sotto il flagello eziandio della spietata
dominazione romana ammonivano i fratelli a pregarne da Dio la salute,
la conservazione per quella ragione grande, filosofica, umanitaria, che
sotto alla più orribile tirannide vede sempre la fautrice dell’umano
e civile consorzio, l’ultimo vincolo della società perigliante, e che
ogni più barbaro reggimento preferisce alla sociale dissoluzione e alla
vita ferina e eslege delle genti selvagge.Raro esempio di meravigliosa
abnegazione e di stupenda imparzialità di giudizio che fa tacere i
più legittimi nazionali risentimenti di fronte all’ultimo e supremo
bene della società in pericolo, quando nel Medrasc Coelet in nome di
Dio scongiuravano i fratelli a tollerare pazientemente i decreti,
fossero pure dei più acerbi che loro imponessero i nuovi padroni, che
non ne scuotessero insofferenti il giogo comunque durissimo.Che se
poi per l’autorità a cui giuravasi dagli Esseni obbedienza, vorremo
piuttosto intendere l’autorità religiosa, i maggiori, gli anziani, i
principi della Scuola, e’ non sarà senza grave autorità fra gli antichi
che a così intendere ci ammonisce. Io vo’ dire di Filone; il quale
parlando del giuramento essenico, lo spiega appunto in quel senso che
non ha guari udiste, che è quanto dire degli anziani, dei dottori,
dei sacerdoti, ed al voto dei più tra i soci, tra i riuniti fratelli.
In questo senso sarà egli mestieri cercarne esempj precedenti,
similitudini nelle dottrine, nei fatti della storia dell’Ebraismo?
Io oso dire che nulla havvi di più naturale, di più proprio, di più
speciale nell’Ebraismo, non solo dell’ossequio, della riverenza dovuta
ai grandi, ai dotti, ai magistrati della nazione; ma quello che più amo
farvi notare perchè men conosciuto, si è l’ossequio, si è la deferenza
all’opinione comechè dalle proprie, dalle comuni differenti. Testimone
R. Josè che, interrogato come avesse da Dio meritato di vivere così
longevo, rispose tra le altre cose di non aver mai preso a vile i
dettami dei suoi colleghi comunque dal parer suo differissero; che
così oltre ei spingeva l’ossequio, al parere altrui, che non ostante
destituito ei fosse di carattere sacerdotale, esercitato nonostante
ne avrebbe i pubblici offici, quando così fosse piaciuto ai colleghi.
Testimone R. Achibà, quando sostenuto da lungo tempo in prigione, e
vedendosi venire allo stremo quel poco d’acqua che giornalmente gli
si forniva, preferì piuttosto impiegarla all’abluzione delle mani
come volevano i colleghi, che valersene ad estinguer la sete che il
divorava, come aveva egli stesso altra volta opinato. Testimone il
discepolo suo, R. Simone, quando uscito dopo 13 anni di reclusione da
una oscura caverna, sgridò colui che in onta all’opinione dei suoi
colleghi andava mietendo alcune spiche cresciute nell’anno sabbatico,
nonostante che si giovasse, come ei si scusava, dell’autorità dello
stesso Simone. Testimone Accabià figlio di Maalalel, che dopo avere in
onta ai colleghi costantemente sostenuto alcuni principj, sendo vicino
a morire chiamò il figlio suo, e l’abbandono gli impose delle tesi
proposte.
 
Ma gli Esseni non si contentavano di praticare il rispetto ai maggiori,
alle autorità vuoi politiche o religiose; essi ne davano la teoria.
Ei dicevano, e voi l’udiste, che l’autorità era essenzialmente
d’istituzione divina, e come quella che era da Dio preposta al governo
degli uomini tributavangli reverenza. Il credereste! Erano i Farisei
non solo nella pratica agli Esseni conformi, ma lo erano eziandio in
teoria. Ei credevano niuno poter venire assunto al reggimento degli
uomini, se a questo officio non fosse stato anzi tratto destinato dal
cielo; ei credevano che non solo a questa prerogativa partecipassero i
principi e rettori delle nazioni, ma qualunque altra benchè subordinata
autorità, e come essi testualmente si esprimono, eziandio gli esattori
di balzelli, e come allor si diceva, i Pubblicani.
 
Noi abbiamo veduto quali principj professassero gli Esseni sulle
autorità costituite: vediamo adesso come ne intendessero e
praticassero l’esercizio. Giurava l’Essena nella sua ammissione,
che ove egli dovesse un giorno comandare ad altrui, si guarderebbe
dall’imperare con fasto, con alterigia. Come intendevano i Farisei
l’esercizio dell’autorità? Ei volevano nel soprastante scopo nobile e
puro, e tutto rivolto a gloria e a servigio di Dio, _vehol aosechim
ghim azibur ijù osechim immaeim lescem sciamaim_. Essi esigevano
una pazienza, una longanimità nei Rettori del popolo a tutta prova;
di subire dei soggetti i capricci, le rivolte, gli scherni e l’odio
ancora; e per tutto in breve compendiare, di sostenere imperterrito
quel fantasma che spaventa i falsi amici del popolo, e che è sfidato
e vinto dai suoi amici veraci, la impopolarità «_Al menat sceischehlù
ethem; al menat sceibzù ethem_,» essi imprecavano a quei maestrati,
a quei superiori che spargono di sè terrore e spavento in cuore ai
soggetti, _veassotem resciaim ascer natenú hittitam beerez haim; zè
parnas amattil emà al azibur_. Essi benedicevano invece alla memoria di
quelli che il gregge di Dio pascolavano con verga di mansuetudine e di
clemenza, _col parnas scemanhig et azibur benahat, zohè umanigam leolam
abbà_. Essi proclamavano, or sono 30 secoli, quando la forza reggeva
a sua posta i popoli soggetti, quando l’unico diritto degl’imperanti
era il diritto del più forte, quando si credeva generalmente il popolo
esser fatto pei principi anziché i principi pei popoli; essi quella
teoria politica proclamavano onde si onora il secolo nostro, che è base
dei governi più civili, e che nel principe considera unicamente il più
eccelso ministro, il più eminente servitore dello Stato, della nazione,
_vehi serarà ani noten lahem? Scihbud ani noten lahem_.
 
Giuravano poi d’amare sempre la verità, e di svelare i mentitori.La
verità! Niuna cosa più amarono nè più riverirono in atti e in parole
i Farisei.La verità impone Mosè proseguire in ogni cosa «_Midebar
scecher tirhak_.» La veracità posero per condizione i dottori onde
conseguire la visione di Dio, da cui dissero separati in eterno i
mentitori. Verità praticarono, e verità rigidissima, nelle civili
transazioni; testimone quel Rab Safraà che avendo in cuore aderito
ad un prezzo propostogli, ricusò quell’aumento che immediatamente
profersegli il compratore standosi contento di quello che aveva per
lo innanzi in cuor suo accettato. Testimone quell’altro, che essendo
uscito a diporto fuori della città, ed essendosi con altro dottore
a caso imbattuto che tolse a ringraziarlo per essergli, siccome
credeva, uscito ad incontrare, ingenuamente confessò non aver egli
avuto siffatto intendimento. Testimone quell’orrore in cui ebbero
ogni ipocrisia e simulazione alla quale sotto il nome imprecarono di
«_Goneb dahat Abiriot_.» Sino al punto d’interdire ogni apparenza che
un simulacro offrisse di Pietà o Religione non sentite; che dico? che
ponesse in luce o divulgasse pratiche eziandio realmente osservate;
testimone tra gli altri lo esempio di quel dottore non troppo dai
nostri tempi remoto, che trovandosi in amica brigata un certo giorno
che trascorreva in digiuno, ed essendosi ad ognuno presentata ospitale
bevanda, amò meglio troncare, che palesare la particolare sua devozione
ai circostanti. Tanto è vero che a niuno meno che ai nostri antichi
dottori si potrebbero quelle accuse attagliare che una Religione
rivale non cessò di scagliare in capo ai Farisei. E quanto non riesce
la loro veracità più ammirabile al confronto! Al confronto dico di
un popolo allora esistente che lo stringeva da ogni parte colle sue
leggi, colle sue istituzioni, coi costumi; che aveva dato al mondo la
sua letteratura, la sua scienza, la sua lingua, e che maestro sedeva
allora di civiltà alle genti. Voi l’avete nomato: ella è la Grecia,
la Grecia il cui carattere del mendacio, dice uno scrittore inglese,
passò perfino in proverbio, che Luciano e Giovenale rimeritarono colla
ironia e col vilipendio; e che in niun luogo così manifestamente si
appalesa come in un passo di Plutarco, ove togliendo a dimostrare la
opportunità di vincolarsi talvolta con certi voti agli Dei, egli novera
tra i voti, possibile tra i laudabili, quello di astenersi per un anno
dal vino e dalla lussuria, e quello infine di interdirsi per un certo
tempo ogni menzogna: prova a parer mio manifesta come l’eloquio dei
Greci ordinario, abituale, non solamente tollerasse, ma quasi non dissi
esigesse, l’ingrediente indispensabile della bugia. Ecco quale era
l’ambiente morale in cui vivevano i Farisei, ecco l’esempio che porgeva
la pagana civiltà, ed ecco quali seppero in mezzo a sì grand’infezione
conservarsi; puri, veridici, odiatori del falso e del simulato, della
maschera d’ogni maniera. Ed ecco nobilissimo pregio ove, a differenza
_dei popoli dominanti_, convengono insieme Esseni e Farisei.
 
Ma gli Esseni non solo vogliono che si ami, che si pratichi veracità;
esigono ancora, e voi l’udiste, che si svelino i mentitori. E i
mentitori svelati vogliono essi pure i Farisei quando insegnano _mizvà
lefarsem et ahanefim_, quando dicono cioè dovere ognuno strappare la
maschera di faccia agli ipocriti, doverne mostrare i vizi e l’abiezione
denudata, dovere trarre d’inganno coloro che presi sono dal fàscino dal
bagliore di una falsa virtù.
 
Giuravano gli Esseni di serbare _le mani incontaminate da ogni illecito
lucro_, che è quanto dire da quei raggiri, da quelle trappole che pur
sono tollerate in società, e che non sono giudicabili che dal fòro
interiore. Il nostro Farisato non ha bisogno di chiarirsi innocente di siffatte bassezze:

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