2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 32

Storia degli Esseni 32



Ma l’Ebraismo, voi lo sapete, ha due ère, due grandi, e come oggi si
dice, organici periodi; Bibbia e Talmud, Profeti e Dottori, ispirazione
e scienza, parola scritta e parola parlata. Abbiamo veduto della
comunanza di beni gli avvisi nell’epoca prima; vediamone adesso i
segni, il passaggio nella seconda. Questi segni e queste vestigia di
due constano principalissimi ordini: idee e fatti, teorie ed esempj,
principj e pratica applicazione. Si trova la povertà insegnata in
principio, si trova poi in fatto applicata, esercitata. La povertà
proclamata in principio, e questo è già molto; ma assai più sarà,
se non sbaglio, quando vedremo a chi riferita, quando vedremo qual
portano nome i suoi professori. Io ebbi parecchie volte occasione di
ripeterlo, l’ho secondo me innalzato al grado di fatto presso che
dimostrato. Il nome con cui pei rabbini si distingue l’Essena è quello
di Kassid, e riandando tutte le prove da me in mezzo recate, troppo più
oltre la bisogna procederebbe che non fa di mestieri. Questo per certo
riteniamo, come l’abbiamo ad esuberanza provato, che il nome Hasid è
sinonimo in bocca dei Dottori a quello che Giuseppe Flavio ci trasmise
di Essena e Terapeuta.
 
Or che sarà se oltre i contrassegni infallibili onde questi nomi per
noi si confusero, s’identificarono, questo pur esso si aggiungesse
della comunanza dei beni? che sarà se oltre le condizioni tutte che
abbiamo veduto comporre la personalità del _Hasid_, quello pur esso
udissimo annoverarsi della povertà volontaria? E pure oso dirlo, nulla
di più ovvio, dirò anche, di più ripetuto. E la parte più popolare
del testo Misnico, e il trattato più accessibile, più conosciuto, più
recitato di tutta la vasta raccolta, è quello che ricorre eziandio
sulle labbra dei parvoli, che prezioso ne acchiude e perentorio
insegnamento. E pure non si comprese; e pure tanto può di luce ed
evidenza diffondere uno storico ravvicinamento. E pure era tanto
facile comprenderlo quando si fosse agli Esseni pensato, quando si
lesse nel Testo: _Colui che dice il mio è tuo, il tuo è tuo_, egli è
_Hasid_; vi fu nessuno che dubitasse che sì dicendo si alludesse ad
alcun che di storico, di reale, di organico istituto? Quando si lesse
ivi stesso per contrapposto: _Colui che dice il mio è tuo e il tuo
è mio_; vi fu nessuno che pensasse a quei famosi progetti che dopo
Platone e Licurgo correvano per il mondo di repubbliche, di città
socialistiche; chi esaminasse se in questa frase approvato o riprovato
fosse il sistema dai nostri dottori? Certo ch’io mi sappia, nessuno: e
se qui il luogo fosse di trattarne per disteso, quanto non riescirebbe
interessante l’ultimo di tai raffronti eziandio? Platone, Licurgo,
Fourier, Saint-Simon, Blanqui, Owen, giudicati dai dotti Ebrei non
sarebbe tema di piccol momento senza dubbio. Ma di questo si taccia
per lo migliore. Solo ci piace insistere sulla prima parte del testo
Misnico, su quel rinunciamento a cui s’allude dei proprj beni in favore
dei poveri. Strana, insulsa, parassita allusione ove un fatto non vi
fosse stato contemporaneo a cui si riferisse, quando si fosse di una
virtù favellato che nessuno praticava, quando si fosse voluto soltanto
un ideale tratteggiare a cui niuno si fosse accostato, quando a fianco
delle altre tre classi reali, esistenti, positive, si fosse una quarta
accompagnata che condannata fosse stata a rimanere esclusivamente
teorica.
 
Ma noi dobbiamo mostrarla questa virtù in azione, dobbiamo passare
nel dominio dei fatti, dobbiamo toccare degli uomini, degli atti,
delle circostanze che di questa essenica istituzione ci offrono in
numero infinito ad esempio i dottori, e così avremo le due grandi
parti della storia ebraica poste a contributo. E prima un tratto
caratteristico che si legge in _Cammâ_. Si narra d’un uomo, che le
pietre che la casa ingombravangli, andava rotolando sulla pubblica
via. Chi passa, direste, in quel mentre? Passa, dice il Talmud, un
_Hasid_, ch’è quanto dire tale che il titolo stesso recava che noi
abbiamo altravolta ad esuberanza provato, proprio propriissimo degli
Esseni, e con mal piglio apostrofandolo si narra che così gli dicesse,
o _Raca_, o Sciocco! _per che le pietre sgombri dal dominio nostro per
gettarle nel tuo verace dominio_? Voi lo udiste. Egli il haisid chiama
suo dominio il dominio comune, la via pubblica, la proprietà comunale;
egli chiama invece dominio non suo la casa, la propria dimora, la
privata proprietà, in quella guisa a un dipresso che quel poderoso
intelletto di Proudhon difiniva un _furto_ la proprietà. _La propriété
c’est le vol_, e spiegava il _Lo tignob_ del Dicalogo come se dicesse
piuttosto _non possedere_. Chi avrebbe pari linguaggio tenuto se non
un Essena, ch’è quanto dire appunto un Hasid, uno di quei cotali che
sotto questo medesimo nome di Hasid ci palesarono in mille incentivi la
società degli Esseni? Ma gli esempj non scarseggiano, che anzi ve ne
sono di avanzo. Fra gli antichi un Monobaze principe degli Adiabeni,
che si dice avere i suoi averi ai poveri distribuito, e Monobaze era,
curiosissimo a dirsi! figlio di quella _Elena_ regina degli Adiabeni
che noi, favellando altra volta del Nazirato, trovammo affiliata
all’ordine dei Nazirei,[81] che è quanto dire, quell’ordine che tante
e sì parlanti analogie vedemmo offrire colla società degli Esseni;
alla quale il figlio suo Menobaze avrebbe in quella guisa aderito che
i principi e monarchi aderiscono alle più illustri consorterie del
loro Stato. E qui pure un _Ribbi Isbab_ di cui si dice essersi di ogni
avere spogliato in favore dei poveri; qui Ribbi Iohanan che traendo da
Tiberiade alla vicina _Zippori_ e giunto presso un campo, voltosi al
suo compagno di viaggio, _questo_, disse, _era mio e lo sarebbe tuttora
se non avessi ad esso preferita la vita studiosa, contemplativa_. E
qui un fatto, un gran fatto che solo dalla storia dell’Essenato, delle
sue istituzioni, del suo voto di povertà, può ricevere lume adeguato,
ed aspetto di verosimile, voglio dire la manìa che invase, l’andazzo,
il trasporto generale ai primi albori del cristianesimo, di togliersi
indosso il grave giogo di povertà, ed eleggersi volontaria indigenza;
che dico? il genio stesso, le parole formali dell’autore del nuovo
culto quando diceva: _più agevole il passare di un elefante per la
cruna d’un ago che un ricco varcare le soglie del cielo_. Quando alle
turbe di seguirlo desiose, imponeva dicendo: _Dividete tutto il vostro
ai poverelli e seguitatemi_; quando _gli ultimi_ diceva _dovere essere
i primi nel regno dei Cieli_; ed altre infinite somiglianti sentenze
che tutte, consuonano coi principj dello Essenato allora in fiore.
 
Potremo dubitarne? Potremo dire che il Cristianesimo, che il suo autore
non abbia volgarizzato le teorie ed i precetti del grande istituto?
Potremo appuntare coloro di errore che colsero tanti strettissimi
legami fra le due sette? Potremo dire che non bene si apponesse un
poeta francese, non ha guari tolto alla patria, quando il fondatore
del Cristianesimo chiamava recisamente _un philosophe Essénien_? Certo
che non potremo, se punto ci cale della verità; ma tutti intenti
nello spettacolo di sì gran filiazione, diremo ai grandi fondatori
del nuovo culto, ai figli un poco degeneri degli Esseni, ai nipoti un
poco ingrati dei Farisei, ciò che Dante disse dei grandi ingegni, _che
vostra arte a Dio quasi è nepote_.
 
 
 
 
LEZIONE DECIMANONA.
 
 
Se la comunanza dei beni fu propria istituzione della società degli
Esseni, come veduto abbiamo nella passata lezione, non meno tralle
altre distinta procedeva, per un altro suo particolare istituto, _il
celibato_. Il celibato fu ed è tuttavia fama avere appartenuto, come ad
altri, così a quello antichissimo istituto eziandio, e gli appartenne
in verità, purché si voglia in questa sentenza procedere colle debite
distinzioni. Che il celibato praticassero una parte, la più ascetica
delli Esseni, nessuno negò, anzi formalmente asserironlo tutti quelli
che degli Esseni presero a trattare da Giuseppe sino ai nostri giorni.
Ma quanto a partito s’ingannerebbe chi volesse a questa regola astretti
tutti quanti gli Esseni! Vi confesso il vero, giovani miei, quando le
prime, le più superficiali nozioni acquistando del grande istituto, mi
venne fatto di leggere questa regola severissima; quando pensai tutti
dover gli Esseni rigorosamente conformarvisi; un dubbio mi assalì,
e dissi fra me: che sarà del mio elaborato sistema, dei raffronti
perpetui dei Farisei, della strettissima parentela, anzi della
perfetta identità tra i due Sodalizj, se il celibato fu invero proprio
costitutivo elemento di quello istituto? In qual guisa gli Esseni
identificare con quei Dottori, che levavano al cielo il matrimonio,
che il gridavano mezzo, condizione di spirituale eccellenza? Ed allora
un certo scoramento mi prese, e dubitai un istante della bontà del
sistema. Ma quanto ingiustamente! La contradizione che si parava
gigante a traversarmi la via, veduta più davvicino, meglio studiata,
meglio analizzata, simile ai giganti che vide l’Eroe della Mancia,
si convertiva in mulini. E per due ragioni e per due diversi lati
deponeva lo scoramento, e quello immenso intervallo che pareva il
celibato frapporre tra le due sette sorelle, era in parte da ognuna
di esse superato e ricolmo. Farisei ed Esseni che il celibato faceva
così discrepanti si porgevano da lungi una mano fraterna, e muovendo
ognuno verso dell’altro fornivano una parte di quella distanza che
dividevali. Si accostavano gli Esseni ai Farisei togliendo al celibato
quel carattere organico, fondamentale che parevagli attribuito, nè
i Farisei meno davvicino agli Esseni si appressavano, parecchi e
grandi e autorevoli esempj porgendosi non solo di celibato fortuito,
involontario, ma di celibato studiatamente voluto, e amato e osservato;
e qual grado eminentissimo reputato di spirituale perfezione. Ma
parlino i fatti più di me eloquenti. Parli Giuseppe che la preziosa
distinzione stabilisce tra Esseni ed Esseni, tra quelli che al celibato
si attenevano, e quelli che, comunque veracissimi Esseni, non pertanto
non solo il celibato non professarono, ma il matrimonio ad esso
preponevano per molti rispetti. _Havvi_, dice Giuseppe, _altra specie
di Esseni che convengono coi primi, nell’uso degli stessi cibi, negli
stessi costumi e nelle stesse leggi, e in nulla ne differivano_, notate
preziosissime parole, _tranne perciò che riguarda il matrimonio, a
cui il rinunciare stimano quanto estinguere dalla faccia del mondo la
specie umana_. E questo è il punto in cui Esseni al centro farisaico
convengono. Ma Esseni, voi direte, vi furono nonostante i quali il
celibato praticarono ed a regola parziale sì, ma pure venerata eressero
del loro istituto. Nè io lo nego, nè il potrei. Lo attesta Giuseppe,
come vi dissi; lo attesta Filone pei suoi _Terapeuti_, e lo attestano
infine i due pagani Plinio e Solino. Ma quanto lo stesso attestato di
questi due ultimi, che pure sembra osteggiarne, non reca un’aspettata
conferma al nostro sistema! Quale è questo sistema? Voi lo sapete;
l’identità suprema tra Esseni e Farisei. Ma chi erano i Farisei e
qual concetto di sè porgevano al mondo pagano? Certo di quelli che la
immensa maggioranza rappresentavano della nazione, il fondo a così dire
della Ebraica società, il popolo vero, il popolo Ebreo. Udite ora le
parole di Plinio. Egli non rifinisce dallo stupirsi, egli celebra quale
inaudita meraviglia che una nazione per secoli e secoli si perpetui,
nella quale, per dirla colle sue parole stesse, _non nasce nessuno_.
Che cosa vi dicono queste parole di Plinio? Certo che un attestato
vi porgono rilevantissimo, come altra volta vi feci osservare, della
rispettabile antichità dello Essenico istituto, e come stranamente
siano andati errati coloro che circa a quel torno gli assegnarono il
nascimento, mentre Plinio favella di secoli e secoli. Ma non vi pare
che le parole citate confermino la propugnata identità? Vi par egli che
Plinio avrebbe così favellato, che avrebbe ad una setta, e scarsissima
di numero, il pomposo nome assegnato di popolo e nazione; vi par egli
che del suo perpetuarsi avrebbe fatto le meraviglie, se gli Esseni come
i Sadducei fossero uno scisma, un membro putrido e divelto, anziché il
fiore e la eletta della nazione? se nel concetto di Plinio e Solino,
Essenato ed Ebraismo farisaico non fosse tutt’uno? Vi par egli che
luogo vi fosse a gridare _mirabilia_ pel durare, comunque lunghissimo,
di uno Istituto ove, s’egli è vero che niuno nasceva corporalmente,
pure moltissimi erano i nascenti per le vie di affiliazione e di
noviziato? Se d’altra parte Essenato ed Ebraismo non fossero stati
nel concetto di Plinio una sola cosa, e se il suo errore da questo
appunto provenuto non fosse, dalla naturale identità tra gli Esseni,
espressione più alta dell’Ebraismo Farisaico, e lo istesso Farisaico Ebraismo?

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