2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 34

Storia degli Esseni 34



Nè quelli degli Esseni avrebbero questo nome demeritato. Non lo
avrebbero pel silenzio profondo che durante il pranzo regnava
d’intorno, e di cui celebre esempio ci offrono pur essi i Farisei,
quando esigono in principio non doversi per ragione di igiene
conversare mangiando; del qual divieto solo allora comprenderemo lo
spirito che a memoria ci ridurremo l’attitudine che prendevano a quei
tempi sui letti loro i commensali. Non lo avrebbe poi, aggiunge Filone,
pei dottrinali trattenimenti che, conchiuso il pranzo, si intavolavano
tra i commensali. Ma quanto non suonano preziose le frasi Filoniane,
specialmente ove si badi alle circostanze a cui si accenna. Non solo ei
dice che si proponeva a mensa una questione tratta da’ libri sacri; ma
egli ne addita l’indole peculiare, ei dice quei discorsi _composti di
allegorie sulle sacre scritture_. Nè di questo si accontenta Filone: ma
trapassando al criterio generalissimo con cui dagli Esseni si procedeva
nella interpretazione delle scritture, la _legge_ dice _considerano pur
essi qual’Ente animato i cui precetti sono il corpo; e spirito e mente,
le allegorie_. Abbiamo ben udito? Sono elleno coteste le espressioni
testualissime di Filone? È egli questo il concetto che della scrittura
formavansi Terapeuti ed Esseni? Che se così è, che cosa resta per
identificarli a’ Teologi del Farisato, ai Cabbalisti? Non sono essi che
lo esempio ci offrono continuo luminoso di dotti ragionamenti a tavola
intrapresi? Non ne riboccano ad ogni pagina e Talmud e Medrascim ed
il Zoar sopratutto? Che dico? Non sono eglino soli, soli i Cabbalisti
gli autori, e propugnatori del gran principio esegetico dagli Esseni
bandito, _la duplice natura della legge di Dio spirituale e corporea_?
Non sono eglino appunto che all’animale somigliandola (nel 3º Volume
del Zoar) i precetti dicono appunto come gli Esseni dicevano, _il corpo
della legge_, e le allegorie, non meno com’essi ancora ne dicono, lo
_spirito_?
 
Ma se la teoria degli uni a quella degli altri perfettamente risponde,
ciò che aggiunge Filone, non pare, se ben si mira, di manco rilievo,
e forse meglio che le grandi affinità varrà a stabilire tra i due
istituti la medesimezza, siccome quello che poggia non già sopra
certe somiglianze che possono essere effetti di cause congeneri, ma
sopra alcune circostanze singole arbitrarie che rivelano una medesima
provenienza. Egli è Filone che parla, Filone che dice come, conchiusa
la sposizione allegorica quando trovata sia laudabile, ognuno applaude.
E questa circostanza ove la troveremo? Nel Zoar se la cercherete, ove
vedrete non una nè dieci, ma cento e mille volte seduti i dottori
Cabbalisti al desco comune, lunghi e dotti tessere ragionamenti, i
quali conchiusi, sono ora i baci fraterni che fanno fede del cuore
appagato, ora certe frasi che tornano immancabilmente dopo ogni
festeggiato discorso, e che suonano, a mo’ d’esempio: _Se la vita ci
fosse stata solo, per questo udire, largita, già ne sarìa di avanzo_.
«_Illù la atena leàlmà ella lemiscmagh dà, dai_.»
 
Nè i dotti ragionamenti nè gli applausi erano la sola parte che negli
Essenici banchetti si dava alle lettere, si dava allo spirito. Eranvi
altresì i canti, vi erano gli inni. I quali, dice Filone, coronavano
gli Essenici _Agapi_ colle lodi di Dio, e colla memoria de’ suoi
benefici. Questo inno era tal fiata opera personale del Patriarca,
del Presidente; tal’altra era dettato di qualche antico poeta,
perocchè i poeti, dice Filone, hannoci lasciato de’ versi metrici
_spondei esametri_ ed inni che accompagnano le sacre danze. Dove
sono gli inni a mensa cantati nell’antico Farisato? Il Talmud non li
disconosce in verità, per quanto per la indole dell’opera stessa non
troppo, se non isbaglio, ne son numerosi gli esempi.[83] Pure già ne
è dato l’uso travederne sino da remotissimi tempi: che dico? sino
da’ tempi profetici, sino nella Bibbia. La quale volendo dire come
nell’ultimo nazionale esizio cessato sarebbe ogni tripudio, annunzia
come non più a suon di canto, sarìa il vino ne’ conviti libato: d’onde
traevano i dottori argomenti a interdirne l’uso dopo l’esilio. Pure la
interdizione non è tale che l’uso non ti apparisca di quando in quando
nell’istesso Talmud: testimone quel banchetto ove invitato Rab Hasdà a
sciogliere giojoso un canto trista invece intonava e lugubre elegia.
Ma questi, per quanto non ispregevoli esempj, poco sono, se gli Esseni
sono non solo Farisei ma Farisei cabbalisti, se la identità di cui
abbiamo finora discorso non è una favola.
 
Ebbene il Cabbalismo, i suoi usi, i suoi personaggi ne danno la più
parlante, la più espressiva imagine della Essenica costumanza. Io non
so se sbaglio, ma se il Talmud, se tutta la biblioteca rabbinica de’
primi secoli fa per avventura menzione di un poeta rabbino, di un poeta
fariseo, questi è un solo, chiaro, celebre se volete, ma pure un solo.
E questo unico poeta chi è egli? Egli è uno de’ più eminenti della
teologia cabbalistica, egli è il _cervello_, la _mente_ della _scuola_,
come Ribbi Abbà ne fu lo scriba, ne fu lo scrittore; egli è in una
parola il figlio stesso del grande maestro, egli è Ribbi Eleazar figlio
di Simone che fu, dice il Medrasc, _Carobì vetanoi upoeti_. E ciò che
più monta, egli è che di questo officio, di questo carattere di poeta
non fa fede il Zoar, parte interessata nella questione e monumento
esautorato dagli anticabbalisti, ma fanno fede libri a niuno sospetti,
di indubitata autenticità, di imparzialità manifesta. I quali lo dicono
fregiato delle triplici doti, come vedemmo, di _Poeta, Oratore e
Rapsoda tradizionale_ e il vogliono ancora _perito cantore_ e identico
a Ribbi _Elleazar Hisinà_ per non parlare della tanta controvertita
identità col poeta nostro, conosciuto più tardi sotto il nome di
Callir o di Calliri, intorno al quale tanto dottamente s’affaticarono
i nostri moderni eruditi. E questo è senza meno antichissimo e per
ciò stesso concludentissimo esempio di analogia, Esseno-Farisaica ed
Esseno-Cabbalistica. Ma quanto più prossimi e più comuni gli esempi se
per poco scendiamo in ordine di tempo! Quanto illustre ce n’offrirebbe
l’esempio dico di magnifiche poesie, parte più specialmente
consacrate alla _mensa_, parte alla preghiera, alla liturgia, e tutte
stupendamente improntate di una siffatta elevazione che rende a mille
doppi mirabile il poetico magistero. Fra i primi non si potrebbe
non menzionare il Loria _principe de’ moderni_ Cabbalisti, prodigio
di speculativa fecondità, comecchè nulla abbia scritto ma tutto lo
insegnamento suo abbia trasmesso oralmente. Che dico nulla scritto?
Egli scrisse pure qualche cosa, e queste sono brevi e mistiche poesie
dettate in linguaggio Arameo e destinate alla mensa sabbatica. Gli
altri poi sono egualmente Cabbalisti ma scrittori esimj nella purissima
favella della scrittura. Possiamo dire che se a ragione vi ha chi possa
dire di aver generato la _mistica poesia ebraica_, la più bella che io
conosca, ella è senza meno la Italia nostra. La quale se non avesse in
questo genere dato la vita che a _Moise Zaccut_ di Venezia, avrebbe già
un titolo glorioso alla riconoscenza de’ cultori della santa lingua.
Bisogna leggere le poesie del Zaccut e persuadersene. Bisogna avere
qualche sentore delle Dottrine cabbalistiche, bisogna avere anche il
gusto dell’ebraica poesia, per ammirare il magistero stupendo, con
cui concetti sublimissimi sono vestiti di forma non meno sublime,
ed in cui non sai veramente discernere se più l’idea conferisce
alla venustà della forma, o la squisita magnificenza di questa alla
grandezza e nobiltà del concetto. A me poi la lettura di quelle poesie
cabbalistiche dettate nel più puro idioma della scrittura produce un
effetto singolarissimo. Mi pare che un grande abisso sia ricolmo, mi
pare un grande intervallo superato, mi pare in un istante la distanza
soppressa, che i Profeti divide da’ Dottori, da’ Dottori cabbalisti.
E quando vedo quanto la forma profetica scritturale si attagli al
concetto cabbalistico, quando vedo e l’uno e l’altro immensamente
più belli, più grandi farsi al contatto, e quasi la parola biblica
incarnarsi, immedesimarsi col concetto cabbalistico, allora la unità
primitiva e della _parola_ e _dell’idea_ rivelata, la sintesi che ha
preceduto l’analisi, la separazione sofistica, mi si rivela in una
luce, in una evidenza intuitiva che non si potria la maggiore.
 
Ora di due altri punti che il sistema, che la forma e l’ordine
concernono della tavola essenica. Questi due punti sono in primo,
l’ora, e poi l’abito che a tavola indossavano. L’ora dicono gli
storici era la sesta. Dopo avere, dicono essi, lavorato sino a 5 ore
si bagnavano nell’acqua diaccia, e bagnati che erano si riunivano per
il pasto. Entravano nell’aula ove cibavansi, con aria solenne, quasi
fosse in un tempio; sedevano nel più profondo silenzio, e prima e dopo
il pasto i sacerdoti pronunziavano una preghiera. Le parole udite sono
pregne di allusioni, di reminiscenze, di analogie farisaiche; analogia
l’ora al cibo assegnata; questa ora era pegli Esseni la 6ª e lo era
egualmente pei Farisei; i quali, prescrivendo e determinando a ciascuno
l’ora di sedere a mensa, assegnano a’ Farisei la 6ª ora del giorno,
quella stessa che udiste sulle labbra di Filone particolare agli
Esseni; analogia la lavanda, l’abluzione che gli Esseni praticavano
nella sua forma più religiosa, _Tebilà_, e che i Farisei non imposero
che nella sua forma più mite l’abluzione delle mani _Tebilat Iadaimi_;
analogia il concetto grande ed augusto che si formavano del refettorio
al quale si accostavano come _ad un tempio_, consuonando in tal guisa
col farisaico dettato che la tavola parificano all’altare, e il
_carattere gli assegnano espiatorio che era proprio all’ara di Dio.
Sciulkan scel Adam mechap per ghalav_. Analogia infine la benedizione
che si dice pronunziata prima e dopo il convito, e di cui abbiamo
continuo quotidiano l’esempio innanzi gli occhi.
 
L’ultimo de’ punti accennati non merita meno la vostra attenzione.
Se gli Esseni indossavano abiti particolari durante il pasto egli è
perchè nobilissimo siccome udiste si formavano concetto della mensa
comune, alla quale siccome i sacerdoti all’altare, così essi non si
appressavano che con abiti specialissimi; egli è perchè, nè si dee
dissimularlo, tale correva allora comunissimo l’uso tra i più distinti
Romani i quali andavano, dice uno storico, _al pranzo vestiti di un
abito più o meno leggiero secondo le stagioni e che serviva solamente
per la tavola_. E nomi pure recava distinti, pomposi: si diceva _vestis
cœnatoria_, _triclinaria_, _convivalis_ e in una parola _sintesis_.
Presentarsi al festino senza quest’abito sarebbe stata inescusabile
malcreanza. Cicerone fa un delitto a _Vatinio_ di esservi venuto in
abito nero comecchè convito funebre fosse quello. Quando il convitato
avesse mancato d’indossare l’abito comune, il padron di casa glielo
prestava come prestavanlo, al dire di Capitolino, Alessandro e Settimio
Severo ai loro commensali. Ma l’uso in discorso è di gran lunga più
rilevante ove ad un uso si raffronti, bello per mirabile identità
de’ _dottori_ Cabbalisti. I quali appunto come gli Esseni, appunto
come i più grandi tra i Gentili, non si avvicinavano alla mensa che
dopo aver vestito abiti esclusivamente alla mensa sacrati, applicando
all’atto della commestione ciò che i Farisei del Talmud praticavano
in ordine alla preghiera, per la quale lindi e puri serbavano abiti
peculiari. Ma ciò che più mi ha colpito, che meglio ha posto agli occhi
miei in rilievo questo nuovo argomento d’identità fra le due scuole,
si è appunto, vel confesso ingenuamente, ciò che per altri sarebbe
stato per avventura soggetto di dubbio e di esitazioni, voglio dire
quell’apparente mancanza di continuità nella pratica di quest’uso tra
i Farisei, quella lacuna storica che tu ravvisi tra l’antichissimo
Essenato e i moderni Cabbalisti, e per cui dopo aver letto di quest’uso
la pratica in una società da tanto tempo estinta, tu lo ritrovi senza
che ti sia dato discuoprirne le orme, vivo, attuato nella scuola
cabbalistica. Se i Farisei, dissi fra me, da’ quali potuto avrebbero i
cabbalisti quest’uso imparare non lo conobbero; se i Cabbalisti non si
addarono unqua dell’esistenza neppure, e tanto meno delle istituzioni
degli Esseni in quella guisa che niuno di se stesso può vedere il
sembiante; e se non ostante gli antichi usi degli Esseni si riproducono
senza il vincolo farisaico in seno a’ Cabbalisti e si riproducono ne’
dettagli eziandio più minuti della pratica giornaliera, egli è segno
che la vita de’ primi si è ne’ secondi trasfusa, che cambiando nome,
forma e certi caratteri altresì deponendo, si perpetuò l’Essenato, si
rinnovò ne’ Cabbalisti moderni, tra i quali tu ravvisi certi usi i cui
storici precedenti mancano affatto nei predecessori naturali degli
Esseni, nella Bibbia, ne’ profeti, ne’ Farisei, e di cui tu trovi invece il tipo antichissimo nella società degli Esseni.

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