2015년 6월 3일 수요일

Storia degli Esseni 36

Storia degli Esseni 36


Ma di questo basti per ora. Bisogna dire degli altri offici a
cui sacravano le ore i nostri Esseni, come detto abbiamo sinora,
dell’agricoltura, dello studio dei semplici, e della pratica medica.
Gli Esseni non abborrivano dai mestieri. Filone ci ammonisce come
parecchi di loro si dessero ad opere manuali non isdegnando passare
dallo studio al lavoro, e dal lavoro allo studio; ed altra e
parlantissima analogia al tempo istesso offerendo coi più antichi e
venerandi tra i Farisei. I quali ogni arte o mestiere reputavan nobile
purchè onestamente esercitato: nè di tanto è mestieri che io vada
oggi esempj accumulando, sì perchè è il fatto per se stesso notorio,
sì perchè non è molto che fuori di qui ne parlai pubblicamente a
disteso, esempj recando sì numerosi e autorevoli da persuaderne, se
bene estimo, i più dubitosi. Ed altrettanto fecero pur essi gli Esseni
al dir di Filone. Non sì però che certi mestieri severamente non
s’interdicessero, nè a niuno di essi fosse dato rivolgere lo ingegno e
la mano. E quali erano i mestieri interdetti? Ve lo dica Filone colle
parole stesse del testo. «Tu, egli dice, non troverai tra costoro
niuno artista che voglia lavorare intorno una freccia, un dardo, una
spada, un elmo, una corazza, uno scudo nè di alcuna spezie di armi, di
macchina, o strumento che serva alla guerra.»
 
Che vi dirò? Quando lessi queste] parole in Filone io ringraziai
Iddio, e lo ringraziai di cuore. Lo ringraziai in primo per avermi
posto nella buona via inspirandomi il mio favorito sistema d’identità
_essenico-farisaica_; e poi lo ringraziai di non avere comunicato vana
infondata congettura ai miei uditori. E se di tanto lo ringraziai, ne
ho ben d’onde. Perocchè egli è questo uno dei punti più culminanti ove
_Esseni_ e _Farisei_ s’incontrano, si abbracciano, s’identificano.
Come gli Esseni, aborrivano i Farisei, come un antico _Baraita_ lo
attesta, dal fabbricare, dal vendere, dallo affilare spade o armi
qualsiasi, da vendere o fabbricare ceppi, catene, collari, ad uso
di guerra; e se qualche contestazione si produce egli è a proposito
degli scudi.Ne vogliono gli uni lecita la vendita, la fabbricazione
perché armi sono puramente difensive. Ne vogliono gli altri interdetto
lo spaccio perchè, notate singolare ricordo, perché, dice il Talmud,
quando nel bollor della pugna ogni arma è spezzata, è caduta, si suol
non di rado battagliare cogli scudi; che dico? non è lo scudo soltanto
che fu subbietto di disparere tra i Farisei, egli è il cavallo, il
cavallo che per alcuno si dice strumento di guerra, per altri come
tale non si qualifica. Vogliono i primi che venderlo non sia lecito,
perciocchè, notate quest’altra storica singolarità, egli avviene non
infrequente, dice il Talmud, che il prode cavaliero ammaestri il focoso
animale a finire con calci e coll’orribile calpestare i nemici caduti
in battaglia, e quindi a buon diritto estimare si debba bello e forte
arnese di guerra, e terribile guerra. Ecco due capi soltanto intorno
a cui si avvolsero discordi le dottrine, le opinioni farisaiche;
lo _scudo_ e il _cavallo_; pel resto per le altre armi o strumenti
qualsiansi, che a strage, a schiantare, a oppressar possano essere
rivolti, una fu la voce, una la sentenza per interdirne la fattura, la
propagazione.
 
Nè qui si fermava lo scrupolo farisaico: vollero all’israelita
interdetto il vendere ai Pagani _orsi_, _leoni_, _pantere_, _elefanti_,
che facevano allora frequenti comparse negli stadj, nell’anfiteatro
e nel circo, a sollazzo della plebe corrotta e servile; e sotto ai
cui morsi, ai cui artigli cadevano trafitte, sanguinose, migliaja
di vittime; vollero interdetta la cooperazione dell’Ebreo alla
edificazione di quelle basiliche o tribunali ove si rendevano allora
iniqui e ipocriti giudizj; di quei luoghi di supplizio ove tanti
innocenti sostenevano crudeli martirj; di quegli stadj ove l’uomo
contro l’uomo, o la belva contro dell’uomo venivano scatenati a
trastullo di un popolo feroce e corrotto; e infine di quelle cupole
balnearie che ornavano gli edifizi destinati ai pubblici bagni, e che
la _Misnà_ chiama _chippà_; _volta o cupola_ dove pare che la imagine
fosse sculta o dipinta di qualche paganica divinità, spesso di _Venere
afrodisea_, come mi è dato dedurre da una preziosissima Misnà in
_Aboda Zarà_. Ed egli è là che Raban Gamieil vediamo alle prese con
un Proclo detto _filosofo_, che io dissi, se non erro, altra volta
identico per avventura a quel Proclo che fu seguace di Iamblico e di
Plotino nella schiera dei nuovi Platonici.Questo orrore di ogni arme,
di ogni strumento di omicidio vediamo altresì in due leggi, in due
pratiche, biblica l’una, rabbinica l’altra, prova tra altre mille della
medesimezza del genio, dello spirito che informa ambidue. È la prima
la prescrizione che si legge nell’Esodo per cui a comporre l’altare
di Dio, pietre s’impongono intiere e dal contatto immuni di ferro o
scalpello: è l’altro il consiglio di rimuovere ogni ferro, ogni arma
dalla mensa privata quando conchiuso il pasto ci accingiamo a benedire,
appunto per quell’analogia che abbiamo altra volta notata tra l’altare
e la mensa, nel concetto, nei principj e nelle pratiche eziandio di
Esseni e di Farisei.
 
Ma questi abbiam veduto non solo abborrire dal nuocere al corpo,
interdicendosi il commercio dell’armi, ma dal nuocere altresì allo
spirito, ai costumi, astenendosi da por mano a basiliche, a _cappelle_,
a tempj pagani. E del come osservassero il presente divieto, illustre
ce n’offre un esempio lo storico _Giuseppe_, anzi Ecateo Abdiretano
dallo stesso Giuseppe rammemorato nella risposta ad Apione, quando
narra di un governatore di Babilonia per nome Alessandro, che volendo
riedificare il tempio di Belo ed obligati avendo i suoi soldati a
cooperarvi colla persona recando i mattoni necessarj allo edifizio,
gli Ebrei furono i soli che a quest’opra si ricusarono; nè minaccie
poterono nè castighi persuaderli; tanto che furono alla perfine
dispensati. Nè meno scrupolosi osservatori ci appariscono infatto
dell’armi, non solo ogni fabbrica o vendita interdicendosi di armi da
guerra, ma anche il portarne indosso considerando qual disdicevole
cosa. E chi lo dice? Egli è lo stesso Giuseppe che ce lo attesta e
con parole non meno formali: «Dal divieto delle armi nasce, egli
dice, che quando vanno attorno da una città in un altra, per i
latrocini solamente si armano, e da questo caso in fuori niun’arme
recano indosso.» Voi lo udiste, Giuseppe è esplicito. Gli Esseni non
recano armi tranne in luogo di imminente pericolo. Ma ciò che non
meno riesce esplicito, egli è la doppia bellissima analogia che ne
offrono i Farisei e i Farisei Cabbalisti. La prima ci è offerta dalla
_Misnà_, la seconda ci è porta dal _Zoar_. È la prima in _Sciabbat_
laddove indagando quali sono gli arnesi d’impune trasporto fuor del
recinto murato, s’interdice la _spada_, _l’asta_, _la alabarda_ e non
sì tosto mostra R. Eliezer di volere assolto chi li trasportasse,
perchè egli dice _tornano spesse fiate ad ornamento_, che i Dottori
ad una voce insorgono, e _non ornamento_, gridano, _ma disdoro sono
coteste, conciossiachè sia scritto. E nei giorni del Re Messia le
spade saranno in vanghe converse, le aste in falci mutate, perchè le
armi più non impugnerà popolo contro popolo, e l’arte disimpareranno
del guerreggiare_. Se _l’Abate di S. Pietro_, se _Cobden_, se _Bright_,
se tutto il congresso della pace fosse stato a quei tempi, e Cobden e
Bright e tutti i promotori della pace universale sariano stati Farisei.
 
Ma io dissi di un secondo esempio che il Zoar ci porge, e questo è
di gran lunga più interessante perciocchè ci offre ad un tempo e la
regola e l’eccezione; la regola di non impugnare le armi nei tempi e
luoghi quieti, normali, la eccezione nei luoghi e nei tempi torbidi
ed anormali, e l’uno e l’altro si veggono come dissi nel Zoar in un
fatto ivi narrato. In cui _R. Hja_ e _Ribb Josè_ per via procedendo
veggono un uomo venire a loro incontro.Egli recava indosso un manto
sacro ornato nei quattro angoli delle frange di obbligo.Però sotto
a quello si travedeva una cintura e dalla cintura pendergli di ogni
maniera micidialissime armi. A quella vista sclama R. Hija: grande
giusto è cotesto, o grande impostoree qui notate come potesse e
dovesse a senso di R. Hija essere giusto e pio in sommo grado cotesto
che pure in sì strana guisa se ne giva armato di tutto punto.Ma
l’incognito si appressa, e salutato dai due Dottori, al saluto non
risponde. Discostatisi dallo straniero i Dottori, ripigliano le dotte
e sante consuete conversazioni.Ciò che non potè il saluto poterono
le parole sante dai Dottori profferite. A quel suono gli si fà lo
straniero dappresso, e salutatili come l’usato: Deh mi dite, lor
chiede, o Maestri, qual giudizio vi formaste della mia scortesia quando
da voi salutato, al saluto non corrisposi?Forse, dicemmo, pregavi,
forse meditavi, ripresero i Dottori. Allora datosi a conoscere, prese
lo straniero a narrargli le sue avventure; come andando un dì per
cammino e imbattutosi in un masnadiero ne ricevesse molestia, come
non conoscendo chi essi si fossero avere di essi pure sospicato, come
da ciò provenisse il tacer suo, e dallo essere in quello istante
immerso in qualche meditazione. E volendo dar loro prova, chi egli
si fosse, prende a ragionare sur un verso dei Salmi ove si palesa
veramente per ciò che era, per Dottore, e Dottore cabbalista.Qual
fatto e qual comento! qual comento dico all’uso, alla pratica da
Giuseppe e da Filone narrata pei nostri Esseni, di non gire mai
colle armi sulla persona tranne ove muovendo di luogo in luogo se ne
munissero per propria difesa.E qual eloquente conferma della identità
essenico-cabbalistica, se ben si mira agli autori del _Zoar_ ignari al
tutto della esistenza degli Esseni se essi medesimi nol sono, e quindi
alla impossibile imitazione! Nè più bella infine potrebbe sorgere
presunzione in favore dell’autenticità di quel libro ove schiette e
genuine si son dipinte le figure, i costumi delle sètte contemporanee,
tali quali il nostro tardissimo confronto li fa sorgere dopo 18 secoli
vivi e parlanti al paragone, e che niuna impostura avrebbe potuto
togliere a contraffare perchè mancava il tipo istesso da imitare
nella mente del falsario, nulla cognizione particolare avendo avuto i
posteriori Dottori dell’antica società degli Esseni, e nulla quindi di
essi avendo potuto prendere ad imitare.Bacone diceva: Poca filosofia
fa l’uomo incredulo, molta lo fa religioso. Noi diremo a nostra posta:
_Poca critica_ fa credere apocrifo, falsato lo _Zoar_, molta critica lo
chiarisce autentico.
 
 
 
 
LEZIONE VENTESIMASECONDA.
 
 
Colpa sarebbe, e colpa non lieve, se discorrendo degli Esseni e delle
loro occupazioni quella trasandassi che agli studj si riferisce,
specialmente, quando di un Istituto si parli eminentemente studioso
qual fu l’Essenato. Degli studj dunque si parli e tanto più a
proposito in quanto avendo in animo di toccare dei dogmi loro, delle
loro credenze, saranno gli studj, se io non erro, facile e naturale
transizione per cui dai lavori e dalle occupazioni loro trapassiamo
a ragionare delle dottrine e dei dommi; participando gli studj e del
carattere di occupazione e di quello di dottrine e credenze.
 
E prima del modo. Il quale facile torna lo argomentare quando si pensi
alla vita solitaria ed agreste che menava la parte contemplativa
dell’_Essenato_, nella pace dei campi, all’ombra amica degli alberi
e sulle rive che tanto vedemmo altravolta la società prediligere.
Il qual modo era pur quello che vediamo ai Dottori seguire non rade
volte nel Talmud, quasi sempre nel _Zoar_, che maggiori deve per sua
natura offrirci analogie, e maggiori infatto le offre col nostro
istituto; dove i Dottori, i Maestri affidano i loro misteri alle
tacite rive dei fiumi, all’ombra dei boschi ed al cupo orrore delle
caverne, o alle falde inaccesse di qualche altissimo monte. Sistema
tanto dal nostro diverso cui la vita cittadinesca stringe da ogni
lato colle sue braccia di ferro, e che tanto conferisce non solo alla
elevazione e perfezionamento dello intelletto, ma alla conservazione,
all’incremento della salute corporea. Nè voglio altri a testimone che
il più grande pensatore d’Italia moderna, Vincenzo Gioberti, che nel
2º della Protologia tali dettava concise ma eloquenti parole. _L’uso_,
diceva, _la vivacità, la celerità della mente giovano alla salute,
non le nocciono come si crede. Rousseau disse: L’homme qui réfléchit
est un animal dépravé. Falsissimo. Esempio di Giulio Cesare e in
generale degli antichi. Non lo studiare, ma il modo dello studiare
moderno rovina il corpo. Elementi necessarj allo studio, l’aria e la
luce. L’aria e la luce giovano alle facoltà dell’intelletto ed al
corpo unitamente. Studiare a cielo aperto fra gli arbori, lungo le
acque correnti o almeno in camere ben areate. I nostri dotti sono più
dilicati delle donne_. Fin qui Gioberti.Voi l’udiste, egli voleva _lo
studio a cielo aperto fra gli arbori_ e tale era appunto lo studio
degli Esseni e dei Cabbalisti. Egli lo vuole _lungo le acque correnti_
e non solo gli Esseni prediligevano le rive, ma i Dottori notarono come
lo spirito profetico riempia, ispiri, i suoi ministri a preferenza
lungo le acque correnti, sicura prova come tutto ciò che valga ad
esaltare le potenze dell’intelletto conferisca eziandio in sommo grado
alla più facile fruizione della profetica intuizione, testimone per
tutte la _musica_ di cui si valsero qual prima promozione alle cose
celesti i profeti d’Israele, di cui gli effetti psicologici sono da
ognuno esperimentati, e per cui non pare sia al tutto menzognero il dettato dei Pitagorici: _L’anima essere un’armonia_.

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