2015년 8월 7일 금요일

Il passaggio 10

Il passaggio 10


Innamoramento, voce dal lento volo! Lungo raggiare di sguardi, e senza
che una sola sua ciocca mi toccasse la fronte, s'io chiudevo gli occhi
mi permaneva sulle ciglia una festa splendente.
 
Baci sulle mie mani, lunghi. E le sue dita immerse nelle mie trecce,
profonde come vento nelle radici.
 
Più vicino! Più vicino!
 
Trasfigurato è il mondo. Regnano le silfidi. Mi preme così la bocca con
la bocca, in questo brivido vasto d'innocenza, oh luci d'oro, una che
è donna come me, e fanciulla.
 
Una.
 
 
Iddio non mi mise in petto timore.
 
Iddio ha sempre voluto nel suo terribile cuore chiamarmi leale.
 
Iddio, che unico sopporta i miei pianti, i miei gridi laceranti, la
miseria e la devastazione che sul mio viso talora balenano come su una
landa battuta dalla sua notturna ira, unico anche sa s'io sono stata,
s'io sono degna d'aver accettato per l'eternità il suo patto.
 
 
La mia voce non vale chè non posso accordarla su cembali risonanti
su cembali squillanti nè su arpa o cetra ad attestare che per
ogni mio ardimento ebbi tanta gloria di felicità quant'ebbi di pena.
Vale invece questo stesso viso, quand'è asciutto di lagrime, il mio
aspetto, ch'io conobbi il sole e ne fui penetrata e seppi le grandi
contentezze, vale questo liscio di rosa sotto l'ala d'argento dei
densi capelli. Un piacere forte, d'alta prateria, prova chi mi vede.
Gli anni lontani e ieri ancora, tacitamente, m'hanno smaltata. Per
questo che su me riluce, potere mattutino, come su una qualunque
genzianella pulviscolata di ghiaccio, io mi amo, per questo, potere
mattutino, illimitato, fra tutte le fantasie del creato la più magica.
Amo la mia natura feminea, gagliarda in riconoscenza. Ma fortunata
la sorte virile! Portando sotto il cielo la sua maschera sprezzante
l'uomo m'incontra, m'abbatte, gode di me riversa, di me, nobiltà dolce
di forme, bontà dolce di petali. Ore di tripudio, fra messi mature e
api liete di miele. Chi dei due più s'avvicina all'infinito? La donna
nella stretta, resupina, non ha quasi più sguardo; e s'anche l'abbia
aperto in attesa profonda (la morte, la morte può venire, ci trovi
intenti e belli e non fuggiremo) meglio fortunato sempre l'uomo, che la
contempla fatta a simiglianza di soave nube per lui inserta in terra.
Gioia dagli occhi gli ride. Fra messi mature o tra querele e pietre e
acque, brillando l'aurora, una spalla di ninfa bianca secreta è parola
imperitura.
 
 
«Tu non puoi sapere» diceva la creatura dagli occhi d'oro.
 
Ella supponeva a sè stessa un maschio cuore; e foggiata s'era veramente
a strana ambiguità, sul nativo indizio forse del timbro di voce, forse
della tagliente sagoma. S'era foggiata ed agiva. Con volontà d'uomo
o d'angelo ribelle, con forza quasi di dannato ma io, nessuno potrà
mai giudicare se più demente o più veggente, ero toccata invece da ciò
che in lei permaneva d'identico alla mia sostanza. Tentavo persuaderla
dal mio canto: «Tu non sai». «Non sai quanto il tuo amore sia diverso,
per quanto tu faccia, dall'amore che gli uomini possono darmi. Com'è
leggera la tua carezza! Non mi penetri ma mi accosti come niuno
mai. Ti cedo con franco tremore, hai un piccolo nome che suona come
il mio d'una volta, e un tenero rossore su la guancia se ti raccogli
ai miei piedi. Balzi, cosa viva, e le labbra non ti s'aggelano come
a colui che mi desidera. Sei tessuta di calore, e sei anche simile a
una colonna d'acqua trasparente attirante. Non sai quanto nostra sia
questa allegrezza e quanto nostra questa malinconia, così assoluta, che
reggiamo perchè abbiamo ali....».
 
Ci movevamo in una immensa campana di vetro abbagliante, la vicendevole
iniziazione ci dava chiari occhi eroici.
 
 
Imparai, amore, che il tuo mistero non è nella legge che perpetua le
speci.
 
 
Più alto, indifferente, estatico.
 
Io bacio una creatura perchè ho gioia di saperla bella sotto il cielo,
perchè mi ferma un momento nel mio andare nel mio pensare, e per un
momento tutto ciò ch'io sono glielo dono baciandola.
 
E quella era il simbolo della fanciullezza e della corsa e della
rapitrice eco.
 
Come una in fasce può far ch'io l'adori per le sue aperte manine,
meravigliate meraviglie, o una presso che centenaria, sola e lontana,
che non sa e non chiede.
 
 
Ebbi orrore della viltà mentale d'ogni vivente intorno. E la sentii
insieme fatale, piansi, avevo gli anni di chi pianse nell'orto di
Getsemani, la passione gravò, l'oro della fiaba si sfrangiò in porpora.
 
 
Sangue, angoscia gorgogliante, sangue, chi mi salverà?
 
 
E le vene pesanti, brucianti, invocan sollievo.
 
Nessuna cosa più santa di una nudità che arde e rabbrividisce e si
tende come il manto delle stagioni.
 
 
Fammi morire!
 
 
Fammi morire, chiunque tu sia, è l'ora che la mia carne non può oltre
sopportare, l'ora che si preparava ma che non attendevo fermentano
fra macerie i cadaveri, una statua risplende per faro fammi morire,
chiunque tu sia, l'indicibile è questa necessità che tu mi ricopra, oh
calore, oh tremore, vicino, più vicino! Hai ragione anche se t'inganni,
ha ragione chiunque, sia greve o lieve la sua mano, cogliendomi in
quest'ora mi sottometta e mi consoli, nudità contro nudità, brivido
sterile e vasto, ch'è l'ora, i sensi finalmente son disciolti, godono
essi e spasimano non più asserviti alla natura, natura essi stessi
ineffabilmente, e oblio e follia hanno ali sospese d'aquila.
 
 
Più su d'ogni rupe, ali sospese a saluto.
 
 
Oblio e follia si nomano dov'è la terra e il suo travaglio: dov'io
stessa m'affanno, figlia di donna, e che questi nati lucidamente
s'ammettano, invano, e mi stempro in vane lacrime, e le valli e i laghi
non si riempiono tuttavia, mi stendo e m'avvinghio crudelmente sino a
desiderare di mai più vedere a sera gli astri sereni, sino a strider
di ribrezzo se una messe per me, di gigli mi piova intorno alle carni,
gelida messe ch'era alta nel sole per la gioia di tutti e di nessuno.
Oblio e follia in terra. Dov'è crepitìo di secca legna fra alari, dove
son foreste e ruvidi frutti di pino, dove sono tombe. Tombe bianche
fra grandi cespi di gerani scarlatti, lungo le vie deserte di isole
verdi-dorate, o accanto a cedri o accanto ad ulivi. Cimiteri, odorosi
di rosmarino, ronzanti di pecchie, profili d'un poco di mondo bruno
contro un poco di cielo terso. Dove son giornate di vento lucide, e
sulla duna imprecante turbina la sabbia fra cardi azzurri. E templi,
bionda pietra porosa tagliata e edificata da mani greche, incanto del
travertino incrostato d'alghe, nell'atmosfera paludosa che splende come
sguardo in delirio templi aurati, vertici di venustà.
 
Terra, come sei bella! Le sere che mi appari impenetrabile, con la
tua scia infinitamente delicata e nello stesso istante infinitamente
violenta, parola senza sillabe, le sere che il tuo colore
ottenebrandosi in valli e laghi irride, oh squisitamente, ad ogni umana
eloquenza, mi dànno, esse certo, di poter salutarti così, anima librata
in bacio.
 
Baci vuole la terra, plaga disamata.
 
Canti vuole di felice lievità e di forte carità.
 
Dioniso! Dioniso!
 
 
 
 
_GLI OCCHI EROICI._
 
 
Ma siamo poveri.
 
La forma grande d'un cipresso che s'alza da una riva d'acqua e
taglia il monte a mezzo già brunito e a mezzo ancor rosato, svettando
nell'aperto del cielo, non vale.
 
Siamo poveri, siamo vili, ed è fatale.
 
 
La passione purpurea si striò livida.
 
Divenimmo tre cose sciagurate, io e la fanciulla maschia e l'uomo che
per anni ed anni m'aveva dato la dolcezza di farlo beato.
 
Tre pietà, tre incomprensioni.
 
Com'era la mia voce quando gridavo ad Andrea: «Spezzami, gettami via!»?
 
Quando gridavo: «Chiudi le finestre, non voglio vedere le stelle!».
 
Essi si guardavano talora con un guizzo di complicità; si odiavano ma
si trovavano complici dinanzi al mio forsennato cuore.
 
Costernati sentivano la realtà del mio doppio delirio del mio doppio
strazio: la potenza dell'animo che se ne avvolgeva; poi un qualche
aspetto del mio viso, un lineamento, nulla, un'attesa indicibile delle
vene, li riconduceva a negare ah l'orrore per me di quell'identità
d'accento! «No, dicevano, non puoi amarci entrambi, è un mostruoso assurdo, sei da tenere nel cavo d'una mano»....

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