2015년 8월 7일 금요일

Il passaggio 9

Il passaggio 9


Intorno alla città lo spazio s'apriva interminabile per la fuga. Grandi
ombre al suolo. Suolo dell'Agro Romano, erano gli intenti cirri nel
cielo d'oro. Tutte le forme apparivano per stamparsi così brune a
terra, nomadi bassorilievi. E il bruno e l'oro, la rasa pianura e il
cavo velario del tempo cantavano.
 
Fu un'estate, od un inverno, non so. Vidi quella maestà deserta
avvallarsi come certi sguardi: e insospettate, nei campi d'ombra dove
l'umano pareva remoto, bruire vite. Cose di creta, ancora o di già?
M'interrogavano: «Donde vieni? Come sei bianca!».
 
(Dolore, dolore d'oggi e di sempre, non ti vinco, sei presente. Le
imagini che richiamo nulla tolgono nè aggiungono al sapore di terra che
ho in bocca. Ma, nata signora, e guerriera, scrivo, con la stessa mano
che leggera ha portato ieri un tralcio di rose al giovine ferito che
m'ignora. L'ha baciata egli con senso strano, e bello era il tralcio
fra quel sommesso stupore e il mio sorriso di lontano).
 
«Donde vieni?»
 
Indicai Roma, come un giardino di cristallo che stesse appena sorgendo
sullo sfondo di quell'immensità.
 
Una singhiozzante letizia, un attimo, può creare una rude legge di anni.
 
Mio divenne tutto il terreno di chi una volta aveva colonizzato il
mondo: più mio che se a cavallo a galoppo lo percorressi sconfinato
dall'adolescenza: dominio aureolato; e accanto a me videro giungere
quanti con Andrea trascinai; dai villaggi di paglia e di mota e dalle
imprevedute caverne, dubbiosi s'affacciarono all'arrivo della nuova
gente, dei maestri, dei libri: il suolo più e più s'avvallava, verso
mare, verso monte, o tutto polvere o tutto acquitrino, luccicava
febbrile, mi risollevava in viso grandi occhi di rugiada, certe albe
che un'improvvisa melodia chiomata di pini s'accordava al volo alto
d'un'allodola.
 
Risero e piansero i più vecchi imparando a compitare questo è il
ricordo più sicuro di quella mia lunga opera: esso vale ch'io non
lamenti la forza e la passione che le diede.
 
Terree dita tremanti che apprendevano una ormai vana per loro scienza,
come una musica soltanto ormai.
 
E quivi era la giustizia: nella realtà e nella tenuità di quella gioia,
loro e mia.
 
 
Parvi arruolata per sempre fra coloro ch'han l'esistenza riempiuta
così, fondano scuole ed ospizi, si scambiano patetiche visite, fidano
in un ordinato avvenire sociale.
 
 
Un fantasma sopraggiunge, ha il passo scalzo, ha un caro gesto.
 
Francesco, santo della mia valle.
 
Se ancora questa mente lo riceve, vadano ancora sempre trascurate le
bige ironie.
 
Come se posta io alla sua sinistra avesse egli, quando chi sa,
cancellato le braccia in modo di croce, messo la mano diritta sul
mio capo, e dettomi con dolce riso, come al suo Bernardo: «andando e
stando».
 
 
Andando e stando, amore.
 
Gioia di dare, gioia di ricevere, senza saper nulla del domani, senza
nulla attendere.
 
Dov'era sostanza grigia di roccia, uguale e tutta bruciante, ecco
freschi rivoli, colorati giochi.
 
Con Francesco si son rese sensibili le primavere d'Italia. Le mura si
son dipinte. Per le lande s'è cantato. Oh Siena, oh Ravenna!
 
Mistica libertà, sapienza spaziale della mia terra, realtà insolvibile
ed universa.
 
Andando e stando.
 
 
Fu in quel tempo che il mio povero libro ramingò per il mondo.
 
E c'è una zona torbida ho detto che lo difendevo? scisso da me il
mio valore, e la cifra oscura dibattuta, aspramente: io senza quasi più
respiro, che pur m'ero spogliata per immergermi nuova nelle acque e nei
venti. Zona torbida, che chiamarono quasi gloriosa, zona amara, sapore
ingrato.
 
Le donne, quelle che scrivevano, perchè non comprendevano?
 
Non ho dimenticato. Ma siano perdonate. Piansi su loro.
 
Dove giungeva senza data, ivi soltanto viveva.
 
Posterità. Pagine lette con certezza di spirito, messaggio di lontano,
nome non importa se mai prima udito, parola che s'inserisce per sempre.
Io son forse già sepolta da secoli. E quando mi s'incontra per le
strade della vita da quelli che m'han letto così, mi si trova reale
e remota quanto l'effige d'un affresco o d'un sarcofago, oppur la
figurata in un poema, Calipso o Antigone o Isotta. Vecchi e fanciulle
mi guardano con identico abbandono. Madri mi chiedono del mio bambino
come s'egli avesse in eterno sette anni. Han vegliato con il mio libro
su le ginocchia, hanno creduto. Tante t'han cullato, figlio!
 
 
Passavano uomini fieri, uomini scaltri, uomini semplici.
 
Mi consideravano in silenzio nella mia inaudita fedeltà all'amico
povero e deforme.
 
Uno solo, una volta aveva una voce che vibrava intensa e bellissima,
nessun'altra sentii mai così sospesa nell'aria della sera, palpitante
potenza osò dirmi: «Non vi fa paura la felicità che date? È un dono
terribile, e quegli che l'ha ottenuto non lo sa».
 
Dov'è, com'è la sua voce ancora, che non l'ho mai più udita? Che cos'è
questa lucidità del mio ricordo, questa brezza ch'io se voglio sommuovo
a tanta distanza di tempo, parole che dinanzi a me sola, allora,
s'alzarono nella sera, e chi le pronunciò, se dovrà qui incontrarle,
non saprà forse più che furon sue?
 
 
Carovane, tante.
 
Lunghe righe equivalenti.
 
Vanno, e non è vero che la terra rotea, tutto è rettilineo, non
c'è vortice, tutto è separato sebben s'equivalga, carovane, tante,
scalpiccìo sordo, magnetismo pesante, e soltanto a notte, quando
s'accendono le fiaccole nel momentaneo ondeggiamento, simile a quando
imperiale lo scirocco confonde isole e mari, io minuta sperduta ritrovo
vertiginosamente il senso delle sfere, libera lanciata in preghiera,
che l'indomani una danza s'allacci fra il serrato mio tormento e
l'anima gioiosa del sole, oh silenzio, silenzio che aspetti!
 
 
Com'era intento lo sguardo, palpebre abbassate, di Psiche il giorno che
l'interrogai.
 
Avevo navigato per molte ore con l'ansia unica di rivederla.
Meravigliando in me stessa che mi soccorresse il ricordo di un marmo in
quel ritorno ch'io facevo da paesi distrutti, gli occhi pesi di tanto
spavento altrui, esausta in ogni membra e nel cuore.
 
La nave riportandomi traeva per sempre con me a riva frantumi di
visione: una strada di ferro e di selce smossa, interminabile,
percorsa un plenilunio, coi piedi feriti, tra lo sciabordio della spuma
attorno a scogli d'erto incantesimo e l'ululato dei cani all'appressar
d'ogni villaggio squarciato, alternandosi odore di zagare e fetore
di cadaveri: una sete atroce un'altra notte, noi stesi sul pavimento
d'un carro bestiame in una stazione, e voci in agonia dalle baracche e
dalle ambulanze ad implorare una qualunque stilla da bere; il viso dei
disotterrati vivi, il viso d'un piccino estratto dopo una settimana,
che pareva alitandovi sopra dovesse doventar mucchietto di polvere;
gli scoppi di risa gagliarde immemori, macchie di sole stridenti sulle
rovine; e ancor dolceamaro fluttuar d'azzurro, nomi dolciamari, Scilla,
Palmi, ombrie folte d'agrumeti, selve antiche d'ulivi, il candore alto
dell'Aspromonte, un fermo aspetto d'eternità....
 
 
Palpebre abbassate, lucente seno, Psiche ascoltò.
 
Le ero dinanzi, e l'ansia permaneva. Le ero dinanzi come cosa ivi
spinta da una lontananza maggiore di quella che supponessi. Già la
nave andavo obliando e le terre sconvolte e l'ansia cresceva. Una
passione, una desolazione più segrete. Sentivo tornare sui mari la
calma, le rovine sui lidi già coprirsi di verdura, e nuovi flagelli
prepararsi, guerre divampare fra l'umana gente provvisoria....
 
Psiche, Psiche!
 
Quel suo torso, spezzato e perfetto quale l'avevo agognato, splendeva.
Sommersa ogni memoria di mito. Ma forma di consapevolezza ineffabile,
ecco la statua ricreava per me l'atmosfera di concentrato spasimo
ond'era sorta.
 
Così mi rispondeva.
 
Una invisibile polla di viva acqua ci trasmutava l'una nell'altra. Ella
ritornò per qualche attimo materia scalpellata, alitata: io mi sentii
composta in linee sovrane, virtù e genio espressi musicalmente, fuor
della storia e d'ogni speranza....
 
(Debbo morire. Finchè avessi saputo portar in me sola il ricordo di
quell'istante sarei stata immortale. La divinità ci tocca, non esita
ad entrare in noi, perchè conosce che non possiamo non staccarci da
ciò che di più grande ci fu donato. Peso insostenibile di ciò che fu
più lieve e ci rapì ogni gravame, peso da gettare poi che debbo morire,
anima, rivelata bellezza!).
 
 
 
 
_LA FAVOLA._
 
 
Ho io timore? Non l'ebbi allora.
 
 
Invoco, che mi serbino il loro bene, le donne dolci e pure che ho sulla
terra: il volto roseo accorato della mia sorella, nata ultima di mia
madre e di mio padre, che ha bimbe ora uguali a quella ch'ell'era,
a quella che ancora in certi sonni buoni riveggo e vezzeggio, cara
tenerezza: il volto d'un'amica giovinetta, il quale fa quando m'appare
che armonia ritorni, anche nell'ore più aspre, tanto è immagine ed
essenza di musa, tanto io credo ch'ella intenda e sollevi la vita: ed
altri, altri volti ancora, attenti e fedeli: donne, misteri che non
tento di sciorre le più sante come le più maliarde....
 
 
Cominciò puerilmente come cominciava la primavera: voci d'alati sul
poggio mi destavano all'alba, vibravano nuove; mai le mutazioni nel
cielo di marzo m'avevan tanto commossa; ingenua e indocile una forza
nell'aria pareva ad ogni ora pregarmi e nascondersi.
 
La favola era bionda. Un color caldo si moveva su tutte le cose.
Qualcuno giungendo ogni giorno mi riempiva di fiori il grembo, diceva:
«vieni», mi conduceva correndo all'argine vivo e silenzioso del fiume.
Cantava. Due punti d'oro negli occhi, una piega violenta e luminosa nei capelli.

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