2015년 8월 7일 금요일

Il passaggio 6

Il passaggio 6



Chi fece il sogno di due amanti che riposassero così, l'uno vegliando
su l'altro, dopo aver detto addio al loro amore piangendo?
 
In qual notte, al fiato di quale immensa passione, di là dal firmamento?
 
Invisibile, Insaziabile, Volontà, Verità, Forza, qualunque fosse il suo
nome, come l'adorai dopo averla ubbidita! Così quale l'avevo sentita,
io medesima ero stata piena di ferocia e piena di pietà, esecutrice e
consolatrice, ebbra e lucida, specchio e fantasma, e le ore come onde a
marea avean cantato alterne.... Le ore avean mescolato gemiti disperati
e sguardi raggianti, orrore e vittoria, i suoi gridi e i miei: avevan
visto mescolarsi anco una volta le nostre membra anelanti, i nostri
corpi che s'eran piaciuti. Giovinezza, mio primo amato, braccia dolci
da cui devo strappare la mia carne che appena incominciava ad imparar
la gioia. Morire, morire! Non si può, bisogna svellersi da questo
desiderio di consunzione, oh voluttà, bisogna vivere, la vita è più
cruda della morte, oh labbra che non bacerò mai più, occhi che non
mi vedranno mai più riversa e ridente! E il tuo cuore, il tuo cuore
di fanciullo che m'ascolta e diventa uomo! Sei, oggi che ti lascio,
quello che ho tanto atteso! Oggi che non puoi più nulla per me, ch'io
ti lancio per sempre via da me come una mia canzone compiuta.... La
vita ci vuol creatori, tu lo senti. Sale, ci sospinge. Non si sa più
se spasimiamo o se godiamo. Vuole che ci si ribelli e insieme che
ci si curvi. Così come ci si dona e poi ci si riprende, perchè non
diventi menzogna ciò ch'è stato verità, non si trascini livido ciò
che nacque ardito.... Oh nodo delle nostre vite, la sua ultima vampa
è la più alta! Ci siamo trovati sulla terra per farci provare l'un
l'altro questa sofferenza feconda come nessuna delizia. Per sfidare
la vertigine su questa cima remota. Tutto è lontano, anche ciò che è
deciso: tutto è piccolo in confronto a questo nostro ultimo abbraccio,
alla forza che da me è passata in te, alla luce che ti splende sul
volto, al sonno che ti coglie sul mio cuore, o creatura....
 
Sonno ch'io vegliai. Il mare cantava. Immobile io adoravo e piangevo.
Una mia lagrima gli cadde sulla fronte; egli riaperse gli occhi e
disse: «È calda come sangue. M'hai segnato per sempre. Ti benedico».
 
 
 
 
_IL NOME._
 
 
L'umiltà m'avvolse.
 
Profonda come le ombre violette nella valle coronata da nubi d'argento.
 
Io son nata a mezzo agosto in Piemonte. Ma forse in cielo in quel mio
primo mattino stavano sospese grandi fantasime bianche, e nella lontana
campagna d'Assisi, dove mia madre era passata da sposa, nella chiara
conca di paese dove vorrei morire, forse tutta la soavità della terra
si vestiva di viola.
 
Umiltà, senso di donna, veramente senso materno. Cima dell'essere
che si è espresso in tutta la sua potenza e s'è trasceso. Vittoria
estatica. Se l'orgoglio fu necessario, ahi! triste, ora è scomparso. Le
inquiete ali dell'anima si ripiegano.
 
«Son vostra» scrissi ad Andrea. «Ma fate di non ingannarvi, amatemi
nella verità, qualunque sia».
 
L'ora estiva sfavillava. Come oggi, a nessuna sorella avrei voluto
augurare sorte uguale alla mia, che tuttavia con nessuna avrei voluto
cambiare.
 
Poi una sera, l'una accanto all'altro per la prima volta dopo la
confessione, egli mi disse: «Ho sentito stanotte che mia madre, se ci
fosse ancora, sarebbe contenta». Mi disse: «Sei bella. Intendi? Sei
tutta bella». Mi chiese: «Scriverai a lui di questa giornata?». Al mio
reciso, un poco rauco: «No, questo non lo riguarda più», le sue piccole
pupille brune sorrisero un attimo crudeli.
 
Ricorda egli? Nel cavo della sua mano teneva il mio cuore. «Ti
custodirò» diceva. «Sento che è per sempre» susurrò un'altra sera.
Palpitante e raccolto il mio cuore lo pregava: «Non dire, non dire. Io
non so nulla del domani, non voglio sperar nulla. Son tua di là d'ogni
attesa. Non promettermi alcuna cosa. Resta libero. Ti amo grande».
 
Esser per lui un momento di riposo.... Può il genio averne? La terra
rotea. Fra miriadi di punti luminosi il mio sguardo d'amante non può
trattenerlo che per un attimo. Esser per i suoi vaganti occhi una
minuta scintilla, una stellina senza nome, silenziosa.... Quando sono
stata accesa? Quali larghe zone iridescenti mi scopre egli intorno?
 
Estate, stagione colma, e il mio volto di rosa in preghiera, preghiera
di grazie.
 
Panieri di pesche, fragranze e colori, brusio di piccole faccende al
mattino per le vie borghesi, stridìo di rondini la sera oltre i rami
della piazza. Nella sua stanza fra le sue braccia, quando giungevo
egli mi chiamava Letizia, mi chiamava Chiara, mi chiamava Vittoria.
Da singulti sentii scosso il suo povero torso, il pallido, magro,
quasi di crocifisso, petto, dopo che vi ebbe premuto il mio di Eva,
un meriggio che mi parve allo spirito ricominciar davvero la storia
umana, nella calda ombria del letticciuolo, ricominciar con la nostra
redenta coppia. Un figlio, un figlio! Alla vita che è buona, alla
vita che è grande. Il patito volto dell'uomo, quei suoi lineamenti
senza grazia, terrei, si trasfiguravano, la donna con il suo amore li
penetrava d'euritmia, tutte le trasparenze del mare, tutte le radiosità
dell'etere adunate squillavano nell'abbraccio. Un figlio. Con sensi
trascendenti, con labbra e con mani per baci e carezze musicali ad
attimi animati, a creature sorte dal respiro del cuore, a visioni ebbre
di fede....
 
Chiara, Letizia, Vittoria. Ed un giorno, sul rovescio d'un dei
foglietti dov'io nella notturna pace della pineta gli susurravo delle
mie estasi, egli scrisse: «Sibilla». Nome di mistero, che doveva
restarmi, nome del mio destino fiero ed altero, nome che non ho mai
amato ma che ho portato come un dono periglioso, Sibilla, fiorito
inconsapevole di sua durata quando un solo ancora m'ascoltava.
 
«Tu sei più un'ammiratrice che un'amante della vita» doveva dirmi
molt'anni di poi un giovine definitore, ed io stupita assentire.
 
Ma in quell'estate d'oro uno solo ancora m'ascoltava, uno solo ancora
credeva di conoscermi.
 
In tutto il mondo egli soltanto per qualche tempo potè accostare il suo
orecchio a sentirmi crescere.
 
Rondini stridevano in cielo, vette di eucalipti rosseggiavano, fontane
nel vento dilatate c'investivano. Terrazze di caffè, sotterranee
trattorie, polvere degli sterrati oltre mura, ciuffi di castagni
sulle cime albane in vista dei minuscoli laghi, glauchi occhi, e
dell'incandescente filo di mare all'orizzonte.... Ero vestita di
mussola bianca ed egli mi ripeteva: «sorridi». Tutti i temi di quello
che fu il nostro canto s'accennarono. Mi mise in mano volumi e ancora
volumi. Analogie singolari mi richiamavano l'infanzia, l'educazione
paterna. Per esse forse con brivido tanto lucido descrivevo la bimba
ch'ero stata? Ad una selvaggia venivo paragonata, una selvaggia che
adoperasse con sicuro istinto i più delicati strumenti della civiltà.
Già al principio della nostra amicizia egli m'aveva riconosciuto uno
stile, di slancio e di dominio insieme. Ora chiedeva: «Che influenza
avrà su te la mia vicinanza? Non vorrei nè turbarti nè mutarti». E con
uno di quei moti contradittorî che non sapevo ancora tanto infrenabili
in qualsisia cervello virile, immediatamente soggiungeva: «Ma il tuo
libro avrà il mio suggello». Maschio amalgama, maschia tempra, scorza
cavernosa, e il mio fluido spirito a permearla in quell'estate dorata
come nella mia puerizia, o similmente alle nuvole che veleggiano sui
dorsi dei monti assumerne le forme via via ad istanti, proiezione in
cielo delle dure cime. «Tu non guardi gli aspetti del mondo, hai gli
occhi rivolti sempre al di dentro....» Rose, in verità io vi aveva
viste sin allora soltanto come parvenze che non fosse necessario
fissare, nominare, distinguere, rose, eravate inserte nella luce
della vita come le gradinate di pietra, come le correnti vetture
di metallo di legno di vetro, come i balenanti denti di bocche
giovanili, rose, biondi pallori d'aurora, ondulamenti d'acque, seni
di statue, remoti folti di astri.... Vi eran state notti in cui mio
padre m'additava talune costellazioni, ed io amavo smarrirle in quel
lassù forse tumultuoso del quale sapevo non mi sarebbe mai giunta
l'eco. C'è bisogno di guardare ciò che splende? La mia attenzione
andava unicamente, sì, alle cose invisibili: andava agli inafferrabili
accordi della mente, ai loro riflessi sulle fisionomie umane, brividi
di polsi, pause dense intense.... Non il creato mi stupiva, ma l'uomo,
il portatore nel creato d'una nascosta fiamma. Con prona passione
spiavo nella sua coscienza la volontà dell'universo, il secreto ordine
dinamico. Spiavo, sorprendevo. Oh solitudine! L'uomo mi s'erge dinanzi
come se veramente io facessi parte dell'inconsapevole: come fossi
fiore, nido, stella: e di tutto il suo interno travaglio, dell'assalto
ch'egli mena temerario alle ragioni e alle forme, d'ogni concetto e
d'ogni architettura neppur in minima guisa io son complice: donna,
sotto la specie dell'eterno, immota, contemplante lontana.
 
«Sorridi»!
 
Con il sapore del mio bacio ingenuo e del mio sorriso io gli
trasmettevo fede. Trepida attendevo un dono più grande del mio.
 
«Mia creatura» mi diceva, e pur talora si dissolveva come un bimbo
fra le braccia della madre al buio, oh quanto umano, col terrore e il
rancore del bimbo scampato all'incubo.... Povero, povero caro! A mia
volta lo chiamavo per nome, in spasimoso impeto aderendo a quella sua
realtà bisognosa. Fiori passavano dal mio sangue al suo, tutte le cose
festevoli che la sua infanzia non aveva avuto, la baldanza candida
della sanità e della ricchezza, quasi il bel color sulle guance. Si
persuadeva, vedeva giardini dov'eran state paludi, e la figura di sua
madre fra le aiuole smaltate m'assomigliava, le labbra aperte al canto.
 
Gioia, eri come un dipinto che sbocciato dalle mie dita io venerassi.
 
Lo intese Felice il giorno che ci rivedemmo, e fu l'ultima volta che
ci rivedemmo, il giorno ch'egli mi trovò accanto al letto di Andrea
ed il pomeriggio era mite; Andrea posava convalescente fra i bianchi
cuscini dopo settimane di malattia. La malattia s'era abbattuta
pesante nella stanza del mio secondo battesimo, m'aveva dato in balìa
totale la carne e i nervi del mio amico, forse non per altro era stata
mandata, perch'io mi sentissi necessaria dove mi credevo alto giuoco.
L'infermo guariva alle mie cure. Indicibile metamorfosi dell'amore in
tenerezza, passaggio incalcolato dalla libertà alla schiavitù, volere
in ombra, ticchettìo dell'orologio, ticchettìo uguale dell'orologio.
E Felice, che dopo l'accettazione frenetica del sacrificio m'aveva
scritto e riscritto delirando di rimpianto, come un bendato che fosse
stato condotto attraverso regioni in sole, protestando che non voleva
rassegnarsi, giurando di riprendermi, Felice venuto acre e tremante
per coglier agli angoli della mia bocca un fremito irrefragabile,
stette fra noi due un'ora, un'ora che neppur alla sua anima certo
egli mai potè raccontare, fra la zona azzurra della mia grave soavità
e la zona rosso-bruna dell'uomo sicuro, sostò, viandante com'egli
amava chiamarsi; forse non parlammo che d'ali migranti, poi ch'era settembre....

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