2015년 8월 7일 금요일

Il passaggio 8

Il passaggio 8


Dio.
 
No, non lo nominavo.
 
Ma una catena di cuspidi è la vita.
 
In monti s'elevano i costruttivi giorni che il dolore sfidarono, il
dolore laggiù nel piano, il dolore, mare, oceano, acqua stagnante o
tempestosa.
 
Cime bianche, vertici di lunghi anni, ridenti vertici nel sole!
 
Non nominavo in quel tempo Iddio.
 
Ma rinuncia ad ogni tangibile giustizia: al mio figlio stesso;
aspirazione ad uscir da me, da quella mia così atrocemente conquistata
coscienza dalla forma di vita quasi santa che ancor mi pareva
troppo facile, vile; l'avvenire, in millenni, che in certi attimi
ineffabilmente credevo d'aver già sorvolato: moltiplicazione, ideale
estensione di brividi nel tempo; chi, chi musicava di note tanto
verginee le linee virili della mia fronte?
 
Religioso culmine ma non sapevo di toccarlo.
 
 
Pur commisi allora il peccato di cui mi sono confessata, il solo forse
concreto peccato della mia vita. Andrea m'indusse e non m'opposi.
Asportò egli dal mio libro le pagine dove io diceva il mio amore per
Felice. Ed io lasciai amputare così quella che voleva, che gridava
esser opera di verità. Come un altro qualunque dei tagli operati sul
manoscritto, come su un qualunque lavoro letterario. Uncinò i margini
con parole sue. Dov'era la piccola gagliarda che si chiamava Rina, che
da sola dopo tanta tribolata umiliazione aveva un giorno intrepidamente
agito e s'era assolta? Ribattezzata, ripiantata. L'uomo ha un così
ingenuo istinto di coltivatore!
 
 
E l'altra persona offesa? Che cosa avrebbe detto Felice alla comparsa
del libro?
 
 
Lagrime che più non piango, creature perdute, selve oscure immobili nel
tempo....
 
Parole da dire, anima mia. Parole che dici, quando il minuto ti coglie,
fra miriadi, e poi senti che la morte non avrebbe potuto chiuderti la
bocca senza che tu le avessi dette.
 
Fra la morte e la sorte, misterioso patto! T'amano le due sorelle in
ugual misura.
 
Ali intorno alla mia fronte, meditabondo respiro, forza, elemento.
 
Campi lavorati dalla mia passione, e acque, e rupi, certezze, sgomenti,
inni.
 
Visioni che diventan parole.
 
Accostamenti, come nella vita, impresentibili. E silenzi, gorghi,
distrazioni, indi ritorni, al minuto esatto, o sorte sicura come la
morte!
 
 
Non lesse il mio libro Felice.
 
Morì chiamandomi ancora Rina.
 
Non s'uccise, morì, in due giorni, dopo due anni dal nostro distacco,
per non so qual male fulmineo, senza nessuno accanto, forse senza
credere di morire.
 
M'ha chiamata? Non l'ho sentito, non l'ho riveduto. M'ha detto la cosa
un mattino Andrea, adagio. E adagio ho rantolato no, no, che non doveva
esser vero.
 
No al destino, Rina?
 
Ma io avevo differito, differito.... Per non dar dolore a
quest'altr'uomo non avevo mai più scritto all'abbandonato, m'era
mancata la forza di andar in fondo alla mia speranza, di creare,
di alitare una fraternità umorosa dopo l'amore, dopo l'ultima notte
vegliata sull'amore.... Miseria mia! Lasciami stare, tu Andrea. Va'
via, se ti fa male. Lascia. M'era caro! Non potrò mai più fargli sapere
quanto m'era caro. Il tempo s'era fermato, c'era qualcosa di fisso;
anche dopo dieci anni rivedendolo gli avrei preso fra le mani quella
sua testa dove i capelli erano fiamma, tenerezza, spasimo....
 
 
E non sono io qui, e tanto tempo è, Felice, che sei bianca polvere nel
tuo cimitero di montagna, non sono io qui, brivido ancora, pensiero di
te ancora?
 
Altri ho amato, dopo quegli stesso per cui t'ho sacrificato, altri più
saldamente, con più fiera disperazione. Ma per nessuno forse avrò mai
quest'accento che forse era tuo, cuore elegiaco, cuore che prima degli
altri tremasti ti smarristi ascoltandomi. Quel mattino che ti seppi
morto mi parve finita la mia giovinezza. E no, finisce invece oggi che
termino d'evocarti, Felice, per chi? Da oggi non m'appartieni più, e
tutto quello che di te non ha saputo fissare svanisce per sempre, e
questo ch'è qui chiuso non sarà più mai che una cosa sognata e donata
via, donata via, o nostra giovinezza, alla vita!
 
 
Lontananze verdi azzurre corse d'ombre d'argento, vi furono occhi che
non vi vedranno più.
 
Oro levante dal mare, cornici di ghiaccio verso sera incandescenti,
solchi di voli: in quello sguardo mai più.
 
Si sarebbero stancate le sue pupille? Adolescenti eterne son le
apparenze.
 
O la beltà della terra mai si corrompe per ciò soltanto, che non tutti
gli umani specchi si appannano, che taluno si frange quand'è più terso?
 
Còlte nel sonno, còlte in battaglia, ignare o ribelli o pronte, di
giovinezze tronche son soffusi gli orizzonti, di giovinezze che non
maturarono, non si sfecero, senza figli senza opere, e i tramonti per
ciò solo forse nei cieli han tutti sempre magie d'aurore.
 
 
Un filo di canto, un filo di canto che mi dica di essenze senza nome,
di essenze solamente, senza spiegazione!
 
 
 
 
_LE CAROVANE._
 
 
Le stagioni si seguono, ritornano identiche, c'è qualcosa che cresce,
qualcosa con leggi che paion diverse, oscure e quanto vivrà se
intorno ebbe, mentre si formava, tanta mutabilità di cieli?
 
Fibre di donna sanno la lentezza solitaria del tempo che inturgida un
grembo, ma agli innumerevoli attimi ritmati dal duplice cuore c'è un
termine fisso. Chi invece potrà dirmi se quest'opera mia sarà compiuta
fra un anno o fra altri dieci, essa che dovrà poi intangibile restare,
opera mia, polvere stellare?
 
E la traversa il vento, odor di pane caldo, odor di muricciuoli
muscosi, odor di trucioli sotto la pialla. L'investe, essa sospesa come
veramente disgregati atomi, il vento di volontà strane.
 
Incominciata credendo ugualmente lontane quelle che invece rombano
rombano, che folgorando lacerano l'aria. Creazione incominciata come si
prega, attimo brividente della concezione, come per il figlio, e tutto
il resto è più soltanto travaglio, travagliata sorte.
 
Morte e vita folgorano.
 
Tocco del sole al rintocco di mezzogiorno sui muri sulle altane sugli
orti delle case tante che a mezzo il giorno m'ebbero. Vento di sera
su le palpebre, sulle ciglia degli occhi che han pianto dianzi, vento
dolce.
 
Travaglio, tormento, e fresche solitarie perle. Case ferme, nuvole
fluenti.
 
 
Una pagina di bravura: scritta come fu vissuta: con dura volontà, e
così poco per me! Ch'io ho in cuore tutt'altro, che par trabocchi e non
posso ancora assolvere.
 
Compatta, stagliata bravura.
 
Bimba, mi separavo nettamente dal gioco per il còmpito, come un corpo
stillante dall'onda s'avvolge nella rena. Poi fra gli operai di mio
padre, centinaia, nell'ansito enorme dei forni è rimasto nel mio
sguardo un poco della vampa e dell'incandescenza della materia fusa?
mi sentivo innestata pulsante in quell'attività, a gara quasi con il
cervello di chi la dirigeva e con i muscoli degli altri. Ho allineato
cifre, diritta ho sorvegliato le opere manuali, ho portato per ischerzo
dei pesi sulle braccia che qualche anno dopo reggevano il mio piccino.
Figlia di padroni. Tanta forza da spendere, tanta per giungere,
esangue, ad intendere la libertà lieve d'una linea di montagne azzurre,
là giù....
 
Compattezza, assai tempo più tardi, di povere necessità, quasi
inavvertite aggiunte esterne al dolore fedele: la misura del soldo, il
cibo preparato con le mie mani, la vana tentazione d'un frutto o d'un
poco di profumo: il lavoro per quel soldo, fatica greve di spogliar
giornali di sfogliar riviste, occhi su bozze d'estranei, pennino che
traduce volumi e volumi, stolidità, mesi, anni....
 
Le cime delle mie dita son come petali tuttavia.
 
 
Apologia di Socrate, scoperta una sera, compenso d'infinite biografie
cenciose!
 
 
Vidi passare carovane. Continuano il loro andare, certo.
 
 
Donne in sale d'ospedale mi porsero i loro piccoli, migliaia di donne,
poveri lineamenti duri, aride labbra. In ore mattutine ch'erano talune
terse e fragranti miseramente migliaia di piccole membra nude mi si
mostrarono, e le loro condanne.
 
 
Vidi luridi sacchi d'indigenza, nei fondi e nei sobborghi, ch'erano stati figli di popolo, avevano indifferentemente lavorato e rubato, ora fuorusciti di galera impassibili s'ammucchiavano.

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