2016년 6월 30일 목요일

Annali d'Italia 174

Annali d'Italia 174


[2518] Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.
 
[2519] Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.
 
[2520] Chronic. Foroliviens., tom. 19 Rer. Ital.
 
[2521] Raynaldus, Annal. Eccles.
 
[2522] Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Cribell. Vit. Sfort., tom.
19 Rer. Ital.
 
[2523] Bonincontrus, Annal., tom. 21 Rer. Ital.
 
[2524] Cronica di Sicilia, tom. 24 Rer. Ital.
 
[2525] Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital. Cribellus, Vit. Sfortiae,
tom. 19 Rer. Ital. Bonincontrus, Annal., tom. 18 Rer. Ital.
 
[2526] Campanus, Vit. Brachii, tom. 19 Rer. Ital.
 
[2527] Cribell., Vit. Sfortiae, tom. 19 Rer. Ital.
 
[2528] Johann. Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.
 
[2529] Annales Foroliviens., tom. 22 Rer. Italic. Chron. Foroliviens.,
tom. 19 Rer. Ital.
 
[2530] Ammirati, Istor. Fiorentina, lib. 18.
 
[2531] Billius, Hist., pag. 63, tom. 19 Rer. Ital.
 
[2532] Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.
 
 
 
 
Anno di CRISTO MCCCCXXIV. Indizione II.
 
MARTINO V papa 8.
SIGISMONDO re de' Romani 15.
 
 
Si sciolse in quest'anno il concilio generale, cominciato con poco
concorso in Siena, per varie difficoltà quivi insorte[2533]; laonde
_papa Martino_ determinò che il medesimo si avesse a celebrare da lì a
sette anni in Basilea. Nell'anno presente[2534] diede veramente fine al
suo vivere l'ostinato Pietro di Luna, cioè l'antipapa _Benedetto XIII_.
L'età di novant'anni, a cui era giunto, ci porge motivo di credere che
non da veleno, come corse voce, ma dai troppi anni procedesse la morte
sua. A lui fu da due soli anticardinali dato per successore Egidio
Mugnos o Mugnone, canonico; e costui, tutto che ridicolo pontefice,
non lasciò di crear nuovi cardinali, e di esercitar le funzioni da
papa: tutto per suggestione di _Alfonso re d'Aragona_, il quale,
col mantener quest'idolo, volea tenere in apprensione il pontefice
Martino V, e ricavarne a suo tempo dei vantaggi. Ma fra le cose che
maggiormente angustiavano l'animo d'esso pontefice, era il duro assedio
della città dell'Aquila, continuato già per più mesi da _Braccio_
suo nemico, temendosi oramai la caduta di quella città nelle di lui
mani. Se ciò succedeva, Roma sarebbe venuta a restar come bloccata da
Braccio, uomo non mai sazio d'acquisti, e padrone dall'una parte di
Perugia e d'altre città, e dall'altra di Capoa, dell'Aquila e di altri
luoghi. Pertanto papa Martino, oltre al sollecitare continuamente
la _regina Giovanna_ e _Sforza_ al soccorso, inviò anche ad esso
Sforza tutti gli aiuti di gente armata che egli potè raunare. Erasi
dunque mosso questo prode capitano coll'esercito suo verso la metà di
dicembre dell'anno precedente con ferma speranza di giugnere a tempo
alla liberazion dell'Aquila[2535]; e nel cammino avea sottoposti al
suo volere Lanzano ed Ortona, dove celebrò la festa del santo Natale.
Quivi, dato riposo alla armata, nel dì 4 del gennaio dell'anno presente
al dispetto del verno marciò con tutta la gente innanzi per passare
il fiume Pescara, là dove sbocca nel mare. Valicò egli intrepidamente
quelle acque insieme con _Francesco_ suo figliuolo, seguitato da
quattrocento cavalli, coi quali esso Francesco mise in rotta un corpo
di nemici posto alla riva opposta. Intanto, essendosi ingrossato il
fiume pel flusso del mare vicino, il resto dell'armata si fermò,
non osando passare. L'impaziente Sforza, dopo averli colla voce e
colla mano indarno chiamati, di nuovo spinse il cavallo nel fiume per
tornare di là, ed animar col suo esempio gli altri al passaggio. Ma
ritrovandosi in mezzo all'acqua, e veggendo uno dei suoi uomini di
armi, oppure un suo caro paggio, che nel voler passare s'affogava, si
indirizzò per dargli aiuto. E già l'avea preso colla man destra per
sollevarlo, quando al suo cavallo vennero meno i piedi di dietro, se
pur non cadde in un gorgo; e Sforza armato, come era, piombò al basso,
e quivi lasciò la vita, senza che mai più si trovasse il cadavero suo,
che probabilmente fu rotolato nel mare. E questo miserabil fine fece
_Sforza Attendolo_ da Cotignola, che da basso stato era salito pel
suo raro valore ad un'insigne potenza, e al credito d'uno dei primi
generali d'armi che s'avesse allora l'Italia. Lasciò dopo di sè molti
figliuoli, bastardi la maggior parte, fra' quali Francesco superò
col tempo di gran lunga la gloria del padre. Per la morte sua restò
scompigliato ogni disegno di quell'esercito. _Braccio_ stesso, che si
trovava allora a Chieti, e, inteso il passaggio di Sforza, già s'era
posto in viaggio senza volerlo aspettare, dacchè ricevè la nuova della
morte di lui, più che mai vigoroso tornò a strignere d'assedio la città
dell'Aquila.
 
Ora Francesco figliuolo di Sforza dopo la perdita del padre volle
accorrere alla guardia delle città e terre già possedute da esso
suo genitore, e, lasciato un sufficiente presidio in Ortona,
frettolosamente col resto dell'esercito si portò a Benevento; e,
trovato che non v'era novità, andò ad Aversa. Quivi con tenerezza e
distinzione fu accolto dalla _regina Giovanna_, la quale, per tener
vivo il nome del padre, al cui valore ella era tanto obbligata, ordinò
ch'egli da lì innanzi s'intitolasse _Francesco Sforza_; e dopo avergli
confermati i dominii del padre, e datagli buona somma di danaro da
pagar le milizie, l'animò a proseguir le cominciate imprese in difesa
della sua corona. Intanto era giunta in quelle vicinanze in favore
d'essa regina la poderosa flotta genovese, ben provveduta di gente
brava e guerriera, che il Crivello[2536] fa consistere in quattordici
vascelli, ventitrè galee, tre galeotte, oltre ad altri legni minori.
La prima impresa[2537] fu di impadronirsi di Gaeta città ricchissima
in quei tempi, dove fecero gran bottino. Ebbero dipoi Procida,
Castello-a-mare, Vico, Sorrento, Massa ed altri luoghi. Ciò fatto, si
presentarono per mare davanti a Napoli; nel qual tempo anche Francesco
Sforza col _duca di Sessa_ e _Luigi da San Severino_, e con parte delle
soldatesche già militanti sotto Sforza suo padre, che volentieri si
ridussero sotto le bandiere del figliuolo, si accampò sotto la medesima
città. _Jacopo Caldora, Berardino dalla Corda_ degli Ubaldini, _Orso
Orsino_ ed altri capitani sotto l'infante _don Pietro_, fratello del
_re Alfonso_, valorosamente difendeano la città. Ma Berardino, preso
il pretesto che non correano le paghe, con licenza dell'infante se
ne ritornò a Braccio. La ritirata di questo condottier d'armi, e il
vedere che gli altri Italiani erano spesso a parlamento con quei di
fuori, fecero talmente montare in collera l'infante, che determinò di
bruciar Napoli. E l'avrebbe fatto, se Jacopo Caldora e Cola Sottile non
se gli fossero opposti colle buone e colle brusche, tanto che depose
quella crudel risoluzione. Da lì innanzi don Pietro non si fidò più
del Caldora, e questi, accortosi di essere in pericolo, segretamente
trattò accordo col _conte_ Guido Torello. Perciò nel dì 12 d'aprile,
aperta una porta di Napoli, vi entrarono le schiere genovesi e quelle
della regina Giovanna, facendo prigionieri non pochi Aragonesi e
Catalani, ma senza inferir danno ai Napoletani. Ciò fatto, misero
l'assedio al castello di Capuana, che pochi giorni si tenne e si
rendè con buoni patti. Passarono poi sotto Castello Nuovo, dove si era
ritirato l'infante don Pietro. Gran festa fu fatta per tale acquisto
da chiunque amava la regina; ed allora il giovine _Lodovico duca_
d'Angiò a nome di essa entrò in Napoli. Ma Guido Torello colla flotta
genovese, perchè la regina si trovava troppo sprovveduta di danaro da
soddisfare al soldo e mantenimento di essi Genovesi, se ne partì[2538],
e nel dì 26 di maggio con gran gloria pervenuto a Genova, quivi
disarmò. Fu nella suddetta occasione, che avendo il Torello conosciuto
di vista _Francesco Sforza_, giovane, che per tempo mostrava tutte le
disposizioni a riuscir quello che poscia divenne col darne vantaggiosa
relazione a _Filippo Maria duca_ di Milano, l'invogliò di prenderlo ai
suoi servigi, siccome più innanzi vedremo.
 
Correva già il tredicesimo mese che durava l'assedio dell'Aquila,
assedio famoso e minutamente descritto da un rozzo sì, ma veridico
poeta di quella città, ch'io ho dato alla luce nel tomo VI delle mie
Antichità Italiane, sostenendosi con valore e costanza memoranda,
non ostante la fame, da que' cittadini contro tutti gli sforzi di
Braccio da Montone. Il _conte Antoniuccio dall'Aquila_ fece delle
maraviglie in difesa della patria. Tanto il pontefice _Martino_, quanto
la regina premevano forte per soccorrere quell'afflitta città; ed
amendue, avendo unite quante forze poterono, le spedirono alla volta
dell'Aquila. Generale di questa armata fu scelto _Jacopo Caldora_;
sotto di lui militavano _Francesco Sforza_ colle milizie sforzesche,
_Lodovico Colonna_ colle pontificie, _Luigi da San Severino, Niccolò
da Tolentino_ ed altri capitani assai rinomati. Arrivò il Caldora con
tutti i suoi alla cima della montagna, da dove si scopriva l'assediata
città dell'Aquila e il campo nemico. _Braccio_, a cui era giunto
con grosso rinforzo di gente _Niccolò Piccinino_, o perchè superbo
si facesse beffe dell'esercito nemico, oppure perchè si figurasse,
lasciandoli calar tutti al piano, d'averli come in pugno, non volle
che si facesse un passo per assalirli nella scesa del monte, ancorchè
i suoi capitani gli rappresentassero la facilità di sbaragliarli nelle
vie strette di essa montagna. A chi Dio vuol male gli leva il senno.
Disposta la fanteria in certi siti con ordine di non muoversi, s'egli
non ne dava il segno, colla cavalleria si fece incontro all'armata
nemica, già pervenuta al piano[2539]. Attaccatasi la terribil battaglia
nel dì 2 di giugno, per più ore si combattè con vicendevole strage di
uomini e cavalli. Era stato lasciato il Piccinino con alcune squadre
alla guardia della città, affinchè gli Aquilani non uscissero; ma
veggendo egli i suoi o piegare o stanchi pel tanto menar delle mani,
non si potè contenere, ed, abbandonato il posto, entrò anch'egli colla
sua gente nel fiero conflitto. Fu questo la rovina dell'esercito di
Braccio; imperocchè il popolo dell'Aquila (e fin le donne, se dice
vero il Campano), scorgendo libero il varco, e il soccorso vicino,
furiosamente uscì della città, e girando per le colline, si scagliò
anche esso addosso al nemico con immense grida, che atterrirono i
Bracceschi ed accrebbero il coraggio agli amici. Queste grida e il
polverio alzato furono cagione che la fanteria di Braccio, la quale
anche s'era perduta in parte a bottinare, non vide e non intese il
segnale per muoversi; e però andò in rotta la di lui cavalleria, e
_Braccio_ stesso, mortalmente ferito, fu preso con gran copia dei
suoi. Andò tutto il bagaglio in preda ai vincitori; la città restò
liberata, e Braccio portato mezzo morto nell'Aquila, tardò poco a
spirar l'anima, scomunicato com'era[2540]. Fu creduto che la sua ferita
venisse dai fuorusciti Perugini, che la volevano sol contra di lui. In
questa maniera terminò la vita e la potenza di _Braccio Fortebraccio_
Perugino, personaggio diffamato da alcuni scrittori[2541] per uomo
di poca religione, di molta crudeltà e di ambizione smoderata, che in
questi ultimi tempi era anche peggiorato nei costumi, col divenire più
aspro del solito e sprezzatore d'ogni consiglio. Ma certo non gli si
può negar la gloria di essere stato insigne nel mestier della guerra,
e forse il maggior generale di armata che allora avesse l'Italia.
Da _Lodovico Colonna_ fu portato a Roma il cadavero suo, e vilmente
seppellito fuori di luogo sacro. Nè si può esprimere la festa che
di tal vittoria fecero i Romani, e massimamente il pontefice, che
non solamente si vide libero da un formidabil nemico, ma anche nel
giorno 29 di luglio ricuperò Perugia, Assisi e le altre città da lui
usurpate, con essere anche tornato in potere della _regina Giovanna_ il
principato di Capoa. Giunse poi nel dì 20 di giugno a Napoli la flotta
di 25 galee del re d'Aragona, che con alte grida si andò accostando
alle mura, e diede in più volte molti assalti al molo picciolo, che
bravamente fu difeso dai Napoletani colla morte di assaissimi Catalani.

댓글 없음: