Annali d'Italia 189
Martinengo_, ed altri condottieri con cento uomini d'armi, e molti
fanti e cernide. Ebbe fatica lo stesso Piccinino a salvarsi, e sulle
spalle d'uomini si fece portare (fu detto in un sacco) a riva di Lago.
Ma non mai comparve l'arditezza di esso Piccinino, come questa volta.
Dopo la rotta suddetta non si sapea dove egli fosse. Da lì a pochi
giorni giugne avviso al conte Francesco, come egli col marchese di
Mantova avea data la scalata a Verona; ed, entratovi, se n'era quasi
interamente impadronito, non restando più in mano de' Veneziani se non
il Castel Vecchio e quello di San Felice, ed una delle porte. Parve
cosa da non credere un sì inaspettato colpo. Era il conte all'assedio
del soprannominato castello di Ten, e, ricevuta questa così stravagante
nuova, non tardò nel dì 17 del predetto mese di novembre a mettersi
frettolosamente colla sua armata in viaggio alla volta di Verona.
Nella notte precedente al dì 20 essendo passato per le vie scabrose
della montagna, entrò egli nel castello di San Felice, contra di
cui già s'erano alzate le batterie, e che poco potea durare, perchè
sprovveduto di gente e di viveri[2767]. Fatto dì, piombò il conte colle
sue valorose squadre addosso agli assedianti, e, trovandoli in parte
attenti a bottinare, gli sbaragliò. Tal fu la calca de' fuggitivi sul
ponte dell'Adige, che questo si ruppe, laonde moltissimi si annegarono,
e da due mila persone rimasero prigioniere. Con sì fatta velocità
liberò il conte la città di Verona. Venne poscia il Piccinino sul
Bresciano, dove diede gran sacco e danno, e maggiormente affamò quella
città. Andò il conte Francesco all'assedio d'Arco, ma nol potè avere;
e però, tornato sul Veronese, mise quivi a quartiere pel verno le sue
affaticate schiere. Con tali prodezze terminò la campagna di quest'anno
in Lombardia, avendo il conte Francesco lasciata a' Veneziani una
perenne memoria del suo valore e della sua fedeltà. E di qui potè
conoscere _Filippo Maria duca_ di Milano il bel frutto delle sregolate
sue risoluzioni. S'egli avesse avuto dalla sua, e non già nemico, lo
Sforza, correa manifesto pericolo la repubblica veneta di perdere tutta
la terra ferma, giacchè al solo Sforza si potè attribuire l'averla
conservata, e con tanto decoro. In quest'anno[2768] il _patriarca
Vitellesco_ capitano del papa mise il campo a Foligno, ed entratovi
per tradimento sul fine dell'anno, fece prigione _Corrado de' Trinci_
signore di quella città con due suoi figliuoli; e condottolo a Soriano,
da quell'uomo crudele che era, gli fece mozzare il capo: con che la
famiglia dei Trinci, che per più d'un secolo avea tenuta la signoria di
Foligno, ne restò priva, e se n'andò dispersa. Nè si dee tacere che il
duca di Milano, per tirare nel suo partito _Guidantonio de' Manfredi_
signore di Faenza[2769], gli donò, nell'aprile dell'anno presente,
Imola, Bagnacavallo e la Massa de' Lombardi.
NOTE:
[2757] Raynald., Annal. Eccles. Labbe, Concilior., tom. 12.
[2758] Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.
[2759] Æneas Sylvius, de Gest. Concil. Basil.
[2760] Duhravius, Nauclerus. Cuspinian., Æneas Sylv., et alii.
[2761] Giornal. Napol., tom. 21 Rer. Ital.
[2762] Cristoforo da Soldo, Istoria Bresciana, tom. 21 Rer. Ital.
[2763] Ammirati, Istor. Fiorent., lib. 21.
[2764] Sanuto, Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.
[2765] Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.
[2766] Cristoforo da Soldo, Istor. Bresc., tom. 21 Rer. Ital. Sanuto,
Istor. Ven., tom. 22 Rer. Ital.
[2767] Simonetta, Vit. Francisci Sfortiae, lib. 5, tom. 21 Rer. Ital.
[2768] S. Antonin., Par. III, tit. 22. Bonincontrus, Annal., tom. 21
Rer. Ital.
[2769] Cronica di Ferrara, tom. 24 Rer. Ital. Cronica di Bologna, tom.
18 Rer. Ital.
Anno di CRISTO MCCCCXL. Indizione III.
EUGENIO IV papa 10.
FEDERIGO III re de' Romani 1.
Dopo la morte di _Alberto II duca_ di Austria e re de' Romani,
_Federigo Austriaco_, figliuolo _duca Ernesto_ e conte del
Tirolo[2770], prese il governo del ducato dell'Austria e degli altri
Stati della sua potente casa, e poscia nella festa della Purificazione
della beata Vergine fu eletto in Francoforte re de' Romani di comune
consenso degli elettori: principe piissimo, mansueto ed amator della
pace. Il resto delle sue azioni lo lascio alla storia germanica.
Fu sul principio disapprovato il suo contegno, perchè nello scisma
cominciato dai pochi prelati di Basilea, egli insinuò alla nazione
germanica la neutralità ed indifferenza, quando quasi tutti gli altri
monarchi e principi[2771] tenevano, come ragion voleva, la parte del
vero e legittimo _papa Eugenio IV_. Fin qui _Giovanni Vitellesco_ da
Corneto, patriarca d'Alessandria e cardinale, s'era acquistato credito
di gran capitano di guerra presso gli uomini, ma non già presso a Dio,
siccome uomo più di mondo che di Chiesa. Più saggi avea egli dato
della sua smoderata ambizione, crudeltà e lussuria nel corso delle
sue bravure, ed ultimamente avea ricuperata la rocca di Spoleti, con
far prigione l'abbate di Monte Casino[2772]. Da sì fatto uomo volle
Dio liberare gli stati della Chiesa, e permise che papa Eugenio (non
ben sappiamo se con veri o falsi fondamenti) prendesse gagliardo
sospetto di lui, quasichè egli macchinasse d'impadronirsi delle città
pontificie, e tenesse segreta intelligenza col duca di Milano e con
_Niccolò Piccinino_, dicendosi che furono intercette alcune sue lettere
scritte in cifra[2773]. Andò dunque ordine del papa ad _Antonio Redo_,
castellano di castello Sant'Angelo, di farlo prigione, per poscia
formare il suo processo. Ma diversamente passò la faccenda, perchè,
volendo esso cardinale nel dì 18 di marzo partirsi da Roma, nel passare
in vicinanza del suddetto castello, allorchè vide chi volea fermarlo,
si mise alla difesa, e guadagnate alcune mortali ferite, fu portato là
entro[2774], dove nel dì 2 di aprile finì i suoi giorni o per veleno
o in altra guisa, e vilmente venne dipoi seppellito. Ostia, Soriano,
Cività Vecchia ed altri luoghi ch'egli teneva, tornarono senza gran
fatica in potere del papa.
Pensava seriamente _Filippo Maria duca_ di Milano a levarsi di dosso
il suo gran flagello, cioè il conte _Francesco Sforza_; e perchè sapea
che i Fiorentini si trovavano allora mal provveduti per la guerra,
determinò di portarla colà, immaginandosi che essi richiamerebbono
incontanente in Toscana il conte alla loro difesa[2775]. Gli andarono
per la maggior parte falliti i suoi disegni. Spedì egli adunque nel
febbraio _Niccolò Piccinino_ in Romagna con sei mila cavalli, che,
giunto a Bologna nel dì 4 di marzo[2776], continuò poi il suo viaggio,
e fece tal paura a _Sigismondo Malatesta_ signor di Rimini, e agli
altri suoi consorti, già stipendiati da' Veneziani, che presero
accordo con lui. Impadronitosi poscia di Oriolo e di Modigliana, per
la via di Maradi passò in Toscana, e penetrò nel Casentino, dove ebbe
Romena e Bibbiena. Con tutta diligenza fecero i Fiorentini quella
massa di gente d'armi che poterono, e soprattutto ebbero _Micheletto
Attendolo_ lor generale, e _Pietro Giampaolo Orsino_ con altri
condottieri d'armi. Ordinò anche il papa che marciassero in loro aiuto
tre mila e cinquecento fanti di sua gente. Ma, per quanto i Fiorentini
desiderassero e pregassero, non poterono impetrar da' Veneziani il
conte Francesco Sforza, perchè troppo ne abbisognava quel senato per
dar soccorso a Brescia. Andossene dipoi il Piccinino fino a Perugia sua
patria con soli quattrocento cavalli, con pensiero di farsi signore
di quella città. Avea, oltre a ciò, de' trattati in Cortona; ma si
sciolsero in fumo tutti i suoi disegni. Ritornato perciò indietro,
venne colla sua armata al già da lui occupato Borgo di Santo Sepolcro,
mettendosi a fronte dell'esercito fiorentino, il quale s'era posto ad
Anghiari[2777]. Poca stima faceva egli delle soldatesche nemiche, molta
delle sue; e, venendo a battaglia, si tenea la vittoria in pugno. Volle
farne la pruova nel dì 29 di giugno, festa solenne de' principi degli
Apostoli, con attaccar la zuffa. Valorosamente si combattè da ambe le
parti per quattro ore, e finalmente toccò al prode Piccinino d'andare
in rotta, perchè i suoi vennero stanchi alla pugna, e si perderono
anche a bottinare. Poco umano sangue vi si sparse; contuttociò gli
scrittori fiorentini fanno ascendere a circa tre mila i cavalli
presi, e si contarono fra i prigioni _Astorre de' Manfredi, Sagramoro
Visconte_ ed altri capitani del Piccinino. Di questa vittoria nondimeno
poco seppero profittare i Fiorentini; il papa solo ricuperò in tal
congiuntura Borgo Santo Sepolcro, ch'egli vendè poscia a' Fiorentini
per bisogno di danaro. Andato intanto il Piccinino verso Perugia,
sen venne poi pel paese d'Urbino alla volta della Lombardia, e però
anche buona parte dell'armata Fiorentina calò di qua dall'Apennino in
Romagna. Nel dì 15 di settembre tentò con breve assedio e con alcuni
assalti la città di Forlì, nè potè averla. Prese bensì Bagnacavallo
e Massa de' Lombardi, terre che per bisogno di pecunia il papa poco
appresso vendè a _Niccolò Estense marchese_ di Ferrara.
Non si stette colle mani alla cintola neppure la Lombardia. Per la
somma carestia si trovava tuttavia in pericolo la città di Brescia,
nè cessavano le premure ed istanze de' Veneziani per portarle
soccorso[2778]. Perchè il passaggio del Mincio era guardato dal nemico
marchese di Mantova, pativa molte difficoltà. Il solo lago di Garda
parea piuttosto il varco per cui potesse passare un grosso convoglio di
genti e di vettovaglie. A questo fine avea il senato veneto preparata
una flotta di varie navi a Torbole, con far condurre colà per terra
infin le galere: il che costò immense spese[2779]. In fatti nel dì
10 di aprile riuscì ad essa flotta di sconfiggere quella del duca
di Milano, comandata da _Taliano Furlano_, e poscia di assediare e
prendere Riva di Trento. Allora, senza badare a difficoltà, nel dì
3 di giugno[2780] passò il _conte Francesco_ animosamente colle sue
genti il Mincio, ricuperò Rivoltella, Lonato, Salò, Calcinato ed
assaissimi altri luoghi. Più non militava con esso lui il _Gattamelata_
da Narni, perchè, colpito da un accidente apopletico, diede poi fine
alla sua vita nell'anno 1445 in Padova, dove tuttavia sulla piazza
del Santo si mira la di lui statua equestre di bronzo alzatagli dalla
repubblica veneta. Quanto più poi s'inoltrava l'armata veneta, tanto
più si ritirava indietro la duchesca, siccome inferiore di forze,
talchè le convenne ridursi al fiume Oglio. Ma anche lo Sforza comparve
colà nel dì 14 di giugno[2781], e, venuto alle mani coll'esercito del
duca tra gli Orci e Soncino, ne riportò vittoria con prendere tutto il
carriaggio, e circa mille e cinquecento cavalli ducheschi. Buona parte
d'essi era di _Borso Estense_ figliuolo di _Niccolò marchese_ di Este,
il qual con mille cavalli era passato come venturiere al servigio del
duca di Milano. Non solamente restò allora liberata Brescia da' nemici
e dalla fame con ricco trasporto di biade, ma in poco tempo tornò alla
divozione della veneta repubblica la maggior parte delle sue terre e
castella colle altre perdute nel distretto di Bergamo: tutto per la
valorosa condotta del conte Francesco Sforza. Nè queste furono le sole
azioni sue. Si spinse egli più innanzi, e s'impadronì di Caravaggio
e, in una parola, di tutta Geradadda, prima che terminasse il mese
di giugno. Nei seguenti mesi continuò egli le sue conquiste sì in
ricuperar le restanti terre perdute nel Bresciano e Veronese, che in
prenderne altre sul Cremonese, e in togliere Peschiera ed altri luoghi
al marchese di Mantova: tanto che, giunte le pioggie autunnali, ed
accostandosi il verno, le soldatesche piene di bottino se l'andarono a
goder ne' quartieri. In somma nuove occasioni al certo ebbe il duca di
Milano di pentirsi di aver beffato ed abbandonato Francesco Sforza, che
sarebbe stato, s'egli avesse voluto, il suo braccio diritto.
Neppure in quest'anno andò esente il regno di Napoli dalle dure
pensioni della discordia, a cagion della guerra continuata fra i due
re, cioè fra _Alfonso re d'Aragona_ e _Renato d'Angiò_. Povero era
Renato, e, mancandogli gente e pecunia[2782], cioè i due maggiori
requisiti a fare e sostenere la guerra, altra speranza non avea se
non in _Antonio Caldora_ duca di Bari. Ma questi a quanti messi gli
mandava il re, affinchè cavalcasse in suo aiuto, adduceva per iscusa la
mancanza del danaro, e il timore che in sua lontananza si ribellassero
i popoli dell'Abbruzzo. Prese Renato allora l'ardita risoluzione
di portarsi incognito in persona in quelle contrade, e l'eseguì con
maraviglia d'ognuno. Raccolse in esso viaggio donativi, danaro e gente,
e massimamente dagli Aquilani. Trovavasi egli nel dì 29 di giugno in
faccia all'esercito aragonese, e mandò ad Alfonso la disfida della
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