2016년 6월 29일 수요일

Annali d'Italia 133

Annali d'Italia 133


Fu inoltre supposto al papa che essi avessero tramata una congiura per
prenderlo nel dì 13 di gennaio, e di condannarlo poscia come eretico.
Andò nelle furie _Urbano VI_, li fece caricar di catene, e cacciarli
in dure prigioni nel dì 12 di esso mese; ed ordinò a Francesco Butillo
suo nipote che gli esaminasse per ricavarne la verità. La maniera di
ricavarla, giacchè si protestavano innocenti, fu quella de' tormenti.
A forza d'essi il vescovo dell'Aquila, accusato per complice, disse
tutto ciò che vollero i giudici. Si legge che gli stessi cardinali,
crudelmente tormentati, confessarono la congiura; ma, siccome diremo
appresso, ciò non sussiste; e quand'anche fosse succeduto, ognun sa
che mirabil virtù abbiano i tormenti per far dire anche ciò che non è
e non fu; e a buon conto i miseri sempre da lì innanzi costantemente
sostennero d'essere innocenti. Inutili furono stati gli uffizii del _re
Carlo_ e de' cardinali restati in Napoli in favore di quegl'infelici
porporati, i quali dall'inesorabil pontefice furono poscia dichiarati
privi della porpora e d'ogni dignità. E perciocchè ebbe egli sospetto,
oppur seppe che tutte queste mene erano procedute con partecipazione e
forte impulso del re Carlo, pubblicamente in Nocera scomunicò lui e la
_regina Margherita_, privolli anche del regno; e, posto l'interdetto a
Napoli, citò il re Carlo a dir le sue ragioni. Questi gagliardi passi
servirono a maggiormente sconcertar gli animi. Carlo, udito anche
il parere del clero, ordinò che non si osservasse l'interdetto, e
perseguitò chi volea osservarlo, sino a farne annegare alcuni. Molto
più poi irritato per la scomunica e sentenza suddetta, sul principio
di febbraio spedì il gran contestabile, cioè il _conte Alberico di
Barbiano_, collo esercito all'assedio di Nocera. Narra l'autore degli
Annali Napoletani che il pontefice assediato, tre o quattro volte il dì
s'affacciava ad una finestra, e colla campanella e torcia accesa andava
scomunicando l'esercito del re; e l'esercito non per questo si moveva
di là. Durante questo assedio furono altre volte crudelmente martoriati
i cardinali prigioni per farli confessare. Teodorico da Niem presente
non potè reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi, secondo lui,
confessò. Furono rimessi nelle carceri coll'ossa slogate a patir fame
e sete, e gli altri malori della prigionia. Nel dì 5 di luglio arrivò
a Nocera con un corpo di valorosi combattenti _Raimondello Orsino_,
e fatta aspra battaglia colle genti del re, quantunque ne restasse
ferito al piede, pure entrò co' suoi nella città in aiuto del papa.
Guarito che fu, ricevuti dieci mila fiorini d'oro, passò in Calabria,
e mosse Tommaso Sanseverino ed un Lottario di Suevia a venir con tre
mila cavalli a liberare il papa. L'impresa ebbe effetto, e nel dì 8
d'agosto il pontefice uscì del castello, menando seco i cardinali e
il vescovo d'Aquila prigioni, e il suo tesoro; e da quegli armati per
montagne e vie scoscese fu condotto verso Salerno sino al mare, ma
non senza rischio d'essere detenuto dagli stessi ausiliarii, i quali
convenne placar coll'oro. Perchè il vescovo suddetto, malconcio per
gli sofferti tormenti e pel cattivo cavallo, era lento nel viaggio,
Urbano, sospettando malizioso il suo ritardo, riscaldossi così forte
per la collera, che il fece uccidere, lasciandolo senza sepoltura nella
via. Oh tempi, oh costumi! non si può far di meno di non esclamare.
Erasi dianzi accordato il papa con _Antoniotto Adorno_ doge di Genova
per avere soccorso da lui, promettendogli d'andar a fissar la sua
residenza in Genova stessa[1960]. Essendo ciò sembrato un bel guadagno
al doge, spedì egli dieci galere nel mare di Napoli, che furono pronte
al bisogno d'Urbano. Salito esso pontefice in galea, dopo aver toccata
Messina, felicemente arrivò in Genova nel dì 23 di settembre, e quivi
prese alloggio in San Giovanni, e vi si fermò poi tutto il resto
dell'anno. Nocera fu presa. Francesco Butillo nipote del papa restò
prigioniere.
 
L'altra avventura che in quest'anno fece gran rumore per tutta la
cristianità, fu la caduta di _Bernabò Visconte_. Era egli signore
della metà di Milano, e delle città di Lodi, Bergamo, Crema, Cremona,
Brescia, Parma e Reggio. Quattro figliuoli legittimi avea, oltre
ai bastardi, tutti e quattro valorosi, ambiziosi, capaci ognuno di
gran cose[1961]. Ad essi avea già distribuite le sue città, cioè a
_Lodovico_ Lodi e Cremona; a _Carlo_ Parma, Borgo San Donnino e Crema;
a _Ridolfo_ Bergamo, Soncino e Chiara d'Adda; a _Mastino_ minor di
tutti Brescia, la Riviera e Val-Camonica. Gli altri suoi figliuoli
sono annoverati nella Cronica Veneta del Sanuto[1962]. Godeva allora
Bernabò, contra il suo solito, la pace, ma non la godeano già i suoi
sudditi a cagion delle intollerabili estorsioni e gravezze loro
imposte, e per l'insolenza e libidine dei suoi figliuoli. La sua
bestial fierezza, i trasporti della sua collera e le violente sue
esecuzioni sopra la vita de' sudditi, anche per cagioni leggere, e
sopra tutto per la caccia, faceano tremar ognuno; laonde un sì aspro
e crudo governo era ben contraccambiato coll'odio universale de'
popoli. Della sua strabocchevol libidine altro non dirò, se non che vi
fu un tempo in cui si contarono trentasei figliuoli suoi viventi tra
legittimi e bastardi, e dieciotto femmine gravide di lui. Stava intanto
_Gian-Galeazzo Visconte_, conte di Virtù e suo nipote, in Pavia, della
qual città, siccome ancora di Piacenza, Novara, Alessandria, Bobbio,
Alba, Asti, Como, Casale di Santo Evasio, Valenza, Vigevano, e di varie
altre terre in Piemonte, era padrone. Perchè dalla moglie _Caterina_
niuna prole maschile aveva egli ricavato fin qui, già faceano i lor
conti sopra dei di lui Stati i figliuoli di Bernabò, anzi neppure si
vedeva egli sicuro in vita: sì smoderata era l'ambizione di Bernabò,
tuttochè suo zio e suocero, e quella de' suoi figliuoli. Fu anche
detto che Bernabò avesse fatti de' tentativi contro la vita di lui,
con istudiarsi di sedurre la figliuola, moglie d'esso Gian-Galeazzo,
la qual rivelasse tutto al marito. Comunque sia, l'arte tenuta da
Gian-Galeazzo per difendersi dalle sue insidie era quella di non
arrischiarsi mai di capitar in essa città di Milano, ancorchè a lui
spettasse il dominio della metà di quella città[1963]. Sopportava
anche in pace tutte le superchierie che gli facea di quando in quando
Bernabò; nè usciva mai senza un copioso accompagnamento di guardie.
Diedesi inoltre ad una maniera di vivere che è la più efficace per
ingannare altrui, cioè ad una vita divota[1964], conversando sempre
con religiosi, frequentando le chiese, facendo abbondanti limosine,
e mostrandosi alieno da ogni disegno di maggiormente ingrandirsi. Per
questo suo bigottismo Bernabò il tenea per uomo dappoco e da nulla.
 
Si cavò _Gian-Galeazzo_ la maschera in quest'anno. Fece egli prima
sapere a _Bernabò_ di voler passare alla visita della miracolosa
immagine della Madonna di Varese per adempiere un suo voto, e che il
pregava di scusarlo, se non entrava in Milano, quantunque sommamente
desiderasse d'abbracciare il suo carissimo zio e suocero. Poscia
partitosi da Pavia con grosso accompagnamento di gente, cioè delle sue
guardie e di assaissimi altri guerniti d'armi di sotto (nella Cronica
Estense[1965] è scritto, aver egli menato seco cinquecento lance),
nella sera del dì 5 di maggio si fermò a Binasco[1966], e nel dì
seguente cavalcò nelle vicinanze di Milano. Bernabò gli mandò incontro
due de' suoi figliuoli _Lodovico_ e _Ridolfo_ lungi due miglia, i quali
furono ben accolti e trattenuti con assai carezze. Allorchè fu egli
non molto distante dalla città, dove era allora lo spedale di Santo
Ambrosio, uscì anche _Bernabò_ per porta Vercellina, affine di fargli
una visita con poche guardie, cavalcando una mula, tuttochè avvertito
prima da un certo Medicina suo cortigiano di non fidarsi, perchè egli
avea poco prima osservato l'andamento, le vesti ed il contegno di
quella gran truppa, che non pareva apparato da divozione. Ma era giunto
il tempo che Dio voleva chiamare ai conti quell'uomo spietato, reo di
tanti peccati. Si abbracciarono, si baciarono lo zio ed il nipote; e
dopo sì bella festa _Gian-Galeazzo_, voltatosi a Jacopo dal Verme e ad
Antonio Porro, disse loro in tedesco _stinchier_. Allora fu circondato
Bernabò da tutti quegli armati; Jacopo gli tolse la bacchetta; Otto da
Mandello gli tirò di mano e fuor della testa della mula la briglia,
Guglielmo Bevilacqua gli tagliò il pendon della spada, gridando egli
indarno al nipote che non fosse traditor del suo sangue. Furono anche
presi e disarmati i suddetti due suoi figliuoli. Con questa preda
Gian-Galeazzo entrò per la porta di fuori nel castello di porta Zobbia,
che era suo. E di là poi, divolgato il caso, cavalcò per la città,
udendo le gioiose acclamazioni del popolo, che gridava: _Viva il conte,
e muoiano le gabelle e le colte_. Non vi fu chi alzasse un dito in
favore di Bernabò; anzi l'accorto Gian-Galeazzo per ben attaccare esso
popolo a' suoi interessi, gli permise di dare il sacco ai palagi del
medesimo Bernabò e de' suoi figliuoli, dove erano raccolte di grandi
ricchezze. Fu egli dichiarato signor generale di Milano, e la mattina
seguente se gli arrendè il castello di San Nazaro, fabbricato da
Bernabò, colla rocca di porta Romana. Quivi, secondo il Corio[1967],
vennero alle sue mani sei carra d'argento lavorato con altro prezioso
mobile, e settecento mila fiorini d'oro in contante. Il Gazata, storico
vivente allora, scrive[1968] che nella sola torre si trovò un milione
e settecento mila ducati o sia fiorini d'oro, oltre ai mobili preziosi
d'oro e d'argento. In pochi giorni vennero in potere di _Gian-Galeazzo_
Lodi, Bergamo, Crema, Soncino, Ghiara d'Adda, Cremona, Parma e Reggio,
a riserva de' castelli d'esse città, che ressero per qualche giorno,
ma in fine si diedero. _Carlo_ figliuolo di Bernabò, allorchè seguì
la prigionia del padre, udita tal nuova, corse a Cremona, poscia
a Parma, e di là a Reggio. Dappertutto trovò i popoli in sedizione
contra di lui per l'odiosa memoria di Bernabò; e però gli convenne
ritirarsi a Mantova, con passare dipoi in Germania ad implorare aiuto
dai duchi di Baviera e d'Austria suoi cognati. Il solo _Mastino_, altro
figliuolo di esso Bernabò, ma assai giovinetto, perchè di soli dieci
anni[1969], corso a Brescia sua città con un buon nerbo di combattenti,
sostenne per alquanti giorni l'assedio di quella cittadella aiutato
dai _Gonzaghi_ e da _Antonio dalla Scala_. Ma in fine capitolò la resa,
con promettergli Gian-Galeazzo dodici mila fiorini d'oro l'anno sino a
certo tempo, ma probabilmente con animo di nulla eseguire; che questo
era il suo costume.
 
Così in poco tempo quella volpe di _Gian-Galeazzo_, dopo aver
atterrato l'orso, giunse a formare una gran potenza in Lombardia,
la qual cominciò a dar gelosia e timore a tutti i vicini. Ardita e
pericolosa parve ai più sensati l'impresa da lui fatta; ma egli assai
informato quanto si potesse promettere de' popoli, tutti disgustati
per le bestialità, crudeltà ed estorsioni di Bernabò, si animò a
tentarla, e gli venne fatta. E perchè un gran dire fu dappertutto,
trattandosi di uno zio, egli pubblicò e mandò a tutti i principi un
manifesto, in cui, coll'esporre in parte le iniquità di Bernabò e de'
suoi figliuoli, cercò di giustificarsi come potè il meglio. Leggesi
questo manifesto negli Annali Milanesi da me dati alla luce; ma non
si può digerire ch'egli fingesse di essere stato assalito presso
a Milano da Bernabò, e che per difesa il facesse prigione. Fu poi
condotto Bernabò con Donnina sua amica nelle carceri del castello di
Trezzo, edificato da lui stesso, dove per più di sette mesi ebbe agio
di riconoscere l'instabilità delle grandezze umane, e di chiamare ai
conti la coscienza sua. Fugli poi dato il tossico, e nel dì 17 oppure
18 di dicembre, contrito de' suoi molti peccati, terminò i suoi giorni
in età di sessantasei anni. Fece Gian-Galeazzo, per chiarir ben la
sua morte, portare a Milano il di lui cadavero, dove gli furono fatte
sì solenni esequie, come se fosse morto signore di Milano, se non
che non avea lo scettro in mano. Gli fu poi data sepoltura in San
Giovanni in Conca, dove tuttavia si mira la statua sua a cavallo.
Potrebbe taluno maravigliarsi come di tanti principi, a' quali avea
maritate Bernabò le sue figliuole, niuno alzasse mai un dito per aiutar
lui o i suoi figliuoli. Ma così potente quasi in un momento divenne
Gian-Galeazzo, che non osò alcuno d'affacciarsi; e poi a debil canna
d'ordinario s'attiene chi si fida delle parentele. Per altro Galeazzo
sapea l'arte di governar popoli. Consolò ogni città col diminuir le
loro contribuzioni e gabelle, accordar que' privilegii che gli erano
chiesti, levar gli abusi passati, e far ministrare buona giustizia ad
ognuno. Il Gazata[1970], che fioriva in questi tempi, racconta aver
egli ridotto l'aggravio di mille e ducento fiorini d'oro, che pagava il
popolo di Reggio ogni mese, a soli quattrocento: conchiudendo ch'egli
trasse dall'inferno le città già suddite di Bernabò, e le mise in
paradiso. La tirannia, la crudeltà e il troppo salassare i popoli non
furono mai il vero mezzo per continuare o propagare i dominii.

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